Questioni attuali in tema di prova testimoniale
06 Novembre 2024
Premessa La prova testimoniale è, come noto, una dichiarazione di scienza di fatti relativi alla causa, resa da un soggetto che non sia parte della stessa. La valutazione della prova, in base ai criteri posti dall'art. 116 c.p.c., è affidata al prudente apprezzamento del giudice e si tratta, di conseguenza, di una c.d. prova libera. Nel sistema codicistico, sia sostanziale che processuale, la prova testimoniale è corredata da una serie di limiti, sia soggettivi che oggettivi. Per quanto riguarda i primi, ai sensi dell'art. 246 c.p.c. non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio, pur se, nell'ambito del rito lavoristico la norma dell'art. 421 c.p.c., all'ultimo comma, stabilisce che il giudice, ove lo ritenga necessario, può ordinare la comparizione, per interrogarle liberamente sui fatti di causa, anche di quelle persone che siano incapaci a testimoniare ai sensi dell'art. 246 c.p.c. o la cui testimonianza sia vietata ai sensi dell'art. 247 c.p.c. Dall'altro lato la prova testimoniale è corredata da una serie di limiti oggettivi previsti dagli artt. 2721 e ss. c.c. Sono infatti previsti limiti oggettivi per la testimonianza con cui si voglia provare contratti, pagamenti o remissione di debiti. In particolare vige il divieto di prova testimoniale per provare contratti, pagamenti o remissione di debiti di valore superiore ad euro 2,58. Tuttavia la sopravvivenza di questo ridotto limite di valore è dovuta al fatto che l'art. 2721, comma 2 c.c. prevede che il giudice possa comunque ammettere la prova tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza. Particolare regime è dettato per i patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento: infatti la prova per testimoni non è ammessa se ha per oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento per i quali si assuma che la stipulazione è stata anteriore o contemporanea; mentre se la parte alleghi che, dopo la formazione del documento, è stato stipulato un patto aggiunto o contrario, il giudice può acconsentire alla prova testimoniale solo se, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali. Vi sono però dei correttivi ai limiti oggettivi della prova testimoniale perché essa può sempre ammettersi in presenza di un principio di prova per iscritto; di impossibilità materiale o morale per il contraente di procurarsi la prova scritta; di perdita incolpevole del documento. L'acquisizione della prova al processo è scandita nei momenti della deduzione, in articoli separati e specifici, con indicazione dei testimoni chiamati a rispondere su ciascun articolo; della ammissione con ordinanza del g.i. e della assunzione ad opera del giudice. Rendere testimonianza è un obbligo, cui il testimone non può sottrarsi, salvo che vi sia facoltà di astensione per segreto d'ufficio o professionale (art. 249 c.p.c.). Nel rito ordinario la prova testimoniale è rimessa alla disponibilità delle parti, a differenza di quello che avviene nei riti differenziati davanti al giudice di pace, al giudice unico e al giudice del lavoro. Il g.i. ha anche nel rito ordinario il potere di disporre d'ufficio la chiamata di una persona cui il testimone, addotto dalla parte, si sia riferito come a conoscenza dei fatti (cfr. art. 257 c.p.c.). Dal 2009 è stata introdotta come forma di assunzione la testimonianza scritta. I due presupposti di questa peculiare forma di assunzione della prova testimoniale sono l'accordo delle parti e il provvedimento del giudice che dispone tale forma di assunzione della prova. Il provvedimento ammissivo della testimonianza scritta deve essere emanato tenendo conto della natura della causa e di ogni altra circostanza. In particolare con «natura della causa» il legislatore fa riferimento alla sua non eccessiva complessità; con l'espressione «ogni altra circostanza» si far riferimento, da un punto di vista soggettivo, alla qualità e alla residenza