Sulla decorrenza del dies a quo ai fini della riassunzione post fallimento

14 Ottobre 2024

La Corte dà continuità all’orientamento espresso dalle Sezioni Unite in tema del decorso del termine per la riassunzione o prosecuzione del processo interrotto ex art. 43, comma 3, l. fall., affermando che il dies a quo coincide con quello in cui la dichiarazione giudiziale dell'interruzione viene portata a conoscenza di ciascuna parte, ivi compresa la parte fallita e lo stesso curatore.

Massima

In caso di apertura del fallimento, l'interruzione del processo è automatica ai sensi dell'art. 43, comma 3, l. fall., ma il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all'art. 305 c.p.c. e al di fuori delle ipotesi di improcedibilità ai sensi degli artt. 52 e 93 l. fall. per le domande di credito, decorre dal momento in cui la dichiarazione giudiziale dell'interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, qualora non già conosciuta in ragione della sua pronuncia in udienza ai sensi dell'art.176, comma 2, c.p.c., va notificata alle parti o al curatore da uno degli interessati o comunque comunicata dall'ufficio giudiziario.

Tale principio assume portata generale e trova operatività sia nei confronti delle parti processuali non colpite dall'evento interruttivo, le quali hanno la necessità di prendere conoscenza dell'evento medesimo, altrimenti legittimamente loro ignoto, sia nei confronti della parte fallita e dello stesso curatore del fallimento, il quale ha la diversa esigenza di sapere quali siano i giudizi di cui era parte il soggetto fallito, al fine di riassumerli o proseguirli.

Il caso

Il caso sottoposto all'esame della Suprema Corte traeva origine dalla sentenza emessa dal Tribunale di prime cure, poi appellata dinanzi alla Corte d'appello, in quanto era stata rigettata sia l'opposizione proposta dalla società (appellante) avverso una cartella di pagamento (notificatale per la restituzione di somme che le erano state erogate a titolo di finanziamento pubblico per attività produttive), sia la domanda subordinata (di accertamento della responsabilità della banca, quale concessionaria del Ministero, e della stessa pubblica amministrazione per i danni conseguiti all'erronea istruzione della pratica).

Il processo di appello si interrompeva, ai sensi dell'art. 43, comma 3, l. fall., per effetto del fallimento della società appellante. A seguito di tale evento interruttivo, la curatela del fallimento chiedeva al giudice delegato l'autorizzazione a proseguire il processo e, dopo essere stata autorizzata, si costituiva nel giudizio interrotto.

La Corte d'appello, in accoglimento dell'eccezione sollevata da tutte le controparti, dichiarava l'estinzione del giudizio per violazione del termine perentorio di cui all'art. 305 c.p.c., sul rilievo che la riassunzione era avvenuta dopo la scadenza del termine perentorio di tre mesi dal momento in cui la curatela aveva avuto la conoscenza legale dell'evento interruttivo.

Nella specie, la richiesta avanzata dalla curatela al giudice delegato, ai fini della prosecuzione del giudizio interrotto, risaliva all'8 febbraio 2019 mentre la costituzione avveniva con comparsa del 7 ottobre 2019.

La curatela del fallimento proponeva, quindi, ricorso per cassazione fondandolo su ben sei motivi.

La questione

Con il primo motivo di ricorso la curatela del fallimento osservava che la questione relativa all'individuazione del dies a quo del termine per la riassunzione del processo, nel caso di interruzione automatica ex art. 43, comma 3, l. fall., era stata oggetto di contrasto, composto dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, le quali, con la sentenza 7 maggio 2021, n. 12154, avevano statuito che il termine per la riassunzione o prosecuzione del processo automaticamente interrotto per il fallimento di una delle parti, al fine di evitare gli effetti di estinzione di cui all'art. 305 c.p.c., decorre dal momento in cui la dichiarazione giudiziale dell'interruzione stessa è portata a conoscenza di ciascuna parte. La ricorrente curatela rilevava che, nel giudizio d'appello, in cui essa si era comunque costituita prima dell'udienza di precisazione delle conclusioni, in funzione delle esigenze di rapidità ed economia processuale, non era stata resa, prima di detta udienza, alcuna dichiarazione giudiziale dell'evento interruttivo idonea ad attribuire alle parti la legale conoscenza dello stesso. Concludeva che, pertanto, l'estinzione del processo era stata illegittimamente dichiarata, non essendosi verificata alla data della sua costituzione in giudizio (7 ottobre 2019) la scadenza del termine perentorio di cui all'art. 305 c.p.c.

