La revocazione e l'«errore di fatto» nel processo ordinario e del lavoro

08 Novembre 2024

Il contributo analizza l'istituto della revocazione e, in particolare, in cosa consiste l'«errore di fatto», esaminando gli orientamenti giurisprudenziali nel rito ordinario e nel rito del lavoro

Premessa

Il presente contributo analizzerà, seppur per brevi cenni, l'istituto della revocazione delle sentenze e, in particolare, l'utilizzo di tale mezzo di impugnazione nel processo del lavoro. Ci si soffermerà altresì sugli arresti giurisprudenziali più recenti analizzando, in particolare, le ipotesi di revocazione disciplinate dall'art. 395, n. 3 c.p.c. e dall'art. 395, n. 4 c.p.c.

La revocazione e la sua disciplina

Come noto l'art. 395 c.p.c. prevede che: «Le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione:

  1. se sono l'effetto del dolo di una delle parti in danno dell'altra;
  2. se si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza;
  3. se dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario;
  4. se la sentenza è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare;
  5. se la sentenza è contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione;
  6. se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato».

La revocazione è un mezzo di impugnazione che concorre o si affianca all'appello o al ricorso per Cassazione. La revocazione investe la giustizia del provvedimento impugnato in quanto mira ad eliminare vizi che rendono la sentenza “ingiusta” per erroneità di fatto derivante dagli atti di causa ovvero per mala fede di una delle parti o del giudice ovvero perché basata su prove dichiarate false.

La revocazione può essere ordinaria o straordinaria. La revocazione è ordinaria se i motivi posti a fondamento della revocazione sono conoscibili dalla parte soccombente sin dal momento in cui la sentenza è pubblicata e, quindi, potranno costituire di per sé stessi fondamento dell'impugnazione ordinaria essendo la decisione appunto viziata da errori di fatto; se invece, i motivi sono non conoscibili al momento della pubblicazione della sentenza, ma la loro conoscibilità può avvenire soltanto successivamente a seguito della scoperta di fatti in precedenza sconosciuti, la revocazione costituisce mezzo di impugnazione straordinaria in quanto la parte ha conosciuto soltanto successivamente, per causa non imputabile, i motivi dell'ingiustizia. La revocazione, in questo caso, si fonda su motivi occulti, scoperti successivamente, e che rendono la decisione ingiusta.

L'impugnazione per revocazione, ai sensi dell'art. 395, n. 4 c.p.c., può investire la sentenza d'appello, per far valere errori di fatto dai quali la stessa sia affetta, mentre gli eventuali errori di fatto in cui sia incorso il giudice di primo grado sono deducibili esclusivamente con l'atto di gravame, restando in difetto preclusa ogni possibilità di farli valere. Occorre, infatti, rilevare che - dalla disciplina data dall'ordinamento processuale vigente all'impugnazione per revocazione e, in particolare, dalle norme che instaurano un rapporto non di concorrenza, ma di subordinazione tra il giudizio di appello ed il giudizio per revocazione (nel senso che il secondo rimedio è esperibile solo quando non sia utilizzabile il primo) e che, di conseguenza, escludono l'impugnabilità della sentenza per la quale è scaduto il termine per l'appello attraverso lo strumento della c.d. revocazione ordinaria. Difatti, nel caso in cui si sostenga che detta sentenza sia l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti di causa (art. 396, comma 1 c.p.c., in relazione all'art. 395, n. 4 c.p.c.), emerge con chiarezza il principio di diritto secondo cui gli errori di fatto afferenti la sentenza di primo grado i quali - tanto palesi da essere riconoscibili dalla semplice lettura del dispositivo da parte del soccombente - avrebbero potuto e dovuto costituire oggetto di un motivo di gravame, non possono poi e tardivamente essere recuperati a materia di impugnazione per revocazione ai sensi dell'art. 395, n. 4 c.p.c. avverso la sentenza emessa in grado di appello che, proprio in dipendenza del mancato specifico motivo di gravame sul punto e per non incorrere nel vizio di ultra-petizione, sia stata resa nella impossibilità di emendare l'errore di fatto commesso dal primo giudice.