del teste; da un punto di vista oggettivo, al tipo di deposizione. In sostanza la scelta nel senso della testimonianza scritta è rimessa alla valutazione di opportunità del giudice. La testimonianza scritta va resa nel modulo di testimonianza per iscritto previsto dall'art. 103-bis disp. att. c.p.c. Il giudice esaminate le risposte può sempre disporre che il teste sia chiamato a deporre in udienza davanti a lui o davanti a un giudice delegato. In questa sede mi occuperò soltanto di alcuni dei profili della prova testimoniale che sono stati oggetto di importanti recenti pronunce giurisprudenziali. Rilievo dell'incapacità a testimoniare Se la dottrina manifesta un'opinione quasi del tutto unanime, cioè che l'incapacità a testimoniare sarebbe suscettibile di rilievo officioso (Picardi, 1739 e ss.), la giurisprudenza invece ritiene che l'eccezione ex art. 246 c.p.c. possa essere sollevata soltanto su istanza di parte. Per citare solo una delle pronunce più recenti, può ricordarsi Cass. civ., sez. un., 23 settembre 2013, n. 21670, la quale ha affermato che la nullità di una testimonianza resa da persona incapace ai sensi dell'art. 246 c.p.c., essendo posta a tutela dell'interesse delle parti, è configurabile come una nullità relativa e, in quanto tale, deve essere eccepita subito dopo l'espletamento della prova, rimanendo altrimenti sanata ai sensi dell'art. 157, comma 2, c.p.c.; qualora detta eccezione venga respinta, la parte interessata ha l'onere di riproporla in sede di precisazione delle conclusioni e nei successivi atti di impugnazione, dovendosi, in caso contrario, ritenere la medesima rinunciata, con conseguente sanatoria della nullità stessa per acquiescenza, rilevabile d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo. Di recente, le Sezioni Unite della Corte, con una importante pronuncia, hanno ribadito che l'incapacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c. non è rilevabile d'ufficio sicché, ove la parte non formuli l'eccezione di incapacità a testimoniare prima dell'ammissione del mezzo, questa eccezione rimane definitivamente preclusa, senza che possa poi proporsi, ove il mezzo sia ammesso ed assunto, eccezione di nullità della prova. Ove la parte abbia formulato l'eccezione di incapacità a testimoniare - e ciò nondimeno il giudice abbia ammesso il mezzo ed abbia dato corso alla sua assunzione - la testimonianza così assunta è affetta da nullità che, ai sensi dell'art. 157 c.p.c., l'interessato ha l'onere di eccepire subito dopo l'escussione del teste ovvero, in caso di assenza del difensore della parte alla relativa udienza, nella prima udienza successiva, determinandosi altrimenti la sanatoria della nullità. La parte che ha tempestivamente formulato l'eccezione di nullità della testimonianza resa da un teste che si assume essere incapace a testimoniare, deve poi dolersene in modo preciso e puntuale anche in sede di precisazione delle conclusioni, dovendosi altrimenti ritenere l'eccezione rinunciata, così da non potere essere riproposta in sede d'impugnazione (Cass. civ., sez. un., 6 aprile 2023, n. 9456, RD PROC, 2023, 4, 1797 con nota di Frisina). La ragione su cui si fonda questo orientamento, a detta delle Sezioni Unite, è senz'altro evidente. Infatti i limiti soggettivi ed oggettivi all'ammissibilità della prova testimoniale sono per lo più posti nell'interesse delle parti. Di ciò è riprova il dato testuale, ove si consideri che alla netta prescrizione di cui all'art. 247 c.p.c. (poi dichiarato incostituzionale) costruita in termini di fermo divieto, si contrappone la previsione dell'art. 246 c.p.c., che mira a garantire la «plausibile attendibilità del teste» (così Cass. civ. Sez. Un., n. 9456/2023, in motivazione). Il giudice - salvo che la legge non disponga diversamente, come ad esempio accade nel rito del lavoro, ma anche nel nuovo rito unitario di famiglia - decide, almeno di regola, in base al materiale probatorio offerto dalle parti. Con