Nel resistere al primo motivo di ricorso, l'istituto di credito controricorrente sosteneva che il principio enunciato dalle Sezioni Unite con la sentenza 12154/2021 sarebbe operativo esclusivamente nei confronti delle parti processuali non colpite dall'evento interruttivo, le sole ad avere la necessità di prendere conoscenza dell'evento medesimo, altrimenti legittimamente loro ignoto, ovverosia di sapere che una delle altre parti è stata dichiarata fallita; questa necessità non riguarderebbe, invece, il curatore del fallimento, il quale avrebbe la diversa esigenza di sapere quali siano i giudizi di cui era parte il soggetto fallito, al fine di riassumerli o proseguirli; di conseguenza, per il curatore del fallimento troverebbe applicazione il tradizionale principio, secondo cui, in caso di interruzione automatica del processo, determinata dall'apertura del fallimento, giusta l'art. 43, terzo comma, l. fall., ai fini del decorso del termine per la riassunzione non è sufficiente la sola conoscenza dell'evento interruttivo, rappresentato dalla dichiarazione di fallimento, ma è necessaria anche la conoscenza dello specifico giudizio sul quale l'effetto interruttivo è in concreto destinato ad operare.

La banca controricorrente deduceva ulteriormente che il principio enunciato dalle Sezioni Unite, ed invocato dalla curatela, sarebbe stato inapplicabile alla fattispecie in esame, oltre che ratione materiae (in quanto riferibile alla sola parte processuale non fallita e non pure alla curatela), anche ratione temporis, in quanto esso trarrebbe fondamento positivo da una disposizione – l'art. 143, comma 3, del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (a mente del quale «L'apertura della liquidazione giudiziale determina l'interruzione del processo. Il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre da quando l'interruzione viene dichiarata dal giudice») – contenuta in una fonte normativa (il codice della crisi d'impresa e della insolvenza) non ancora entrata in vigore al tempo della sua enunciazione.

Peraltro, laddove si fosse dovuta favorire un'interpretazione ampia del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite (come riferibile, oltre che alla parte processuale non fallita, anche alla curatela), si sarebbe posta una questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 305 c.p.c., 43, comma 3, l. fall. e 143, comma 3, del citato d.lgs. n. 14/2019 (nonché della norma transitoria contenuta nell'art. 390, comma 2, dello stesso decreto legislativo), sia in riferimento agli artt. 70 e 101, secondo comma, Cost. (per essere stata in concreto determinata un'anticipazione nel tempo dell'entrata in vigore di una norma di legge in contrasto con il principio per cui la funzione legislativa è esercitata dalle Camere, nonché, più in generale, in contrasto con il principio della separazione dei poteri e della sottoposizione del giudice alla legge), sia in riferimento all'art. 3 Cost. (per lesione dei principi di legittimo affidamento, di certezza del diritto, di ragionevolezza e di irretroattività della legge), sia, infine, in riferimento all'art. 1111, comma 2, e 117 Cost. (quest'ultimo per interposizione del parametro convenzionale di cui all'art. 6 CEDU), a causa della violazione dei principi del giusto processo e della parità delle armi tra le parti processuali.

