Licenziamento per g.m.o. e repêchage: il datore non è obbligato alla formazione del dipendente in caso di affidamento di mansioni inferiori

Teresa Zappia
01 Novembre 2024

Il datore di lavoro, nell'adempimento dell'obbligo di repêchage, non è tenuto a considerare anche quelle mansioni per le quali il dipendente non possiede le competenze professionali e per le quali, dunque, sarebbe necessaria una nuova formazione.

Massima

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l'obbligo datoriale di repêchage, anche ai sensi del novellato art. 2103, secondo comma c.c., è limitato alle mansioni inferiori compatibili con il bagaglio professionale di cui il lavoratore sia dotato al momento del licenziamento, che non necessitino di una specifica nuova formazione.

Il caso

Il licenziamento come extrema ratio e l'adempimento dell'obbligo di repêchage

La Corte d'appello di Lecce, riformando la sentenza del giudice di primo grado, aveva rigettato la domanda di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. I ricorrenti asserivano il carattere ritorsivo del recesso datoriale in ragione della loro adesione ad un sindacato e lamentavano, in aggiunta, la violazione dell'obbligo di repêchage.

Venuto meno il contratto di “trasporto sangue” con la Città di Lecce Hospital, la Corte territoriale aveva negato che la novellazione dell'art. 2103 c.c. imponesse alla società datrice l'obbligo di ricollocazione in un livello di inquadramento inferiore, non avendone i requisiti professionali. La Corte d'appello aveva escluso la violazione dell'obbligo suddetto, in mancanza di posizioni fungibili di pari livello, tutte impiegate nei diversi settori della ristorazione per cui erano richieste determinate figure professionali. Il giudice di secondo grado aveva, dunque, ribadito il principio di limitazione dell'obbligo di repêchage alle attitudini, al bagaglio professionale ed alla formazione del lavoratore al momento del licenziamento, anche alla luce della nuova disciplina dell'art. 2103 c.c. il quale pone in capo al datore l'onere di proporre al lavoratore un patto di demansionamento in relazione a mansioni che, però, non richiedano un percorso di formazione.

Nell'interpretare l'art. 2103, co. 2, c.c. e l'art. 3 L. n. 604/1966, la Corte leccese ne ha distinto i piani di operatività, concludendo per l'esclusione di un aggravamento in termini assoluti dell'obbligo datoriale di repêchage in mansioni inferiori, essendo tale obbligo limitato solo a quelle non necessitanti di una specifica formazione, a norma dell'art. 2103, terzo comma c.c.

Avverso tale decisione i lavoratori hanno proposto ricorso innanzi alla Corte di Cassazione fondato su un unico motivo. I ricorrenti lamentavano la violazione o falsa applicazione degli artt. 3 L.  n. 604/1966 e 2103 c.c., per avere la Corte d'appello erroneamente escluso l'obbligo di repêchage datoriale anche per mansioni inferiori, dovendosi il licenziamento considerare sempre una extrema ratio.

La questione

Obbligo di repêchage e mansioni inferiori con nuova formazione

Ai fini della legittimità del licenziamento per g.m.o. è necessario che il datore valuti anche la possibilità di ricollocare il dipendente assegnando mansioni inferiori per le quali non abbia la professionalità necessaria?

La soluzione

Il datore non può ritenersi obbligato a una nuova formazione come alternativa al licenziamento per g.m.o. ove il lavoratore non possieda la professionalità necessaria per lo svolgimento delle diverse mansioni disponibili in azienda.

In tema di licenziamento per g.m.o., i giudici di legittimità hanno ribadito il principio in base al quale il datore di lavoro deve provare che il lavoratore non possiede la capacità professionale richiesta per occupare la diversa posizione libera in azienda, in base a circostanze oggettivamente riscontrabili, altrimenti risultando il rispetto dell'obbligo di repêchage sostanzialmente affidato ad una mera valutazione discrezionale dell'imprenditore.

La Corte ha rammentato che anche prima della novellazione dell'art. 2103 c.c. era stata esclusa l'esistenza di un obbligo del datore di lavoro di provvedere ad una ulteriore formazione professionale a seguito della ricollocazione, dovendosi fare riferimento alle attitudini e alla professionalità già posseduta dal lavoratore al momento del licenziamento, trovando tale interpretazione la propria giustificazione nel bilanciamento del diritto alla conservazione del posto di lavoro con quello del datore a perseguire un'organizzazione aziendale produttiva ed efficiente anche mediante l'utile impiego del personale.

