Licenziamento per giusta causa: legittimi gli accertamenti investigativi del datore di lavoro atti a dimostrare l’effettivo stato di malattia del dipendente
18 Ottobre 2024
L’art. 5 dello Statuto dei lavoratori non impedisce al datore di lavoro di effettuare accertamenti riguardanti situazioni di fatto e finalizzati a verificare la sussistenza dello stato di malattia del lavoratore. È legittimo, pertanto, il licenziamento per giusta causa del lavoratore in malattia basato su una relazione investigativa che ha accertato condotte del dipendente incompatibili con lo stato di malattia dichiarato. Il caso Licenziamento per falsa attestazione dello stato di malattia dimostrato mediante relazione investigativa Un lavoratore ricorre in Cassazione dopo che entrambi i gradi di merito avevano ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa a lui intimato. Il datore di lavoro aveva ritenuto che, durante il periodo di malattia, il lavoratore ricorrente avesse tenuto comportamenti incompatibili con la patologia dichiarata. Tale convinzione si basava sull'attività di pedinamento svolta da un'agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro che nutriva – evidentemente- dubbi sull'effettivo stato morboso del ricorrente. Sulla base della relazione investigativa il datore di lavoro aveva contestato al lavoratore ricorrente condotte ed attività che sconfessavano la malattia certificata. Al termine del procedimento disciplinare il datore di lavoro aveva optato per il licenziamento per giusta causa. Il motivo principale del ricorso in Cassazione depositato dal lavoratore attinto dal licenziamento è la violazione dell'art. 5 dello Statuto dei lavoratori. Sostiene, infatti, che la Corte d'Appello avesse errato nel ritenere che il pedinamento effettuato nei suoi confronti mediante agenzia investigativa fosse escluso dal divieto di effettuare controlli sull'idoneità e sull'infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente. La questione Il rapporto tra art. 5 dello Statuto dei lavoratori e controlli investigativi per verificare l'effettivo stato di malattia del dipendente Il datore di lavoro, al di fuori delle verifiche sanitarie che in base all'art. 5 dello statuto dei lavoratori competono all'Inps e all'Asl, può effettuare in proprio accertamenti di circostanze di fatto e comportamenti tenuti dal lavoratore durante il periodo di malattia al fine di verificare se essi siano compatibili con la patologia comunicata? La soluzione giuridica La Cassazione conferma dell'utilizzabilità delle indagini svolte da un investigatore privato per dimostrare condotte incompatibili con lo stato di morboso dichiarato dal lavoratore La Corte di cassazione ritiene legittimo il comportamento di parte datoriale che si è affidata ad un'agenzia investigativa per verificare i comportamenti e le condotte tenute dal lavoratore durante il periodo di malattia. Conferma, quindi, un orientamento consolidato secondo il quale l'art. 5 dello statuto dei lavoratori non impedisce al datore di lavoro, eccezion fatta ovviamente per controlli di carattere sanitario, di svolgere verifiche finalizzate a dimostrare l'assenza della malattia o di una gravità tale di quest'ultima da giustificare lo stato d'inidoneità lavorativa (cfr. ex plurimisCass., sez. lav., ord. 17 giugno 2020, n. 11697; Cass., sez. lav., 26 novembre 2014, n. 25162). Osservazioni Utilizzabilità dell'investigatore privato limitatamente alla verifica di condotte illecite, ma non per controllare l'esatto adempimento della prestazione lavorativa L'ordinanza qui brevemente annotata riconferma la possibilità del datore di lavoro di effettuare controlli non di carattere medico volti a verificare la veridicità dello stato morboso. Dunque, al di fuori dei controlli di carattere medico demandati ad enti pubblici preposti, in ossequio all'art. 24 Cost., il datore di lavoro può effettuare accertamenti di fatto volti a confutare lo stato morboso dichiarato dal lavoratore. L'ordinanza in commento non si dilunga sulle condizioni che giustificano l'utilizzo di un agente investigativo da parte di un datore di lavoro. Ad esempio è opportuno precisare come in precedenti simili i Giudici del Palazzaccio avessero confermato la legittimità dell'utilizzo degli agenti investigativi per verificare la correttezza dei comportamenti tenuti dai dipendenti al di fuori del luogo di lavoro. Nel caso specifico di assenza dal lavoro per dichiarata malattia, la Suprema Corte, nella sentenza n. 25162 del 26 novembre 2014, aveva affermato che l'ipotesi di attestazione non veritiera dell'inidoneità lavorativa rientrasse nel concetto di condotta illecita. Sulla base di tale catalogazione ritenevano che l'effettivo stato morboso potesse essere oggetto di verifica anche mediante attività investigativa demandata terzi. Infatti, non si trattava di un accertamento sulla corretta esecuzione della prestazione lavorativa, ma finalizzato a confermare o escludere la sussistenza di un comportamento extralavorativo illecito. La Suprema Corte ha più volte puntualizzato, ancora di recente con l'ordinanza 20 giugno 2024, n. 17004 che l'attività di controllo effettuata da soggetti terzi, come agenti investigativi