Sulla base di tali considerazioni, la controricorrente invocava, dunque, in alternativa alla declaratoria di inammissibilità o al rigetto del ricorso, una nuova rimessione alle Sezioni Unite (anche in chiave di interpretazione della sentenza 12154/2021) oppure la sollevazione delle dette questioni di costituzionalità dinanzi al giudice delle leggi.

Le soluzioni giuridiche

Preliminare all'esame dei motivi è stata la questione, non considerata dal giudice di appello né evocata dalle parti, ma rilevabile d'ufficio, della eventuale improcedibilità delle domande, ex artt. 52, comma 2, e 93 l. fall., nella parte in cui pongono a proprio fondamento posizioni creditorie verso la parte fallita.

A tal proposito, dal combinato disposto degli artt. 51 e 52 della legge fallimentare può desumersi il c.d. "canone della universalità soggettiva", comportante la soggezione dei creditori del fallito alle norme specifiche sulla formazione dello stato passivo e l'esclusione della possibilità di azioni autonome sui beni del fallito. Di conseguenza, ogni credito vantato nei confronti del fallito va accertato, salvo diverse disposizioni di legge, secondo le norme stabilite dal Capo V della legge fallimentare, dinanzi al giudice delegato al fallimento (Cass. civ., 19 agosto 2003, n. 12114; Cass. civ., 2 aprile 2004, n. 6502; Cass. civ., 1° aprile 2005, n. 6918; Cass. civ., 18 maggio 2005, n. 10414).

Questo principio generale trova ovviamente applicazione anche nella specifica ipotesi in cui, sebbene l'azione sia stata debitamente esperita con rito ordinario nei confronti della parte in bonis, sopravvenga la dichiarazione di fallimento nelle more del giudizio. In tale ipotesi, all'esito dell'interruzione, il processo dovrà quindi essere riassunto nei confronti del curatore fallimentare dinanzi al giudice delegato, secondo il rito previsto dalla legge speciale, e non già dinanzi al giudice che aveva dichiarato l'interruzione.

L'indebita proposizione o continuazione della domanda secondo le forme ordinarie non dà luogo ad una questione di competenza ma ad una questione di rito. Di conseguenza, il giudice indebitamente investito della domanda (o della prosecuzione della stessa) con rito ordinario non deve dichiarare la propria incompetenza in favore del tribunale fallimentare (che non costituisce un organo giudicante diverso dal tribunale ordinario), ma deve dichiarare, secondo i casi, l'inammissibilità, l'improcedibilità o l'improponibilità della domanda medesima, siccome proposta con un rito diverso da quello previsto come necessario dalla legge, e dunque inidonea a conseguire una pronuncia di merito (cfr., oltre alla citata Cass. civ., 18 maggio 2005, n. 10414, Cass. civ., 23 dicembre 2003, n. 19718).

La questione, nella fattispecie in esame, va quindi risolta nel senso della procedibilità delle domande. La Suprema Corte ha affermato che, nel caso in cui un soggetto, rimasto soccombente all'esito di un giudizio di condanna, sia dichiarato fallito nel corso del giudizio di impugnazione, l'azione proposta non è improcedibile, in quanto, a norma dell'art. 96 l. fall., il creditore, sulla base della sentenza impugnata, può insinuarsi al passivo con riserva, mentre il curatore, dal suo canto, può proseguire il giudizio di impugnazione (Cass. civ., 30 maggio 2019, n. 14768; nello stesso senso, in tema di liquidazione coatta amministrativa, Cass. civ., 22 aprile 2022, n. 12948).

È stato, poi, anche affermato che, in tema di ammissione al passivo fallimentare con riserva, l'articolo 96, secondo comma, n. 3, l. fall. deve essere interpretato estensivamente, in modo da ricomprendere anche i crediti oggetto di accertamento negativo da parte di una sentenza non passata in giudicato e pronunciata prima della dichiarazione di fallimento (Cass. civ., 10 maggio 2018, n. 11362; Cass. civ., 5 maggio 2021, n. 11741).

