Contratto a tempo determinato: ai fini della proroga acausale non si cumula la precedente somministrazione
14 Novembre 2024
Massima […] dal comma 2 dell'art. 19 cit. – che stabilisce il periodo di durata massima di 24 mesi anche in caso di successione di contratti a termine, dettando una speciale regola per il suo calcolo (“Ai fini del computo di tale periodo si tiene altresì conto dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni di pari livello e categoria legale, svolti tra i medesimi soggetti, nell'ambito di somministrazioni di lavoro a tempo determinato”) – e dal comma 4 del medesimo articolo – che prevede, dopo l'apposizione (salvo che per i rapporti di durata non superiore a 12 giorni) del termine per iscritto, in caso di rinnovo, la specificazione delle esigenze di cui al comma 1 per le quali sia stipulato, sia invece necessaria per la proroga del rapporto complessivamente eccedente i dodici mesi – si ricavi l'obbligo datoriale di specificazione della causale sempre nell'ipotesi di stipulazione di un nuovo contratto a termine (“rinnova”) e invece solo quando il termine complessivo superi i 12 mesi, nel caso di proroga del medesimo contratto. Il caso La contestazione della acausalità della proroga a seguito della novella del 2018 La fattispecie oggetto della presente trattazione di commento trae origine dal ricorso promosso da un dipendente di una Società per azioni, il quale ha adito la magistratura del lavoro invocando l'accertamento della illegittimità della proroga acausale apposta al contratto a tempo determinato intercorso con parte datoriale. Più nel dettaglio, il lavoratore aveva censurato l'operato della datrice evidenziando come, al momento della proroga del contratto a termine, egli avesse già lavorato in favore della stessa società per oltre 12 mesi, sicché detta proroga non poteva essere acausale, considerando l'operatività del disposto dell'art. 19, co. 4, d.lgs. n. 81/2015 (nel testo modificato dal d.l. n. 87/2018, conv. in L. n. 96/2018, in vigore al momento della proroga). Senonché, sia il Giudice di prime cure che quello d'appello respingevano le richieste del lavoratore, evidenziando, in sintesi, come l'interpretazione delle previsioni proposta dal ricorrente non fosse corretta, perché il contratto di lavoro a termine, legittimamente stipulato come acausale, era stato prorogato per un periodo complessivo non superiore a 12 mesi e questo rendeva la proroga acausale perfettamente legittima, vigendo la regola della libera prorogabilità del contratto nei primi 12 mesi di durata del rapporto. Secondo i Giudici di merito, invero, non sarebbe stato possibile cumulare il periodo di lavoro somministrato con il periodo di lavoro a termine, essendo tale cumulo, previsto dall'art. 19, co. 2, regola speciale, come tale valevole solo ai fini del calcolo del limite invalicabile di 24 mesi che deve essere osservato anche in caso di più rapporti “precari” con lo stesso datore di lavoro”. Il lavoratore, nondimeno, decideva di proporre ricorso per cassazione, denunciando, con l'unico motivo, la ritenuta violazione dell'art. 19 d.lgs. n. 81/2015, il quale, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, disporrebbe come, nel computo dei limiti temporali posti dalla legge alla stipulazione di contratti a tempo determinato, si debba tener conto anche dei periodi di missione svolti tra i medesimi soggetti nell'ambito di somministrazioni di lavoro a tempo determinato. La proroga disposta dal datore di lavoro, pertanto, non avrebbe potuto essere acausale, in considerazione dell'intervenuto superamento del periodo di 12 mesi, a causa della sommatoria del periodo di somministrazione con quello a termine intercorsi. La questione La cumulabilità del periodo di lavoro somministrato e di lavoro a termine ai fini dell'obbligatorietà dell'indicazione causale La questione sottesa alla pronuncia in esame involge la tematica interpretativa del combinato disposto dei commi 2 e 4 dell'art. 19 del d.lgs. n. 81/2015, con particolare riferimento alla possibilità di cumulare il periodo di lavoro somministrato con il periodo del lavoro a termine ai fini della necessità