Pertanto, nel caso esaminato di esercizio dello ius variandi datoriale, scaturente da una scelta unilaterale e non concordata (come nella diversa ipotesi di stipulazione di un patto di demansionamento c.d. negoziale, ex art. 2103, co. 6, c.c.), il principio da applicare doveva essere quello in base al quale l'obbligo di repêchage grava sul datore limitatamente alle attitudini ed alla formazione di cui il lavoratore sia (già) dotato al momento del licenziamento.

Ad avviso della Corte di Cassazione, tale principio troverebbe una sostanziale conferma nella chiara previsione, conseguente al mutamento di mansioni per la modifica degli assetti organizzativi aziendali, in base alla quale il mancato adempimento dell'obbligo formativo non determina comunque la nullità dell'atto di assegnazione alle nuove mansioni (art. 2103, co. 3, c.c.).

Nel caso di specie, i giudici di secondo grado avevano accertato l'incapacità dei lavoratori licenziati, siccome non provvisti di un idoneo bagaglio professionale, allo svolgimento delle mansioni inferiori di addetto al servizio mensa, occorrendo un percorso di riqualificazione a carico del datore. La Corte di Cassazione ha, dunque, rigettato il ricorso.

Osservazioni

Un possibile (in)diretto ritorno alla equivalenza delle mansioni nella delimitazione dell'obbligo di repêchage

In materia di licenziamento per g.m.o. e di limiti all'obbligo di repêchage, la sentenza in commento segue un orientamento interpretativo - che attualmente sembra essere prevalente - in base al quale le ulteriori mansioni potenzialmente assegnabili al lavoratore non includono anche quelle che richiedono una ulteriore formazione professionale. Tale posizione ermeneutica genera alcune perplessità che si cercherà di esporre, seppur sinteticamente.

La precedente formulazione dell'art. 2103 c.c. circoscriveva l'esercizio dello ius variandi alle “mansioni equivalenti” a quelle da ultimo effettivamente svolte, sicché era necessaria la sussistenza di un rapporto di equivalenza tra queste e quelle di nuova assegnazione. Secondo la giurisprudenza formatasi sul testo previgente, nell'indagine circa tale equivalenza non era sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria ma era necessario accertare che le nuove mansioni fossero aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l'accrescimento delle sue capacità professionali (Cass., sez. lav. n. 9119/2015; Cass., sez. lav., n. 7351/2005; Cass., sez. lav., n. 14666/2004).

In seguito alla modifica dell'art. 2103 c.c., applicando i nuovi limiti allo ius variandi, il lavoratore può essere assegnato a tutte le mansioni diverse da quelle originariamente convenute o effettivamente svolte, anche prive di omogeneità professionale, purché rientranti nello stesso livello di inquadramento e categoria legale e non più soltanto alle mansioni professionalmente equivalenti. Viene meno, pertanto, quel rapporto di equivalenza che la legge precedente richiedeva al fine di un legittimo mutamento delle mansioni del dipendente da parte del datore. In base alla nuova formulazione normativa, inoltre, il mutamento di mansioni in pejus, cioè in deroga espressa alla nuova disciplina, è specificamente autorizzato in tre ipotesi: esercizio del potere direttivo e organizzativo del datore; previsione espressa nei contratti collettivi; accordo tra le parti del rapporto di lavoro nelle sedi protette di cui all'art. 2113 c.c.

L'elemento testuale che, anche ai fini di questo commento, desta alcune perplessità è il terzo comma dell'art. 2103 c.c. Innanzitutto, non è d'aiuto all'interprete la sua collocazione, in quanto ci si è chiesti se l'obbligo formativo previsto debba essere riferito solo ai casi di adibizioni a mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento ovvero al mutamento di mansioni in pejus. Tuttavia, alla luce sia del senso della riforma che ha dilatato l'area della prestazione lavorativa esigibile, sia della lettera della disposizione che genericamente fa riferimento al caso di “mutamento di mansioni”, sembrerebbe preferibile un'interpretazione ampia, che includa nella sua area operativa qualunque ipotesi di ius variandi.