Pertanto, anche nel caso in cui i crediti vantati nei confronti del soggetto, poi fallito, abbiano formato oggetto di domanda di accertamento negativo da parte del debitore e tale domanda sia stata rigettata, il creditore può essere ammesso al passivo sulla base della sentenza di rigetto, a lui favorevole, la quale equivale ad una sentenza di accertamento del credito.

Può, dunque, affermarsi il generale principio per cui, se il creditore ottiene una sentenza di condanna del debitore (o, comunque, una sentenza di accertamento del credito, anche emessa in reiezione di un'azione di accertamento negativo esperita dal debitore) prima che si apra, nei confronti di quest'ultimo, una procedura concorsuale, egli, sulla base di tale sentenza, pur soggetta ad impugnazione, deve essere ammesso al passivo con riserva, ai sensi dell'art. 96, comma 2, n. 3, l. fall., mentre il curatore può proporre l'impugnazione o proseguirla se era già stata proposta dalla parte in bonis, non determinandosi, pertanto, l'improcedibilità della domanda.

Nel caso di specie, il Tribunale aveva rigettato l'opposizione a cartella esattoriale proposta dalla società in bonis, accertando la sussistenza del diritto di credito vantato da Agenzia delle Entrate-Riscossione, diritto che avrebbe potuto essere ammesso al passivo con riserva, ex art. 96, comma 2, n. 3, l. fall., senza precludere al curatore della società, una volta sopravvenuto il fallimento, di proporre o proseguire il giudizio di impugnazione.

Ciò posto, la Suprema Corte ha ritenuto fondato il primo motivo di ricorso e per effetto del suo accoglimento assorbiti gli altri, dando così continuità al principio statuito dalle Sezioni Unite, ossia che in caso di apertura del fallimento, l'interruzione del processo è automatica ai sensi dell'art. 43, comma 3, l. fall., ma il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all'art. 305 c.p.c. e al di fuori delle ipotesi di improcedibilità ai sensi degli artt. 52 e 93 l. fall. per le domande di credito (nella specie, come detto, non integrantisi), decorre dal momento in cui la dichiarazione giudiziale dell'interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, qualora non già conosciuta in ragione della sua pronuncia in udienza ai sensi dell'art.176, comma 2, c.p.c., va notificata alle parti o al curatore da uno degli interessati o comunque comunicata dall'ufficio giudiziario (Cass., sez. un., 7 maggio 2021, n. 12154).

Questo principio assume portata generale e trova operatività sia nei confronti delle parti processuali non colpite dall'evento interruttivo, le quali hanno la necessità di prendere conoscenza dell'evento medesimo, altrimenti legittimamente loro ignoto, sia nei confronti della parte fallita e dello stesso curatore del fallimento, il quale ha la diversa esigenza di sapere quali siano i giudizi di cui era parte il soggetto fallito, al fine di riassumerli o proseguirli.

Nel caso di specie, contrariamente a quanto rilevato dai controricorrenti, è emerso che non era stata dichiarata l'interruzione del giudizio, pronunciata in udienza ex art. 176, comma 2, c.p.c. in presenza delle parti o in confronto di parti che avrebbero dovuto comparirvi ed è addirittura incontroverso che la dichiarazione giudiziale di interruzione non era stata notificata al curatore né a lui comunicata dalla cancelleria. Di conseguenza, al momento della riassunzione del processo d'appello da parte della curatela, il termine ex art. 305 c.p.c., lungi dall'essere scaduto, non era neppure iniziato a decorrere.

L'argomento di parte controricorrente secondo cui il principio si applicherebbe solo alle parti non colpite dall'evento interruttivo non è stato condiviso, perché le Sezioni Unite sono state investite proprio del compito di trovare una soluzione uniforme, superando le precedenti discordanze ravvisatesi negli orientamenti di legittimità che differenziavano tra parte fallita e parte non fallita.