dell'indicazione causale, in sede di proroga, sancita dal comma 4 dell'art. 19. La soluzione giuridica La natura speciale del disposto del 2 comma dell'art. 19 D.lgs. 81/2015 e la libera prorogabilità del contratto nei primi 12 mesi di durata del rapporto La Suprema Corte, nel dirimere la vicenda posta al suo vaglio, parte dall'analisi semantica del dettato del combinato disposto dei commi 2 e 4 dell'art. 19 del d.lgs. n. 81/2015. Mentre, invero, il secondo comma della disposizione in esame stabilisce il periodo di durata massima di 24 mesi anche in caso di successione di contratti a termine (imponendo di dover tener altresì conto dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni di pari livello e categoria legale, svolti tra i medesimi soggetti, nell'ambito di somministrazioni di lavoro a tempo determinato), il successivo quarto comma del medesimo articolo dispone come la specificazione delle esigenze per le quali sia stato apposto il termine al rapporto di lavoro sia necessaria per la proroga del rapporto complessivamente eccedente i dodici mesi. Secondo gli Ermellini, dunque, i giudici di merito non hanno posto in discussione che alla proroga del contratto a termine acausale nel caso in oggetto fosse applicabile, ratione temporis, la disciplina dell'art. 19, comma 4, d.lgs. n. 81/2015, come in parte modificato dall'art. 1, comma 1, lett. a) d.l. 12.7.2018, n. 87, poi, convertito, con modificazioni, dalla L. 9.8.2018, n. 96. Per la Corte territoriale, infatti il contratto a termine di cui si discute, intervenuto con il lavoratore a seguito del rapporto di lavoro somministrato tra le stesse parti intercorso, era stato legittimamente stipulato come acausale ed altrettanto legittimamente prorogato, senza indicazione causale, per un periodo complessivo non superiore a 12 mesi. Ciò in quanto, non sarebbe possibile cumulare il periodo di lavoro somministrato con il periodo del lavoro a termine ai fini della necessità dell'indicazione causale sancita dal comma 4 dell'art. 19, posto che il comma 2 del medesimo articolo non si occupa di rinnovi o proroghe del contratto a termine, regolando, al contrario, un'ipotesi speciale di cumulo di periodi eterogenei per la natura dei rapporti considerati, ma solo ai fini del limite massimo di 24 mesi di cui si è detto. Secondo la Suprema Corte, in tale senso, è, del resto, ancora più chiaro l'art. 21, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 81/2015 (come introdotto sempre dal medesimo d.l. n. 87/2018), che dispone come il contratto può essere prorogato liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente, solo in presenza delle condizioni di cui all'art. 19, comma 1. Entrambe tali disposizioni coincidono nel non prevedere affatto la diversa ipotesi in cui il lavoratore, occupato con un contratto a termine successivamente prorogato, avesse in precedenza prestato la propria attività con un contratto di lavoro in somministrazione in favore dell'impresa, che lo abbia poi assunto direttamente con contratto a tempo determinato. Trattasi, invero, di circostanze assolutamente differenti. Peraltro, non solo il periodo di missione in somministrazione è retto da un contratto diverso da quello a termine (essendo la distinta e completa disciplina della “Somministrazione di lavoro” è contenuta nel successivo Capo IV del medesimo d.lgs. n. 81/2015), ma, nel caso di specie, sia il contratto di lavoro in somministrazione, sia il successivo contratto a termine poi prorogato erano intervenuti oltretutto in epoca antecedente alla menzionata novella del 2018, sotto la cui efficacia normativa era rimasta soggetta solamente la proroga del contratto a termine. Né varrebbe a superare tale corretto assunto il richiamo, operato dal lavoratore, ad un passo della Circolare n. 17/2018 del Ministero del lavoro e delle Politiche sociali, emanata proprio in riferimento al d.l. n. 87/2018, secondo il quale: “in caso di periodo di missione in somministrazione a termine fino a 12 mesi, è possibile per l'utilizzatore assumere il medesimo lavoratore direttamente con un contratto a tempo determinato per una durata massima di 12 mesi indicando la