Domanda di risoluzione del contratto con parte complessa: c’è litisconsorzio necessario?
11 Novembre 2024
Massima Nel caso di stipulazione di un contratto di compravendita immobiliare, ove la parte venditrice sia una parte complessa, costituita da più soggetti costituenti un unico centro di interessi, la domanda di risoluzione del medesimo contratto deve essere proposta nei confronti di tutti i soggetti contraenti; qualora uno o più dei soggetti componenti la parte complessa sia contrario allo scioglimento del contratto e voglia invece la sua esecuzione, deve manifestare tale volontà costituendosi nel processo; nel caso in cui rimanga contumace, la domanda di risoluzione sarà esaminata dal giudice e l’eventuale sentenza di scioglimento del contratto avrà efficacia nei suoi confronti. Il caso Tre fratelli vendettero con unico atto un immobile ad una società cooperativa pattuendo che il prezzo sarebbe stato a loro versato in tre rate annuali. Dopo alcuni solleciti e una diffida fu tardivamente pagata soltanto una parte della prima annualità. Fu esercitata l’azione di risoluzione del contratto, a motivo dell’inadempimento, ad opera di due dei venditori, i quali convennero in causa, oltre alla società acquirente, anche il terzo fratello. Si costituì in giudizio soltanto la cooperativa; l’altro convenuto fu dichiarato contumace. In esito al giudizio di primo grado la domanda degli attori fu respinta in quanto il tribunale dichiarò che la mancata partecipazione al processo di tutti i comproprietari rendeva la richiesta inaccoglibile. Questa richiesta aveva ad oggetto un contratto ad effetti reali concluso da una parte complessa plurisoggettiva e pertanto tutti i comproprietari avrebbero dovuto manifestare espressamente la volontà di risolvere il contratto. La Corte di appello ha confermato la decisione di rigetto: poiché la parte venditrice aveva consistenza plurisoggettiva, essa ha affermato che, in mancanza del consenso validamente espresso da tutti i costituenti della parte collettiva, le domande di risoluzione del contratto avanzate solo da alcuni dei co-venditori non potevano trovare accoglimento. Avverso la decisione hanno presentato ricorso per cassazione i due venditori attori, che hanno proposto il gravame nei confronti della società e del comproprietario rimasto contumace. La questione Il ricorso ha posto alla decisione della Corte un unico quesito. Esso riguarda l'utilità di una domanda di risoluzione del contratto ad effetti reali quando a proporla sono soltanto alcuni dei soggetti componenti una delle parti del rapporto oggetto di contestazione. L'assunto dei ricorrenti è nel senso che non occorra l'esplicita manifestazione di volontà di tutti i contitolari del diritto, anche se costoro costituiscono, per questa contitolarità, una medesima parte plurisoggettiva e perciò complessa. Si sostiene con il gravame che nella specie deve farsi applicazione del principio stabilito dagli artt. 1319 e 1292 c.c. a proposito della domanda di adempimento, per la quale è sufficiente l'iniziativa individuale; il rischio di una pronuncia che dichiari risolto un rapporto nei confronti di taluno e non anche per chi rimane inattivo è scongiurato dalla necessità di un contraddittorio in forza del quale tutti gli interessati devono essere posti in grado di conoscere del processo e di prendervi parte. Le soluzioni giuridiche La Corte ha accolto il ricorso con rinvio al giudice di merito. Dall'esame degli orientamenti giurisprudenziali formatisi a proposito della risoluzione dei contratti con parti collettive la Corte ha ricavato due principi ritenuti rilevanti:
Il parametro di riferimento è stato rinvenuto nella disciplina della comunione per la quale, se occorre il consenso di tutti i partecipanti per gli atti di disposizione del bene comune, è poi sufficiente la maggioranza per consentire le innovazioni e le opere eccedenti l'ordinaria amministrazione (con vincolo per la minoranza dissenziente). Quale extrema ratio, nel conflitto di interessi, ciascun partecipante può comunque rivolgersi all'autorità giudiziaria, che provvede in camera di consiglio. La Corte ha dato atto delle critiche che la dottrina ha rivolto verso l'estensione delle regole in tema di diritti reali di comunione alla materia contrattuale. Ma, ha affermato, il principio della maggioranza vale anche al di fuori della comunione dei diritti reali, come avviene ad esempio nei rapporti societari; ed esso è idoneo a fornire una soluzione quando uno solo dei componenti la parte vuole imporre agli altri la sua volontà di mantenere il contratto. Osservazioni Il principio di diritto espresso dalla Corte di legittimità non fornisce una regola sufficiente a dirimere tutte le questioni che sorgono nell'applicazione pratica. Esso è stato formulato con specifico riguardo ad un contratto di compravendita immobiliare e questa circostanza ha, da un lato, facilitato il reperimento di un criterio