Sempre in base alla lettera del terzo comma prefato, l'obbligo di formare il lavoratore allo svolgimento delle nuove mansioni è previsto solo “ove necessario”, sicché il legislatore sembrerebbe considerare non solo le ipotesi nelle quali le mansioni siano sostanzialmente omogenee o il lavoratore già possieda le competenze necessarie, ma anche quelle in cui un intervento formativo non sia eludibile. In ogni caso, la mancata formazione non incide sull'assegnazione delle diverse mansioni. La disposizione è, infatti, priva di una specifica sanzione per tale inadempimento, sebbene non possa escludersi un eventuale obbligo risarcitorio a favore del lavoratore “non formato”.

Tenuto fermo quanto sopra, nel momento in cui l'obbligo formativo viene ad essere collegato all'obbligo di repêchage – costituente uno degli elementi valutati dal giudice al fine di accertare la legittimità del licenziamento per g.m.o. – le ipotesi sopra circoscritte sembrano ridursi alla luce del “giusto bilanciamento” tra i contrapposti interessi in gioco evidenziati dalla Corte di Cassazione anche nella decisione in commento. Il datore, infatti, non dovrebbe considerare tutte le mansioni astrattamente assegnabili al lavoratore ex art. 2103 c.c., ma solo quelle per lo svolgimento delle quali egli possegga già le competenze professionali. L'obbligo formativo resterebbe, dunque, confinato alle sole fattispecie di mutamento di mansioni non determinato dall'esigenza di evitare il licenziamento, e ciò a prescindere da una valutazione del singolo caso, rectius dell'effettiva gravosità dell'obbligo formativo.

Al di là della condivisibilità o meno della posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità, non si può obliterare un certo distacco dal dato testuale che fornisce un'area più ampia di “impiegabilità” del lavoratore, la quale viene de facto circoscritta ulteriormente in via interpretativa.

Sebbene in questo modo venga ragionevolmente fissato un confine certo all'obbligo di repêchage, si presta a critiche il punto di equilibrio individuato, i.e. la circostanza della necessità o meno di una nuova formazione, in quanto di per sé essa non sempre costituisce un peso particolarmente gravoso per il datore, sicché sarebbe opportuna una valutazione caso per caso.

D'altronde, mutatis mutandis, anche nella normativa antidiscriminatoria è previsto che gli “accomodamenti ragionevoli” obbligano il datore nei limiti in cui essi non siano eccessivamente onerosi, anche alla luce dei doveri di correttezza e buona fede nell'adempimento del contratto di lavoro.

Riferimenti bibliografici

M. Dallacasa, La formazione del lavoratore tra ius variandi e motivo oggettivo di licenziamento, in Lavoro Diritti Europa n. 1/ 2024

L. Calcaterra, L'art. 2103 c.c. dopo il jobs act e la latitudine dell'obbligo datoriale di repêchage, in Labor Il lavoro nel diritto, n. 6/2023

M. Salvagni, Jobs act e licenziamento per g.m.o: obblighi formativi, repêchage e quantificazione dell'indennizzo in funzione dissuasiva, in Riv. giur. lav., n. 4, II, 2020, 623 ss.

L. Angeletti, Obbligo formativo nell'esercizio dello ius variandi datoriale. Una nuova nozione di “equivalenza delle mansioni”?, in bollettino ADAPT del 22 gennaio 2018, n. 3

C. PISANI, Lo jus variandi, la scomparsa dell'equivalenza, il ruolo dell'autonomia collettiva e la centralità della formazione nel nuovo art. 2103 c.c., in Argomenti di diritto del lavoro, 2016, 6, pp. 1114 ss.

M. CORTI, Jus variandi e tutela della professionalità dopo il “Jobs Act” (ovvero cosa resta dell'art. 13 dello statuto dei lavoratori, in Variazioni su temi di diritto del lavoro, 2016, 1, pp. 39 ss.

F. Amendola, La disciplina delle mansioni nel d.lgs. n. 81 del 2015, Biblioteca “20 maggio”, 2016, n. 1, pp. 101.

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