la conseguenza che esse possono scegliere di acconsentire alla assunzione di un teste incapace, non essendovi in tal senso ostacoli di ordine pubblico processuale. Questa linea di pensiero trova sostanzialmente conferma in quanto più volte affermato nell'ambito dei limiti oggettivi alla prova testimoniale, dato che la giurisprudenza di legittimità ha sostenuto che l'inammissibilità della prova testimoniale di un contratto che deve essere provato per iscritto, ai sensi dell'art. 2725, comma 1, c.c., attenendo alla tutela processuale di interessi privati, non può essere rilevata d'ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima dell'ammissione del mezzo istruttorio; in particolare, qualora, nonostante l'eccezione di inammissibilità, la prova sia stata ugualmente assunta, è onere della parte interessata opporne la nullità secondo le modalità dettate dall'art. 157, comma 2, c.p.c., rimanendo altrimenti la stessa ritualmente acquisita, senza che detta nullità possa più essere fatta valere in sede di impugnazione, mentre soltanto l'inammissibilità della prova per testi diretta a dimostrare la conclusione di un contratto per cui la legge pone il requisito della forma scritta ad substantiam è rilevabile d'ufficio (Cass. civ., sez. un., 5 agosto 2020, n. 16723, in Giur it., 2021, 4, 862, con nota di Ronco; in precedenza tra le altre Cass. civ., sez. II, 24 novembre 2015, n. 23934; Cass. civ., sez. lav., 3 giugno 2015, n. 11479; Cass. civ., sez. II, 8 gennaio 2002, n. 144; Cass. civ., sez. II, 10 aprile 1990, n. 2988; Cass. civ., sez. II, 25 marzo 1987, n. 2902). Pertanto al di fuori dell'ipotesi della prova del contratto per cui la forma scritta è prevista ad substantiam e non ad probationem, i limiti oggettivi di ammissibilità della prova testimoniale sono dettati da norme di carattere dispositivo e sono di conseguenza affidati alla volontà delle parti, anche in ordine alle conseguenze derivanti dalla violazione delle formalità stabilite per l'ammissione della prova per cui opera il meccanismo (si veda giur. citata in precedenza). Secondo Cass. civ., sez. un., 6 aprile 2023, n. 9456 questa regola vale anche per i limiti soggettivi di cui all'art. 246 c.p.c. Quanto alle modalità di formulazione dell'eccezione di incapacità a testimoniare, la Corte ha costantemente affermato che essa deve essere formulata in vista dell'assunzione, ma ciò non esclude che l'interessato debba proporre l'eccezione di nullità della testimonianza, ove assunta nonostante l'eccezione di incapacità, successivamente al suo espletamento, nonché in sede di precisazione delle conclusioni. In particolare, le Sezioni Unite hanno affermato che la nullità della testimonianza resa da persona incapace ex art. 246 c.p.c., essendo posta a tutela dell'interesse delle parti, è configurabile come nullità relativa e, in quanto tale, deve essere eccepita subito dopo l'assunzione della prova, rimanendo altrimenti sanata ai sensi dell'art. 157, comma 2 c.p.c.; qualora detta eccezione venga respinta, l'interessato ha l'onere di riproporla in sede di precisazione delle conclusioni e nei successivi atti di impugnazione, dovendosi altrimenti ritenere rinunciata, con conseguente sanatoria della nullità per acquiescenza, rilevabile d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo (Cass. civ., sez. un., 23 settembre 2013, n. 21670). La Suprema Corte ha affermato in molte occasioni che l'incapacità a testimoniare conseguente alla simultanea titolarità, in capo al teste, della qualità di parte, anche virtuale, deve essere eccepita dalla parte interessata al momento dell'espletamento del mezzo di prova o nella prima difesa successiva, altrimenti la nullità dell'assunzione deve ritenersi definitivamente sanata per acquiescenza (Cass. civ., sez. II, 1 dicembre 2021, n. 37814; Cass. civ., sez. II, 18 gennaio 2002, n. 543; Cass. civ., sez. III, 12 gennaio 2006, n. 403; Cass. civ., sez. III, 25 settembre 2009, n. 