Del pari, non ha colto nel segno neppure l'argomento secondo il quale il principio trarrebbe linfa da una norma non ancora entrata in vigore; secondo la Suprema Corte vale, invece, il contrario, in quanto la soluzione della giurisprudenza, volta a colmare in via interpretativa una lacuna testuale dell'art. 43, comma 3, l. fall. è stata recepita dal legislatore con l'art. 143 c.c.i.i.

Per le stesse ragioni, inoltre, è stata ritenuta manifestamente infondata la prospettata questione di legittimità costituzionale.

Il contrasto di una norma legislativa ordinaria con il principio della irretroattività della legge e con quello della separazione dei poteri presuppone il superamento dei limiti della funzione interpretativa che la Costituzione repubblicana (art.70) riconosce al legislatore ordinario nelle forme della "interpretazione autentica" (cfr. già Corte cost. n. 118 del 1957 e Corte cost. n. 175 del 1974; più recentemente v. Corte cost. n. 41 del 2011; Corte cost. n. 71 del 2010; Corte cost. n. 311 del 2009); superamento che avviene attraverso l'introduzione di norme autoqualificantisi come interpretative, ma, in realtà, aventi carattere innovativo, con efficacia retroattiva.

In tale ipotesi, la nuova disposizione, pur dicendosi interpretativa, non si limita a selezionare uno dei plausibili significati di una disposizione precedente, quella interpretata, originariamente connotata da un certo tasso di polisemia, così dando luogo ad una norma, risultante dalla saldatura tra le due disposizioni, che assume tale significato sin dall'origine, con una retroattività solo apparente (ex multis, Corte cost. n. 238 del 2022; n. 104 del 2022; n. 133 del 2020; n. 274 del 2015.; Corte cost. n. 397 del 1994); piuttosto, essa attribuisce alla disposizione interpretata un significato nuovo, non rientrante tra quelli già estraibili dal testo originario della disposizione medesima, così determinando una innovazione nell'ordinamento giuridico (Corte cost. n. 167 del 2018; n. 209 del 2010; n. 155 del 1990; n. 175 del 1974), che, in quanto, operata mediante modifica, ora per allora, della precedente disposizione, ove non trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza, si pone in contrasto con un principio (l'irretroattività della legge) il quale, pur non ricevendo in via generale la tutela privilegiata riservata dalla Costituzione (art. 25) esclusivamente alla materia penale, costituisce pur sempre un valore fondamentale di civiltà giuridica, che deve essere tendenzialmente preservato, in conformità al disposto dell'art.11 disp. prel. c.c. (ex multis, Corte cost. n. 70 del 2020; n.174 del 2019; n. 73 del 2017).

In senso ancora più specifico, la lesione, ad opera di una norma di legge o di atto avente valore di legge, della garanzia del giusto processo e della parità delle armi tra le parti processuali (artt. 111 e 117 Cost; art.6 CEDU), postula non soltanto l'introduzione di una norma innovativa con carattere retroattivo che neutralizzi e ribalti una precedente situazione di diritto vivente, ma anche che ciò avvenga in pendenza di un processo con un intervento legislativo diretto a mutare le "regole del giuoco" – ossia le norme applicabili alla fattispecie concreta dedotta in giudizio – introducendo, come ius superveniens con efficacia retroattiva, una diversa regolamentazione della fattispecie astratta (cfr. Corte cost. n. 174 del 2019; n. 127 del 2015; n. 1 del 2011).

Il principio costituzionale della parità delle armi è, infatti, violato quando il legislatore immette nell'ordinamento una fattispecie di "ius singulare" che determina lo sbilanciamento tra due posizioni in giuoco (Corte cost. n. 46 del 2021; n. 12 del 2018; n. 191 del 2014; n. 186 del 2013).