La seconda considerazione da svolgere è che, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte, l'errore di fatto che può dar luogo alla revocazione ex art. 395, n. 4 c.p.c., consiste non già nell'inesatto apprezzamento delle risultanze processuali (e cioé in un errore del ragionamento che presiede alla valutazione ed al giudizio), bensì deve essere il prodotto di un'errata percezione della realtà, obiettivamente ed immediatamente rilevabile, che abbia portato il giudice ad affermare l'esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti e dai documenti di causa (oppure la insistenza di un fatto decisivo), attraverso quegli atti o documenti invece positivamente accertato (vedasi, tra le altre, Cass. civ., sez. II, 5 agosto 1987, n. 6737; Cass. civ., sez. II, 18 giugno 1986, n. 4080).

Possono essere oggetto di impugnazione per revocazione sia le sentenze (di appello o rese in unico grado) che le ordinanze con contenuto decisorio.

Sul punto la Corte Costituzionale, con la decisione Corte Cost., 20 febbraio 1995, n. 51, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 395 c.p.c., prima parte e numero 1, nella parte in cui non prevede la revocazione avverso i provvedimenti di convalida di sfratto per morosità che siano l'effetto del dolo di una delle parti in danno dell'altra.

In questa decisione, la Consulta ha sottolineato il contenuto decisorio del provvedimento di convalida di sfratto «la sua efficacia esecutiva, l'attitudine a produrre effetti di cosa giudicata e la rilevanza delle situazioni su cui esso è destinato ad incidere immediatamente, non giustificano una minore tutela nell'ipotesi descritta, tanto più ove si consideri la cognizione sommaria e la brevità dei termini a comparire che caratterizzano il procedimento per convalida di sfratto. Né l'esigenza di celerità posta a base di quest'ultimo può essere di ostacolo ad un rimedio straordinario, estremamente circoscritto nei suoi contenuti, applicato al caso in cui una parte sia venuta meno ai propri doveri di lealtà e correttezza attraverso comportamenti suscettibili di integrare perfino ipotesi di reato».

La revocazione nel processo del lavoro

Cass. civ., sez. lav., 20 dicembre 2021, n. 40895 ha affrontato il caso di un lavoratore il quale aveva impugnato giudizialmente il suo licenziamento. Il ricorso veniva respinto sia in primo che in secondo grado. Il lavoratore chiedeva, però, la revocazione della sentenza in quanto dall'analisi del traffico telefonico, il cui documento non era stato prodotto in giudizio, emergeva una situazione di tempo e di luogo incompatibile con i fatti a lui contestati. La Cassazione ha rigettato il ricorso per revocazione affermando, in particolare, che: «Il primo motivo di ricorso è infondato, atteso che la Corte d'appello si è uniformata al costante indirizzo di legittimità secondo cui l'ipotesi di revocazione, di cui all'art. 395, n. 3 c.p.c., presuppone che il documento decisivo - non potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario - preesista alla decisione impugnata, come desumibile dall'uso dell'espressione "sono stati trovati" contenuta nel citato n. 3, alla quale fa riscontro il termine "recupero" adottato nei successivi artt. 396 e 398 c.p.c., ed essendo insufficiente che anteriore alla decisione sia il "fatto" rappresentato nel documento (v. Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 2015, n. 3362; Cass. civ., sez. lav., 20 giugno 2006, n. 14114; Cass. civ., sez. lav., 19 agosto 2000, n. 11007). 12. La disposizione in esame non può quindi essere invocata facendo riferimento a un documento formato dopo la decisione, ma trova applicazione nei soli casi in cui un documento decisivo preesistente alla decisione impugnata, che la parte non abbia potuto a suo tempo produrre per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario, sia stato trovato successivamente a tale decisione (Cass. civ., sez. trib., 10 febbraio 2017, n. 3591; Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 2015, n. 3362; Cass. civ., sez. II, 8 giugno 2011, n. 12530). 13. Nel caso in esame, il documento di cui si tratta, cioè la relazione della polizia giudiziaria sulla utenza intestata all'attuale ricorrente, è stato formato pacificamente dopo la conclusione del giudizio di appello sulla impugnativa del licenziamento. La Sezione Lavoro della Corte d'appello, all'esito del giudizio, ha disposto la trasmissione degli atti alla locale Procura della Repubblica in relazione alle testimonianze raccolte su istanza del lavoratore e giudicate inattendibili. Nell'ambito del procedimento penale successivamente iscritto, sono stati svolti gli accertamenti sulle celle telefoniche, il cui esito è stato trasfuso nel documento su cui si basa il ricorso per revocazione».