decisionale nell'analogia con lo scioglimento della comunione di beni materiali; dall'altro non sembra applicabile nell'ambito di rapporti con prestazioni aventi oggetto diverso dai diritti reali. Soltanto per inciso, nella motivazione, si è affermato che se il dissenziente resta contumace, la sua inerzia vale come mancata opposizione. Ma non è stato chiarito in base a quali regole il giudice debba decidere il contrasto tra coloro che intraprendono un'azione e i componenti della stessa parte che si oppongono all'iniziativa dei compartecipi. Gli artt. 1105 e 1108 c.c. indicati nella decisione del Supremo collegio stabiliscono la necessità che si formino maggioranze quantitativamente indicate ex lege, per la validità degli atti inerenti alla comunione: ma non può ritenersi che le relative disposizioni normative possano essere estese a fattispecie del tutto diverse (perché riferite ad atti di risoluzione di contratti di vendita), che quelle norme non disciplinano neppure indirettamente. E viene da chiedersi, poi, in base a quali risultanze il giudice chiamato a dirimere il contrasto di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto di compravendita deve intendere formatasi una maggioranza: gli stessi parametri stabiliti per la comunione? Esiste una identità di ratio che consente l'estensione? Inoltre, se i soggetti costituenti la parte complessa sono soltanto due, in disaccordo tra loro, come può dirsi formatasi una maggioranza? Il giudice in entrambi i casi avrebbe piena discrezionalità di regolarsi secondo il suo apprezzamento insindacabile degli interessi in gioco, dell'opportunità economica, degli interessi collettivi e di qualsivoglia altro aspetto che ritenga rilevante nella fattispecie. La Corte è giunta alla sua decisione dopo avere ricordato le varie opinioni espresse in dottrina e per decisioni giurisprudenziali a proposito della legittimazione a chiedere la risoluzione del contratto ad effetti reali nel caso di parte soggettivamente complessa. Le opinioni menzionate sono le seguenti:
Su di un aspetto messo in evidenza dalla pronuncia della Corte deve concordarsi. La giurisprudenza, pur nella diversità delle soluzioni proposte, ha affermato che qualora sia presentata una domanda di risoluzione per inadempimento di un contratto con pluralità di parti, anche soltanto da un lato, si verifica un'ipotesi di litisconsorzio necessario in quanto il rapporto sostanziale, essendo comune a più persone, non può sussistere nei confronti di alcuni soggetti interessati ed essere sciolto nei confronti degli altri, con la conseguenza per cui la sentenza è inutiliter data se non è pronunciata nei confronti di tutte le parti contraenti (sono state richiamate, tra le altre, Cass. civ., sez. II, 5 maggio 2016, n. 9042; Cass. civ., sez. II, 20 novembre 2012, n. 20346). Tutti i soggetti coinvolti nel contratto devono agire o essere convenuti nel processo nel quale è proposta la domanda di risoluzione del contratto e, se ciò non accade, il giudice deve ordinare l'integrazione del contraddittorio; se poi il componente della parte complessa che non ha aderito alla domanda sceglie di rimanere assente dal processo, si deve presumere la sua volontà di non contrastare coloro che hanno chiesto di sciogliere il contratto. La Corte avrebbe potuto fermarsi qui. Se i contitolari di un rapporto scelgono, tranne uno, di chiederne la risoluzione degli effetti e chi tace li lascia agire non partecipando, pur essendovi chiamato, al procedimento intrapreso dagli altri, può fondatamente presumersi che l'inerte non serbi una volontà contraria a detto scioglimento: se così non fosse egli si muoverebbe per manifestare le proprie ragioni contrarie. Ne segue che quando i soggetti componenti la parte complessa sono due, il silenzio dell'uno di essi consente di ritenere comune a entrambi la richiesta di risoluzione dell'altro senza che occorra ricercare motivazioni diverse. La Corte ha invece proseguito nella motivazione per affermare che il principio del consenso presunto (applicato nel caso della locazione della cosa comune: Cass. civ., sez. VI, 28 gennaio 2015, n. 1650; Cass. civ., sez. III, 14 maggio 2013, n. 11553) non può valere nel caso in cui uno dei componenti della parte complessa, costituendosi in giudizio, si oppone allo scioglimento del contratto. In questa ipotesi il conflitto che ne deriva può essere utilmente sciolto sulla base del criterio della maggioranza secondo quanto dispone l'art. 1108 c.c. e, se tale criterio non può operare, decide il giudice. Non era questa, però, la fattispecie portata all'esame del Collegio, posto che nel caso esaminato non era stata manifestata alcuna opposizione, essendosi limitato il contitolare non unitosi agli altri attori a rimanere inerte. E, come si è accennato all'inizio, se il giudice deve affidarsi al criterio decisionale della maggioranza si apre il problema delle modalità con le quali determinarla. |