relativa motivazione”. Se, invero e per un verso, non va dimenticato come le circolari della P.A. siano atti interni di natura non normativa destinati ad indirizzare e disciplinare in modo uniforme l'attività degli organi inferiori, senza alcuna vincolatività per il giudice (cfr., tra le altre, Cass., sez. trib., 29.11.2022, n. 35098), per altro verso ed in ogni caso, il passo di detta Circolare sopra riportato, in cui sembra esigersi una “motivazione” per la conclusione di un contratto a tempo determinato di 12 mesi al massimo che segua ad un periodo di missione in somministrazione a termine fino a 12 mesi, non pare pertinente rispetto alla fattispecie in esame, nella quale, come già posto in luce, soltanto la proroga del contratto a termine è rimasta assoggettata alla disciplina novellata, mentre lo stesso contratto a termine era iniziato secondo la normativa previgente. Medesima irrilevanza la Corte, infine, destina al richiamo, operato dal ricorrente, al disposto dell'art. 34, comma 2, del d.lgs. n. 81/2015, in tema di disciplina dei contratti di lavoro in somministrazione a termine. Evidenzia, invero, al riguardo il massimo organo della Nomofilachia come nella fattispecie in esame viene in considerazione esclusivamente la legittimità della proroga del contratto a termine, legittimamente stipulato come acausale nel vigore dell'anteriore disciplina e, comunque, per un periodo inferiore a 12 mesi. La Corte di merito, dunque, ha correttamente rilevato come anche la proroga in questione non superasse complessivamente i 12 mesi, in conformità al novellato art. 19, comma 4, ultima parte, d.lgs. n. 81/2015, per modo da poter essere priva di specifica causale e risultare quindi legittima. Ne consegue, pertanto, come soltanto nel diverso caso (che non ricorre nella specie) in cui i periodi lavorativi, compreso quello di missione in somministrazione, avessero superato nel complesso il limite dei ventiquattro mesi, il lavoratore avrebbe potuto beneficiare della trasformazione del rapporto “in contratto a tempo indeterminato dalla data di tale superamento”, ai sensi del comma 2, ultimo periodo, dell'art. 19 cit., dovendosi, pertanto, rigettare il ricorso promosso dal lavoratore, non potendosi accogliere i motivi di censura in sede di legittimità dallo stesso proposti. Osservazioni La regola della acausalità nel rapporto di lavoro a tempo determinato La pronuncia in esame ci consente di avanzare alcune considerazioni di sintesi sul tema della reintroduzione, ad opera del legislatore del 2018, della sostanziale regola della motivazione per l'apposizione del termine (sopra i dodici mesi), quale limite interno al contratto basato sulla necessaria temporaneità della esigenza imprenditoriale. Nel nostro ordinamento, come è noto, il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato rappresenta la forma comune di rapporto di lavoro, in quanto caratterizzante il miglior assetto di bilanciamento sostanziale tra l'esigenza di stabilità occupazionale della forza lavoro e l'interesse datoriale alla continuità della prestazione lavorativa resa dai propri dipendenti. In tale contesto, dunque, la disciplina del rapporto a termine, contenuta nel citato Decreto legislativo n. 81/2015 al Capo III, è sempre stata considerata una previsione di eccezionalità, se pur legislativamente tipizzata, che, in quanto tale, importa il raccordo operativo con una serie di limitazioni, a carattere formale e sostanziale, connesse alla possibilità di valido ricorso a tale forma contrattuale. Pensiamo, ad esempio, al divieto di ricorrere allo strumento del contratto a termine da parte dei datori che non hanno effettuato la valutazione dei rischi o che vogliono provvedere alla sostituzione di lavoratori in sciopero, ovvero ancora nelle unità produttive nelle quali si è proceduto, nei 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi. Vi sono poi le limitazioni che attengono, invece, al numero massimo di lavoratori assumibili con rapporto di lavoro a termine all'interno dell'azienda, ovvero al rispetto di un periodo di stacco temporale (cosiddetto “stop & go”) tra i due contratti a termine in caso di