o guardie giurate, è circoscritta ad atti illeciti svolti dal lavoratore e non ricollegabili all'inadempimento dell'obbligazione contrattuale (in senso conforme si veda anche Cass., sez. lav., ord. 12 marzo 2024, n. 6468, Cass., sez. lav., ord. 1° marzo 2019, n. 6174).Infatti il datore di lavoro può controllare l'esatto adempimento della prestazione lavorativa esclusivamente in prima persona o mediante l'organizzazione gerarchica che fa lui a capo e riconosciuta dal lavoratore. Conclusioni Effettiva incompatibilità della condotta extralavorativa con la malattia: onere probatorio a carico del datore di lavoro Se è corretto e ormai monolitico il principio riaffermato dall'ordinanza in commento in merito alla possibilità di verificare i comportamenti tenuti dal lavoratore nel periodo di assenza per malattia, pare opportuno rimarcare come sia necessario che le contestazioni a seguito dei controlli abbiano ad oggetto condotte medicalmente riconosciute come incompatibili con la patologia dichiarata o quantomeno che possano aver ritardato la guarigione. Ancora di recente la Cassazione, con l'ordinanza del 12 agosto 2024, n. 22712 ha confermato la sentenza della Corte d'appello di Milano che aveva annullato il licenziamento di un lavoratore motivato dal fatto che durante il periodo di assenza per malattia aveva svolto attività sportiva, circostanza quest'ultima documentata da una relazione investigativa. Gli Ermellini avevano ritenuto corretta sul punto la sentenza della Corte d'appello di Milano poiché il lavoratore aveva prodotto documentazione medica dalla quale risultava che lo svolgimento dell'attività sportiva era stata prescritta dai medici e non aveva comportato un ritardo nella guarigione. Infatti, il lavoratore, al termine del periodo di convalescenza stabilita dall'ospedale a seguito di un'operazione alla quale si era dovuto sottoporre, era regolarmente tornato a svolgere le proprie mansioni. Giova precisare, come ribadito ancora dall'ordinanza del 6 maggio 2024, n. 12652 che l'onere di dimostrare l'incompatibilità della condotta rispetto allo stato patologico dichiarato o il fatto che possa ritardare o pregiudicare la guarigione spetti al datore di lavoro. Infatti l'art. 5 della I. n. 604 del 1966 stabilisce che deve essere il datore di lavoro a dimostrare tutti gli elementi di fatto che integrano la fattispecie che giustifica il licenziamento e, dunque, tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l'illecito disciplinare contestato. Solamente se il datore di lavoro prova una delle due ipotesi sopra descritte il licenziamento è valido. È stato confermato in svariate pronunce della Suprema Corte l'assenza nel periodo di malattia di un divieto assoluto di prestare altre attività di carattere lavorativo (cfr. ex plurimis Cass. , sez. lav., 26 aprile 2022, n.13063) o di carattere ludico (Cass. , s ez. l av. , ord . 7 luglio 2020 , n. 13980). In ultimo si evidenzia un'interessante sentenza della Suprema Corte la dell'11 ottobre 2023 , n. 28378 , che ha sancito l'inutilizzabilità della relazione investigativa se questa è stata stilata da soggetti non facenti parte dell'agenzia investigativa come eccepito dal lavoratore nel proprio ricorso. La Cassazione aveva rilevato che nel corso dei due gradi giudizio di merito fosse stato accertato che l'agenzia investigativa avesse eseguito l'incarico subappaltando i pedinamenti ad investigatori esterni. Pur rilevando che il conferimento d'incarico sottoscritto dal datore di lavoro permettesse la possibilità di subappaltare alcune fasi dell'attività investigativa, dagli atti era emerso come non fosse possibile identificare quali soggetti avessero effettivamente svolto l'attività di pedinamento. Tale omissione era in contrasto con l'art. 8 del Codice di deontologia per i trattamenti di dati personali effettuati per lo svolgimento di indagini difensive (all. A.6 del d. lgs. n. 196/2003). Detta norma in allora in vigore (si tratta infatti di un caso accaduto prima dell'emanazione del d.lgs. n. 101/2018) prevedeva che “l'investigatore privato deve eseguire personalmente l'incarico ricevuto e può avvalersi solo di altri investigatori privati indicati nominativamente all'atto del conferimento dell'incarico, oppure successivamente in calce a esso qualora tale possibilità sia stata prevista nell'atto di incarico”. Secondo la Suprema Corte la violazione di tale regola deontologica, avente carattere normativo e che poteva essere eccepita anche d'ufficio dal giudice, comportava l'inutilizzabilità dei dati raccolti e presenti nella relazione investigativa. Tale sanzione derivava dall'applicazione dell'allora in vigore art. 11 comma 2 del d.lgs. n. 169/2003. Quest'ultima norma prevedeva che i dati personali raccolti in violazione della disciplina in materia di trattamento dei dati personali non potessero essere utilizzati. La Suprema Corte, sulla base di tale motivazione, ha ritenuto che il datore di lavoro non potesse usare tali dati sensibili acquisiti in maniera illegittima ai fini disciplinari e nemmeno potessero essere prodotti in giudizio. Di conseguenza veniva meno la motivazione del licenziamento con conseguente nullità dello stesso. |