20652; Cass. civ., sez. un., 23 settembre 2013, n. 21670). Questo rilievo al momento dell'assunzione del mezzo o nella prima difesa successiva trova la sua ragion d'essere, a parere della Suprema Corte, nell'esigenza, questa sì di ordine pubblico processuale, di garantire la celerità del processo i cui atti non devono essere suscettibili di essere caducati in un tempo indefinito. Ragion per cui l'eccezione di nullità deve collocarsi a ridosso dell'assunzione del mezzo salva l'ipotesi, comunque prevista dall'art. 157, comma 2 c.p.c., che, in questo momento l'interessato non sia a conoscenza, inconsapevolmente, delle ragioni di incapacità del teste, nel qual caso l'eccezione va svolta nella prima difesa successiva all'acquisita conoscenza della nullità della testimonianza (Cass. civ., sez. lav., 12 maggio 2004, n. 9061). L'eccezione di nullità della testimonianza resa da teste incapace ai sensi dell'art. 246 c.p.c. va infine coltivata con la precisazione delle conclusioni. Formulazione negativa dei capitoli di prova testimoniale Per quanto riguarda la formulazione “negativa” dei capitoli di prova testimoniale, soccorre, ribadita negli ultimi tempi, la giurisprudenza consolidata del Supremo Collegio, la quale ha più volte affermato che l'onere della prova - sia che riguardi fatti costitutivi che eccezioni - avente ad oggetto fatti negativi, segue le regole generali di cui all'art. 2697 c.c., sicché può essere assolto mediante la dimostrazione, anche in via presuntiva, di uno specifico fatto positivo contrario (nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la decisione impugnata che aveva ritenuto sussistente la presunzione di distribuzione di utili extra contabili in mancanza di prova contraria da parte del socio ricorrente, il quale avrebbe dovuto dimostrare il fatto positivo della propria posizione fiduciaria rispetto ad una ristretta compagine sociale: Cass. civ., sez. V, 17 luglio 2019, n. 19171). Si è anche precisato che l'onere della prova gravante su chi agisce o resiste in giudizio non subisce deroghe nemmeno quando abbia ad oggetto fatti negativi; tuttavia, non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può essere data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario od anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo (Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2013, n 14854. Per una panoramica sul tema v. Amendolagine, Le modalità di deduzione della prova testimoniale, in IUS Processo civile, 29 maggio 2024). La Suprema Corte ha recentemente ribadito che nessuna norma di legge e nessun principio ricavabile in via interpretativa consente di escludere l'ammissibilità della prova per testimoni di un fatto che «non sia accaduto» o che «non esista». (Cass. civ., sez. VI, 18 novembre 2021, n. 35146 la quale espressamente afferma che «ad esempio, non sarebbe inibito provare per testimoni che la cupola di San Pietro non sia crollata; ovvero che il Tevere non sia asciutto»). L'affermazione che i capitoli di prova testimoniale debbano essere sempre formulati in modo positivo non è soltanto, secondo la Corte, erronea in diritto, ma anche insostenibile su un piano logico. Ciò perché «chiedere, infatti, a taluno di negare che un fatto sia vero equivale, sul piano della logico, a chiedergli di affermare che quel fatto non sia vero. Sicché l'opinione che non ammette la possibilità di formulare capitoli di prova testimoniale in modo negativo perviene al paradosso di ammettere o negare la prova non già in base al suo contenuto oggettivo, ma in base al tipo di risposta che si sollecita dal testimone». Indicazione specifica dei fatti Secondo Cass. civ., sez. VI, 19 gennaio 2018, n. 1294, la mancanza di indicazione specifica dei fatti nella deduzione della testimonianza, in quanto requisito di rilevanza della prova, è rilevabile d'ufficio dal giudice e rende inammissibile la testimonianza medesima. In particolare, secondo la Corte, la logica posta alla base