riassunzione a tempo determinato, ovvero ancora che riguardano la durata massima (pari a 24 mesi) dei contratti a termine intercorsi tra le medesime parti ed il numero massimo di proroghe previste dal legislatore. Eppure, una indubbia rilevanza assume l'obbligo, a determinate condizioni, di giustificare le motivazioni sottese alla scelta datoriale di prediligere la temporaneità del rapporto a termine, posto che il legislatore, nel D.lgs. n. 81/2015, come novellato, sancisce la possibilità generalizzata, per contratti di durata fino a 12 mesi, di stipulare rapporti a termine per qualsiasi esigenza e per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, senza alcuna specifica causale. Qualora, invece, il termine apposto al contratto ecceda la soglia dei 12 mesi (ma sempre rispettando il limite invalicabile dei 24 mesi), è necessario che, in assenza di previsioni dei contratti collettivi (nazionali o territoriali stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e dai contratti collettivi aziendali stipulati dalle RSA /RSU e ferma restando la casistica, a sé stante, dell'esigenza di sostituzione di altri lavoratori) il datore di lavoro dia evidenza espressa delle esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva sottese alla giustificazione della durata temporalmente limitata della vicenda lavorativa. E tale esigenza causale, chiaramente, permane anche nelle ipotesi in cui, a causa di proroghe o rinnovi, il totale dei mesi di contratto a termine totalizzati dalle medesime parti supera i 12 mesi. Certamente, l'ampio margine di discrezionalità conferita all'autonomia privata (collettiva ed individuale) per la determinazione delle causali giustificative della decisione di temporaneità della prosecuzione del rapporto rappresenta un po' il dato peculiare della novella del 2018, pur non costituendo, però, un'assoluta novità nel nostro ordinamento. Al contrario, la previsione della nuova lett. b dell'art. 19, che rimanda alle esigenze tecniche organizzative e produttive individuate dalle parti, sembra riecheggiare il “famigerato causalone” che ha a lungo tenuto banco in seno al modello del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368. Vi è, dunque, un anelito di ritorno alla valorizzazione dell'autonomia individuale (sebbene solo a carattere temporaneo e gradato rispetto alla centralità, ben più pregnante, della prevalenza negoziale di matrice collettiva e pattizia) quale ancoraggio di sintesi alla concreta caratterizzazione della vicenda lavorativa, in un'ottica di mitigazione mediata della rigidità con cui sono state spesso valutate in passato le esigenze addotte dalle parti. Non dimentichiamo, infatti, come, da sempre, in tema di esigenze giustificatrici dell'apposizione del termine, le questioni più controverse hanno riguardato prevalentemente non tanto la definizione in astratto delle esigenze addotte, quanto la sussistenza in concreto della causale invocata e l'ancoraggio della stessa al caso di specie. E con la pronuncia in esame la Suprema Corte ha avvallato una valida ed utile interpretazione semantica del combinato disposto dei commi 2 e 4 dell'art. 19 del d.lgs. n. 81/2015 (come in parte modificati dall'avvento del d.l. n. 87/2018, convertito dalla l. 9 agosto 2018, n. 96), chiarendo la sostanziale impossibilità di cumulare il periodo di lavoro somministrato con il periodo del lavoro a termine ai fini della necessità dell'indicazione causale sancita dal comma 4 dell'art. 19, posto che il comma 2 del medesimo articolo non si occupa di rinnovi o proroghe del contratto a termine, regolando, al contrario, un'ipotesi speciale di cumulo di periodi eterogenei per la natura dei rapporti considerati, ma solo ai fini del limite massimo di 24 mesi di cui si è detto. Ne discende, dunque, una netta distinzione operativa e funzionale tra le due previsioni legislative per così dire “vicinali”, siccome entrambe contenute all'interno di due commi quasi contigui all'interno del medesimo articolo 19 in menzione, la cui diversità di ratio e di applicazione appare, nondimeno, evidente, siccome foriera di obiettivi finalisticamente distanti per ampiezza ed oggetto. |