L'ammissibilità delle registrazioni audio come prova nel processo del lavoro
La Cassazione ha più volte affermato che la registrazione di una conversazione tra presenti possa costituire fonte di prova entro i limiti e le condizioni specificamente individuate.
Si è, in particolare, statuito che la registrazione su nastro magnetico di una conversazione possa costituire fonte di prova secondo quanto stabilito dall'art. 2712 c.c. se colui contro il quale la registrazione è prodotta non contesti che la conversazione sia realmente avvenuta, né che abbia avuto il tenore risultante dal nastro e sempre che almeno uno dei soggetti, tra cui la conversazione si svolge, sia parte in causa (le registrazioni, quindi, non potranno essere utilizzate per contestare l'attendibilità o la credibilità dei testimoni); il disconoscimento, da effettuare nel rispetto delle preclusioni processuali degli artt. 167 e 183 c.p.c., deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito e deve concretizzarsi nell'allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta (Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 2018, n. 1250; Cass. civ., sez. VI, 1° marzo 2017, n. 5259; Cass. civ., sez. lav., 29 dicembre 2014, n. 27424).
La Suprema Corte, in particolare, con la decisione Cass. civ., sez. lav., 29 settembre 2022, n.28398, ha stabilito che: «Nel valutare se la condotta di registrazione di conversazioni tra un dipendente e i suoi colleghi presenti, all'insaputa dei conversanti, potesse integrare una grave violazione del diritto alla riservatezza che giustifica il licenziamento, questa Corte ha chiarito (v. Cass. civ., sez. lav., 10 maggio 2018, n. 11322; v. anche Cass. civ., sez. lav., 10 maggio 2019, n. 12534 e Cass. civ., sez. lav., 2 novembre 2021, n. 31204, entrambe in motivazione) che l'art. 24, d.lgs. n. 196/2003 permette di prescindere dal consenso dell'interessato quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione venga eseguita, sia necessario per far valere o difendere un diritto, a condizione che essi siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (Cass. civ., sez. I, 20 settembre 2013, n. 21612); sicché, l'utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell'imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio. Si è quindi affermata la legittimità (id est: inidoneità all'integrazione di un illecito disciplinare) della condotta del lavoratore che abbia effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all'interno dell'azienda e per precostituirsi un mezzo di prova, rispondendo la stessa, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto (Cass. civ., sez. lav., 10 maggio 2018, n. 11322 cit.)».
Nella stessa decisione si afferma, richiamando un proprio precedente, altresì che: «Il diritto di difesa non è limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso. Non a caso nel codice di procedura penale il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall'art. 24 Cost. sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto la qualità di parte in un procedimento».
Da tali premesse si è tratta la conseguenza che la condotta di registrazione d'una conversazione tra presenti, ove rispondente alle necessità conseguenti al legittimo esercizio per diritto di difesa, e quindi «essendo coperta dall'efficacia scriminante dell'art. 51 c.p., di portata generale nell'ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico, non può di per sé integrare illecito disciplinare (Cass. civ., sez. lav., 29 dicembre 2014, n. 27424 cit.), esigendosi un attento ed equilibrato bilanciamento tra la tutela di due diritti fondamentali, quali la garanzia della libertà personale, sotto il profilo della sfera privata e della riservatezza delle comunicazioni, da una parte e del diritto alla difesa, dall'altra (così Cass. civ., sez. lav., 2 novembre 2021, n. 31204 cit.)».
La registrazione quindi effettuata dal lavoratore è sicuramente legittima quando questa sia funzionale ad esigenze difensive e ad acquisire prove utilizzabili nel futuro ed eventuale giudizio.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha, in particolare, sottolineato, in termini generali, come la rigida previsione del consenso del titolare dei dati personali (una registrazione è essa stessa un trattamento di dati personali effettuato da chi registra) subisca «deroghe ed eccezioni quando si tratti di far valere in giudizio il diritto di difesa, le cui modalità di attuazione risultano disciplinate dal codice di rito» (Cass. civ., sez. un., 8 febbraio 2011, n. 3034). Ciò sulla scorta dell'imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio.
Di conseguenza, ed in ambito più strettamente lavoristico, è stato ulteriormente precisato che la registrazione fonografica di un colloquio tra presenti, rientrando nel genus delle riproduzioni meccaniche di cui all'art. 2712 c.c., ha natura di prova ammissibile nel processo civile del lavoro così come in quello penale. E' stato, altresì, chiarito che l'ipotesi derogatoria di cui all'art. 24, d.lgs. n. 196/2003, così come successivamente modificato, che permette di prescindere dal consenso dell'interessato, sussiste anche quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione viene eseguita, sia necessario per far valere o difendere un diritto (Cass. civ., sez. I, 20 settembre 2013, n. 21612).
Unica condizione richiesta è che i dati medesimi siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento ( Cass. civ., sez. I, 11 luglio 2013, n. 17204 e Cass. civ, sez. I, 1° agosto 2013, n. 18443).
Quanto poi al concreto atteggiarsi del diritto di difesa, è stato ritenuto che la pertinenza dell'utilizzo rispetto alla tesi difensiva va verificata nei suoi termini astratti e con riguardo alla sua oggettiva inerenza alla finalità di addurre elementi atti a sostenerla e non alla sua concreta idoneità a provare la tesi stessa o avendo riguardo alla ammissibilità e rilevanza dello specifico mezzo istruttorio.
Inoltre, il diritto di difesa non va considerato limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso (cfr. la già citata Cass. civ., sez. lav., 29 dicembre 2014, n. 27424, cit.). Non a caso nel codice di procedura penale il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall'art. 24 Cost. sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto la qualità di parte in un procedimento: basti pensare al diritto alle investigazioni difensiveex art. 391-bis c.p.p. e ss., alcune delle quali possono esercitarsi addirittura prima dell'eventuale instaurazione di un procedimento penale (cfr. art. 391-nonies c.p.p.), oppure ai poteri processuali della persona offesa, che - ancor prima di costituirsi, se del caso, parte civile - ha il diritto, nei termini di cui all'art. 408 c.p.p. e ss. - di essere informata dell'eventuale richiesta di archiviazione, di proporvi opposizione e, in tal caso, di ricorrere per cassazione contro il provvedimento di archiviazione che sia stato emesso de plano, senza previa fissazione dell'udienza camerale.
In definitiva, quindi, la registrazione di una conversazione fatta, ad esempio, all'insaputa del datore di lavoro è certamente legittima e, quindi, può entrare nell'agone del processo, quando questa sia, seppur in astratto, idonea a sostenere le pretese di un eventuale e futuro giudizio.
In altre parole, la conversazione registrata senza il consenso di uno degli interlocutori deve avere un collegamento serio e non artificioso con le pretese e le rivendicazioni del lavoratore. Questo collegamento ex ante con le pretese del lavoratore fa sì che la registrazione sia, comunque, legittima anche sia dichiarata successivamente l'infondatezza delle pretese del lavoratore. Non è da escludere, invece, che la registrazione possa ritenersi, invece, non lecita quando il giudizio si concluda con il rigetto delle pretese del lavoratore e la condanna di quest'ultimo al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c. per aver agito o resistito in giudizio con dolo, mala fede o colpa grave.
E' evidente, in questi casi, che la conversazione fatta all'insaputa dell'interlocutore possa essere ritenuta illecita e, quindi, il lavoratore potrebbe essere convenuto in un eventuale giudizio risarcitorio per aver effettuato un trattamento illecito di dati personali (la registrazione appunto).