dell'art. 244 c.p.c. (norma che, come è noto, dispone testualmente che «La prova per testimoni deve essere dedotta mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata», va ritrovata non solo nell'esigenza di consentire all'altra parte di sollevare l'eccezione relativa alla irrilevanza o inammissibilità della prova e di dedurre la prova contraria, ma anche nella necessità di permettere al giudice di formulare il giudizio di rilevanza. Di conseguenza è specifica l'indicazione che consente al giudice di stabilire, in relazione all'oggetto della lite, se i fatti posti ad oggetto della prova sono rilevanti ai fini del decidere mentre, in modo speculare, non può ritenersi specifica l'indicazione che non consenta al giudice di formulare questa valutazione. La conseguenza sanzionatoria derivante dalla mancata indicazione specifica dei fatti oggetto della prova è la sua inammissibilità; sanzione che, chiarisce la Suprema Corte, non è l'inammissibilità conseguente ad una decadenza o ad una regola di validità dell'atto processuale come quella della capacità a testimoniare, è una inammissibilità «relativa al preliminare giudizio, rispetto a quello di nullità, di rilevanza stessa del mezzo di prova». Mentre la violazione di una regola di validità quale quella dell'art. 246 c.p.c., posta a tutela dell'interesse delle parti, ha carattere relativo ed è rilevabile solo su eccezione di parte (si veda sopra la giurisprudenza richiamata), spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia possa essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (in tema ad es. Cass. civ., sez. VI, 4 luglio 2017, n. 16467; Cass. civ., sez. lav., 13 giugno 2014, n. 13485; Cass. civ., sez. lav., 15 luglio 2009, n. 16499). La Corte, dunque, dà seguito alla risalente giurisprudenza di legittimità secondo cui, mentre le nullità e le decadenze stabilite riguardo alla prova testimoniale dall'art. 244 c.p.c. possono essere oggetto solo di eccezione di parte (così come ricordato supra), la mancata specifica indicazione dei fatti da provare è rilevabile anche d'ufficio dal giudice, nonostante l'acquiescenza della controparte (Cass. civ., sez. lav., 4 aprile 1980, n. 2231). Principio di prova per iscritto Secondo Cass. civ., sez. II, 25 agosto 2023, n. 25276, la falsità accertata della sottoscrizione in calce ad un documento non impedisce di considerarlo un principio di prova per iscritto al fine dell'ammissione, ex art. 2724, n. 1, c.c., della prova testimoniale, laddove la provenienza del documento dalla parte contro cui esso è prodotto sia desumibile in modo plausibile da altre circostanze. L'art. 2724 c.c. stabilisce che: «La prova per testimoni è ammessa in ogni caso: 1) quando vi è un principio di prova per iscritto: questo è costituito da qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o dal suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato». Sono quindi tre gli elementi costitutivi della fattispecie legale del principio di prova per iscritto:
I giudici di merito hanno ritenuto che, nel caso di specie, sussistessero tutti e tre gli elementi. L'accertamento della ricorrenza dei tre elementi previsti dalla norma che integrano la fattispecie legale del principio di prova per iscritto consente, secondo la Corte, un mero giudizio di verosimiglianza, cioè di «corrispondenza del fatto allegato al corso ordinario degli eventi». Questa valutazione è accessoria rispetto alla prova testimoniale diretta a provare il fatto allegato. Peraltro, sempre a parere della Corte, il giudizio di sussistenza di un principio di prova per iscritto è esterno al perimetro dell'istruzione probatoria ed è compatibile anche con l'accoglimento della querela di falso (ove configurata come accertamento con funzione istruttoria). Formulazione della prova testimoniale e poteri d'ufficio del giudice del lavoro Cass. civ., sez. lav., 2 gennaio 2024, n. 48 ha affermato che nel rito del lavoro, la riformulazione dei capitoli di