Nella fattispecie in esame, la questione di costituzionalità è stata prospettata non sul presupposto di un superamento dei limiti della funzione interpretativa attribuita (anche) al legislatore (art.70 Cost.), ma su quello, contrario, dell'erroneo esercizio della medesima funzione (istituzionalmente) devoluta alla giurisdizione in funzione dell'applicazione della legge (art. 101 Cost.); ciò, sul rilievo che il principio sancito dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, pur elaborato in sede di interpretazione dell'art. 43, terzo comma, della legge fallimentare, ove inteso nella sua complessiva portata, si tradurrebbe in un precetto coincidente con il disposto dell'art. 143, comma 3, c.c.i.i., non applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame.

Secondo la Suprema Corte, pertanto, non susisteva la manifesta non fondatezza della prospettata questione di costituzionalità, non vertendosi in ipotesi di indebita retroazione dell'efficacia di una norma di legge non applicabile ratione temporis, ma di doverosa applicazione alla fattispecie della disciplina già prevista dalla legge medesima in via generale ed astratta, nel senso ad essa attribuito dal giudice della nomofilachia, nel suo massimo consesso.

In definitiva, per effetto dell'accoglimento del primo motivo di ricorso, la sentenza impugnata è stata cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello, in diversa composizione, che, dato atto della tempestiva riassunzione del processo interrotto, sarà tenuta ad esaminare nel merito i motivi di gravame proposti avverso la sentenza del Tribunale. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità (art. 385, comma 3, c.p.c.).

Osservazioni

Con il provvedimento in esame la Suprema Corte ha confermato il principio di diritto già espresso dalle Sezioni Unite che rappresenta il coerente bilanciamento degli interessi di tutte le parti processuali, in adesione al principio costituzionale della parità delle armi. Laddove il giudizio (pendente ed interrotto) risulti attratto dalla procedura concorsuale, a riprova della tutela garantita a tutte la parti processuali, non sono mancate le decisioni di merito che hanno chiarito gli esatti confini per il calcolo del dies a quo ai fini della successiva riassunzione.

In particolare, qualora in udienza la parte medio tempore fallita non presenzi e la parte diligente dichiari al giudice la notizia dell'intervenuta dichiarazione di fallimento, pur in assenza di qualsiasi notifica ufficiale, l'interruzione del giudizio disposta dal giudice ai fini della riassunzione nei confronti della curatela fallimentare, rappresenta l'ufficialità della conoscenza giudiziale dell'evento.

Sul punto, al fine di individuare il dies a quo per riassumere, la giurisprudenza ha stabilito la decorrenza dalla conoscenza legale dell'evento interruttivo (Trib. Reggio Emilia, sez. II civile, sentenza 14 settembre 2017, n. 903).   

Pertanto, la declaratoria di fallimento non basta a far decorrere il termine per riassumere il processo, ma occorre che vi sia una «conoscenza legale, cioè acquisita non in via di mero fatto, ma per il tramite di una dichiarazione, notificazione o certificazione rappresentativa dell'evento che determina l'interruzione del processo, assistita da fede privilegiata» (Cass. civ., 15 marzo 2018, n. 6398, Cass. civ., 28 dicembre 2016, n. 27165, Cass. civ., 13 marzo 2013, n. 6331, Cass. civ., sez. lav., 7 marzo 2013, n. 5650, Cass. civ., 25 febbraio 2015, n. 3782, Cass. civ., 11 febbraio 2010, n. 3085). 

Ed infatti, come confermato dalla giurisprudenza di legittimità, «in caso di interruzione automatica del processo determinata dalla dichiarazione di fallimento di una delle parti, il termine per la riassunzione di cui all'art. 305 c.p.c. decorre dalla dichiarazione o notificazione dell'evento interruttivo secondo la previsione dell'art. 300 c.p.c., ovvero, se anteriore, dalla conoscenza legale di detto evento procurata dal curatore del fallimento alle parti interessate» (Cass. civ., 30 gennaio 201, n.2658).