Questa decisione della Suprema Corte ha individuato i tre requisiti di ammissibilità della revocazione ex art. 395, n.3 c.p.c. ossia:

  1. la preesistenza del documento rispetto alla sentenza impugnata;
  2. la decisività dello stesso;
  3. l'impossibilità della sua produzione in giudizio per ragioni di forza maggiore o per fatto della controparte.

Nel caso di specie il documento allegato dal lavoratore è stato formato successivamente alla decisione della Corte d'appello, sez. lav., passata in giudicato. Il lavoratore, del resto, poteva produrre l'analisi del traffico telefonico durante il giudizio di impugnazione del licenziamento.

Più di recente, la Cass. civ., sez. lav., 28 febbraio 2024, n. 5329 ha stabilito che nel caso sottoposto al suo esame «non viene, dunque, in rilievo un errore di fatto, bensì una valutazione in ordine ai motivi di ricorso, come tale insuscettibile di essere configurata come ipotesi di revocazione in ragione del principio di diritto già enunciato da questa Corte (Cass. civ., sez. V, 11 gennaio 2018, n. 442) secondo cui l'istanza di revocazione di una sentenza della Corte di cassazione, proponibile ai sensi dell'art. 391 c.p.c., implica, ai fini della sua ammissibilità, un errore di fatto riconducibile all'art. 395, comma 1, n. 4 c.p.c., e che consiste in un errore di percezione, o in una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l'esistenza (o l'inesistenza) di un fatto decisivo, che risulti, invece, in modo incontestabile escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso su cui il giudice si sia pronunciato. L'errore in questione presuppone, quindi, il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l'altra dagli atti e documenti processuali, sempreché la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio dovendosi considerare che il vizio revocatorio non ricorre quando la decisione della Corte sia conseguenza di una pretesa errata valutazione od interpretazione delle risultanze processuali, essendo esclusa dall'area degli errori revocatori la sindacabilità di errori di giudizio formatisi sulla base di una valutazione». Deve trattarsi, quindi, di errore nella percezione e non di un errore di valutazione, in particolare di errore su un fatto non controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare (cd. criterio della “decisività”), la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure un errore su un fatto supposto inesistente, ma la cui verità invece, è positivamente accertata.

Da ultimo, invece, la Suprema Corte, con la decisione Cass. civ., sez. lav., 24 luglio 2024, n. 20566, ha ribadito che non è possibile proporre una istanza di revocazione ex art. 391-quater c.p.c. quando sia soltanto invocata la violazione dei diritti fondamentali della CEDU senza che vi sia stata una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che dichiari la contrarietà della decisione italiana alla Convenzione. In particolare, la Cassazione ha affermato che nel caso sottoposto alla sua cognizione «non è intervenuta alcuna sentenza della Corte EDU che abbia riconosciuto come contrario alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali ovvero ad uno dei suoi Protocolli il contenuto dell'ordinanza qui impugnata, il motivo in realtà si limita a dedurre un errore di giudizio: l'ordinanza avrebbe dovuto aver riguardo ad alcuni elementi istruttori trascurati. Poiché si è al di fuori dell'errore di fatto, restando la selezione dei mezzi istruttori nell'ambito della valutazione del giudice, non sussistono i presupposti della revocazione».

Conclusioni

Le decisioni analizzate nel presente contributo, riferibili a “casi” di lavoro e previdenza, ribadiscono il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in ordine ai presupposti relativi all’«errore di fatto» risultante dagli atti e documenti di causa e ai «documenti decisivi» che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario. Il particolare rigore della giurisprudenza nella decodificazione dei motivi per impugnare per revocazione i provvedimenti decisori deve ricondursi alla necessità di evitare che, attraverso questo strumento di revocazione, la parte possa far rientrare “dalla finestra” dei motivi di impugnazione che doveva far entrare necessariamente dalla “porta” d’ingresso degli ordinari mezzi di impugnazione.

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