prova testimoniale mediante l'eliminazione degli aspetti valutativi e suggestivi rientra nei poteri istruttori del giudice previsti dall'art. 421 c.p.c., in funzione dell'esigenza di contemperamento del principio dispositivo con la ricerca della verità e comprensivi, tra gli altri, della facoltà di assegnare alle parti un termine per rimediare all'irregolarità degli atti e dei documenti (conforme Cass. civ., sez. lav., 14 aprile 2021, n. 9823). Ad esempio, in questo senso si è detto che in materia di prova testimoniale, poiché nel rito del lavoro i fatti da allegare devono essere indicati in maniera specifica negli atti introduttivi, affinché le richieste probatorie rispondano al requisito di specificità è sufficiente indicare, quale oggetto dei mezzi di prova, i fatti inizialmente allegati, senza necessità di riformulazione in capitoli separati, fermo che il giudice di merito, nell'esercizio dei poteri di cui all'art. 421 c.p.c., può assegnare alle parti un termine per rimediare alle irregolarità rilevate nella suddetta capitolazione, sicché la parte decade dal diritto di assumere la prova solo nell'ipotesi di mancata ottemperanza a tale invito nel termine fissato (Cass. civ., sez. lav., 5 ottobre 2016, n. 19915). O ancora si è precisato che nel rito del lavoro, qualora nell'atto introduttivo del giudizio la parte abbia richiesto una prova testimoniale, articolando i relativi capitoli senza indicare le generalità dei testi, l'omissione non determina decadenza dalla relativa istanza istruttoria, ma concreta mera irregolarità che, ai sensi dell'art. 421, comma 1, c.p.c., consente al giudice ad assegnare alla parte un termine perentorio per porre rimedio alla riscontrata irregolarità, nell'esercizio dei poteri officiosi riconosciutigli dalla disposizione citata, in funzione dell'esigenza di contemperamento del principio dispositivo con la ricerca della verità, cui è ispirato il rito del lavoro per il carattere costituzionale delle situazioni soggettive implicate (Cass. civ., sez. VI, 25 giugno 2020, n. 12573). E, sempre nello stesso senso, si è detto che nel rito del lavoro, è corretto l'operato del giudice che, nell'ambito di una controversia promossa per accertare la natura subordinata di un rapporto di lavoro, chieda al testimone di precisare, al di fuori delle circostanze capitolate, se venisse rispettato un orario di lavoro, quali fossero le mansioni svolte dal prestatore, nonché in quale posizione materiale la prestazione fosse effettuata, dovendosi ritenere che la possibilità di porre tali domande sia consentita, se non anche imposta, dall'art. 421 c.p.c. e ciò tanto più ove al ricorso siano stati allegati conteggi elaborati sul presupposto dello svolgimento di determinate mansioni e orari, nonché ove la controparte abbia contestato, oltre alla natura subordinata del rapporto, anche lo svolgimento di un orario a tempo pieno (Cass. civ., sez. lav., 14 aprile 2021, n. 9823). Non manca tuttavia giurisprudenza difforme. Si è ad esempio affermato che in materia di prova testimoniale, poiché nel rito del lavoro i fatti da allegare devono essere indicati in maniera specifica negli atti introduttivi, affinché le richieste probatorie rispondano al requisito di specificità è sufficiente indicare, quale oggetto dei mezzi di prova, i fatti inizialmente allegati, senza necessità di riformulazione in capitoli separati, fermo che il giudice di merito, nell'esercizio dei poteri di cui all'art. 421 c.p.c., può assegnare alle parti un termine per rimediare alle irregolarità rilevate nella suddetta capitolazione, sicché la parte decade dal diritto di assumere la prova solo nell'ipotesi di mancata ottemperanza a tale invito nel termine fissato (Cass. civ., sez. lav., 5 ottobre 2016, n. 19915; in tema, A. Lombardi, Formulazione della prova testimoniale e poteri d’ufficio del giudice del lavoro, in IUS Processo civile, 5 marzo 2024). Riferimenti
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