Ne deriva che la conoscenza legale del fallimento non è in alcun modo collegata al deposito della sentenza di fallimento nel fascicolo telematico del giudizio pendente, atteso che, secondo l'insegnamento della Suprema Corte, atto idoneo a determinare il decorso del termine per la riassunzione è “la dichiarazione resa dal difensore” nel processo, «stante l'obbligo gravante sul procuratore della parte poi dichiarata fallita, quale mandatario, di rendere nota la circostanza alla curatela, obbligo scaturente dalla disciplina sostanziale in tema di mandato ed in particolare dal combinato disposto dagli articoli 1728 e 1710 c.c., come sottolineato da Corte Costituzionale n. 136/1992» (Cass. civ., 13 marzo 2013, n. 6331, Cass. civ., sez. lav., 7 marzo 2013, n. 5650).

Invero, la declaratoria di fallimento, in quanto tale, non è di per sé idonea a far decorrere il termine per riassumere il processo, e ciò né con riferimento alla controparte, atteso che la stessa potrebbe non essere a conoscenza dell'evento, né con riferimento al curatore, il quale è certamente a conoscenza dell'evento ma potrebbe non conoscere l'esistenza del singolo processo sul quale l'evento interruttivo deve operare: occorre quindi, tanto con riferimento alla parte non fallita, quanto con riferimento al curatore, una «conoscenza legale, cioè acquisita non in via di mero fatto, ma per il tramite di una dichiarazione, notificazione o certificazione rappresentativa dell'evento che determina l'interruzione del processo, assistita da fede privilegiata» (Cass. civ., 30 novembre 2018, n. 31010, Cass. civ., 28 dicembre 2016, n. 27165, Cass. civ., 13 marzo 2013, n. 6331 e Cass. civ., sez. lav., 7 marzo 2013, n. 5650). 

Pertanto, per la decorrenza del termine ai fini della riassunzione del processo, imprescindibile resta la conoscenza legale della sentenza di fallimento. Il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre non già dal giorno in cui si è verificato l'evento interruttivo, bensì da quello in cui tale evento sia venuto in forma legale a conoscenza della parte interessata alla riassunzione, con la conseguenza che il relativo dies a quo «può ben essere diverso per una parte rispetto all'altra» (Cass. civ., 30 novembre 2018 n. 31010), e non coincide con la data di apertura del fallimento.

In tal senso si era già espressa anche la giurisprudenza di merito: «i tre mesi previsti per la riassunzione, non debbono iniziare a decorrere dall'evento interruttivo, ma piuttosto dalla data in cui il soggetto interessato alla riassunzione ha avuto conoscenza dell'evento interruttivo» (Trib. Como, 25 settembre 2015); «La conoscenza legale della declaratoria di fallimento da cui far decorrere il termine per la riassunzione deve intendersi in senso processualcivilistico con riferimento alla data nella quale l'intervenuto fallimento sia stato portato a conoscenza della parte ad opera della controparte a mezzo di dichiarazione in udienza ovvero di atto notificato» (Trib. Milano, 27 marzo 2014); «Qualora la causa venga dichiarata interrotta per l'intervenuto fallimento di una delle parti, il termine per la riassunzione per la parte diversa da quella dichiarata fallita o, comunque, diversa dai soggetti che hanno partecipato al procedimento per la dichiarazione di fallimento, decorre dalla data di effettiva conoscenza dell'evento interruttivo e non dal suo verificarsi» (Trib. Venezia, 6 febbraio 2013).  

Quindi, ferma l'automaticità dell'evento interruttivo a seguito della sentenza di fallimento, il termine perentorio, fissato in tre mesi, per la riassunzione del processo decorre dal momento, necessariamente successivo, da cui risulti una dichiarazione, notificazione, comunicazione o certificazione dell'evento realizzatasi nel processo.

Nell'attuale sistema processuale, è principio consolidato che l'art.305 c.p.c. vada interpretato nel senso che il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre non già dal giorno in cui si è verificato l'evento interruttivo, bensì da quello in cui tale evento sia venuto in forma legale a conoscenza della parte interessata alla riassunzione (Trib. Pavia, 31 marzo 2016).

Orbene l'art.43 l. fall. ha introdotto un nuovo caso di interruzione automatica del processo conseguente all'apertura del fallimento, ma nulla ha previsto quanto alla riassunzione sicché al riguardo continua a trovare applicazione l'art. 305 c.p.c. nel testo risultante a seguito delle pronunzie della Corte Costituzionale e del principio di diritto che sulla base di esse si è consolidato.

Le argomentazioni, già da tempo utilizzate dalla giurisprudenza di merito, hanno privilegiato la tesi - confermata nella recente pronuncia in commento - secondo la quale il termine di riassunzione non può decorrere, anche per la controparte processuale dell'impresa fallita, se non dal momento in cui questa acquisisca conoscenza legale o effettiva dell'evento fallimentare (Trib. Milano, 23 ottobre 2014).

Si è così ipotizzato che il termine per la riassunzione decorra, per il curatore, dalla dichiarazione di fallimento e per la parte in bonis dal momento della legale conoscenza dell'evento (App. Torino, 31 dicembre 2012; Trib. Vicenza, 15 giugno 2015), conoscenza che deriva dalla dichiarazione in udienza o dalla notificazione, non potendo invece essere presunta per effetto della iscrizione a Registro Imprese della sentenza di fallimento, pur potendo derivare dalla ricezione della comunicazione prescritta dall'art.92 (Trib. Brescia 8 gennaio 2013).

In tema di individuazione del dies a quo dal quale far decorrere il termine di tre mesi previsto dall'art. 305 c.p.c. per la riassunzione del processo interrotto ipso iure in caso di apertura del fallimento, con la sentenza n. 12154 del 7 maggio 2021 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno enunciato il seguente principio di diritto: «in caso di apertura del fallimento, ferma l'automatica interruzione del processo (con oggetto i rapporti di diritto patrimoniale) che ne deriva ai sensi della l.fall, art.43, comma 3, il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all'art.305 c.p.c. e al di fuori delle ipotesi di improcedibilità ai sensi della l.fall, artt.52 e 93 per le domande di credito, decorre da quando la dichiarazione giudiziale dell'interruzione stessa sia stata portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, ove già non conosciuta nei casi di pronuncia in udienza ai sensi dell'art.176 c.p.c., comma 2, va direttamente notificata alle parti o al curatore da ogni altro interessato ovvero comunicata – ai predetti fini – anche dall'ufficio giudiziario, potendo inoltre il giudice pronunciarla altresì d'ufficio, allorché gli risulti, in qualunque modo, l'avvenuta dichiarazione di fallimento medesima».

In tal senso, quindi, è stato individuato un collegamento tra l'onere di riassumere il processo interrotto alla dichiarazione giudiziale di interruzione per intervenuto fallimento della parte, affermando che il termine «per la riassunzione del giudizio decorre da quando l'interruzione viene dichiarata dal giudice». Il supremo consesso, identificando nella dichiarazione giudiziale l'elemento costitutivo del dies a quo per la decorrenza del termine di riassunzione, ha coordinato gli effetti dell'art.43 l. fall. con le disposizioni processuali dettate in tema di interruzione e riassunzione del processo, privilegiando gli effetti di affidabilità, prevedibilità e uniformità dell'interpretazione delle norme processuali.

La circostanza che il nuovo Codice, rispetto alla legge fallimentare, abbia chiarito la portata del precetto normativo (art. 143, comma 3), dimostra che ancorare il termine per la riassunzione del processo interrotto alla decorrenza della dichiarazione di interruzione pronunciata dal giudice è sinonimo di garanzia del giusto processo e di quell'equilibrio tra le parti processuali al quale tende il principio della parità delle armi, come confermato dalla Suprema Corte che ha inteso dare continuità al principio delle Sezioni Unite.

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