Licenziamento per giusta causa: il dipendente in malattia può svolgere attività secondarie se compatibili con lo stato patologico lamentato e con buona fede
29 Novembre 2024
Massime È giustificato, nell'ambito dei principi generali di valutazione della gravità e proporzionalità della condotta con riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, il licenziamento del dipendente per una condotta a lui addebitata di tipo artificioso, in violazione degli obblighi di lealtà e correttezza, perché diretta, tramite la simulazione di uno stato fisico incompatibile con lo svolgimento dell'attività lavorativa, non solo all'assenza dal lavoro, ma anche al vantaggio indebito della partecipazione in orario di lavoro a partita di calcio già programmata (nell'ambito di campionato regionale), implicante uno sforzo fisico gravoso. Nel licenziamento disciplinare, se un dipendente svolge un'altra attività durante un'assenza per malattia, il datore di lavoro deve dimostrare che la malattia è simulata o che l'attività potrebbe pregiudicare il ritorno al lavoro. Il dipendente può svolgere attività secondarie, purché compatibili con la malattia e con buona fede. I casi Un lavoratore, con mansioni di operaio, durante l'assenza per malattia partecipa ad una competizione ufficiale del campionato di calcio e, perciò, viene licenziato. Una lavoratrice addetta alla mensa di un ospedale mentre è in malattia esce più volte dal domicilio recandosi in un'occasione presso una sala giochi e, in un'altra, a fare spesa in un centro commerciale. Viene, anche lei, licenziata. Nel primo caso dei casi considerati, il dipendente in malattia, operante nel settore pubblico dei servizi autoferrotranvieri (sottoposto quindi alla disciplina del R.D. n.148/1931), era stato licenziato in quanto la sua partecipazione ad una partita di calcio del campionato regionale di prima categoria, circostanza appresa in seguito dal datore di lavoro, configurava a giudizio di quest'ultimo la fattispecie disciplinare della destituzione ex art. 45, n.2, R.D. cit., prevista per chi adopera artifici al fine di procurarsi vantaggi indebiti nel rapporto di servizio. Nel secondo, la lavoratrice, come emergeva da una relazione investigativa a seguito di pedinamento, pur se al di fuori delle fasce orarie di reperibilità si era allontanata dal domicilio recandosi, in un'occasione, presso una sala giochi ed in un'altra a fare spesa all'interno di un centro commerciale. In ambedue le vicende i datori di lavoro avevano valutato le condotte dei dipendenti come gravemente contrarie ai doveri contrattuali di correttezza, lealtà e diligenza, da osservarsi anche durante l'assenza per malattia, ritenendo appunto doversi applicare nei loro confronti la sanzione disciplinare massima dell'interruzione del rapporto. Inoltre, perlomeno per il secondo datore di lavoro, gli stessi elementi presuntivi erano rivelatori del carattere simulato della malattia dichiarata dalla lavoratrice. Entrambi i recessi datoriali venivano impugnati dai dipendenti, con esiti opposti avanti il giudice di merito: rigetto, per il lavoratore “calciatore”; accoglimento, per la lavoratrice sorpresa in sala giochi e a fare shopping. Finalità opposte hanno quindi pure i ricorsi alla Corte di Cassazione: volti, da un lato, al capovolgimento della citata pronuncia di legittimità del licenziamento; e, dall'altro, alla riforma della declaratoria d'illegittimità del recesso datoriale con relativo ordine di reintegrazione nel posto di lavoro. La questione Le “altre attività” consentite al dipendente in malattia. Conseguenze di carattere disciplinare. L'argomento è dato dalla valutazione in ambito disciplinare del comportamento tenuto dal lavoratore durante il periodo di assenza dal lavoro a causa di malattia. Ciò che il dipendente in malattia fa fuori del luogo ed dell'orario di lavoro, pur se apparentemente estraneo alla prestazione dedotta in contratto, può avere conseguenze sul rapporto sotto un duplice profilo: la verifica della reale sussistenza dello stato patologico lamentato dal lavoratore e, per tale via, della effettiva giustificazione dell'assenza; l'accertamento della correttezza e buona fede dello stesso nel recupero delle energie lavorative in preparazione della proficua ripresa del servizio, quand'anche da parte datoriale non si contesti la veridicità dell'attestato di malattia. Ai fini dedotti è utile ricordare che, nell'ordimento lavoristico, la malattia non consiste in qualunque alterazione dello stato psico-fisico del lavoratore ma soltanto nella condizione di infermità che abbia determinato in capo a quest'ultimo, per la sua intrinseca gravità o per l'incidenza sulle mansioni normalmente svolte, una concreta ed attuale, anche se transitoria, incapacità al lavoro. Pertanto, quantunque la malattia comprometta la possibilità per il dipendente di svolgere la determinata attività oggetto del rapporto di lavoro, le residue capacità psico-fisiche possono consentire al medesimo altre e diverse attività. Ne discende che a essere precluso al lavoratore non è lo svolgimento di qualunque attività, azione od occupazione, in primis quella lavorativa, in pendenza di malattia, bensì esclusivamente quelle incompatibili con lo stato di salute e cioè tali da comportare un pregiudizio alla guarigione (cfr., fra le tante, Cass. n.13063/2022; Cass. n. 21938/2012; Cass. n. 21620/2010). La questione si correla al potere di valutazione ed indagine accordato al datore di lavoro circa la condizione di malattia addotta dal lavoratore a giustificazione dell'assenza. Anche se entro un ristretto perimetro (cfr. art. 5 St. lav.), che esclude accertamenti sanitari al di fuori di quelli effettuabili attraverso i servizi ispettivi dell'istituto previdenziale, l'attuale ordinamento infatti permette al datore di lavoro di contestare l'attendibilità del certificato medico prodotto dal lavoratore, essendo peraltro tale certificato soggetto, al pari di ogni altro documento, ad una definitiva valutazione di merito da parte del giudice (Cass. 30/01/1990, n. 609). La ragione di ciò sta nel fatto che, contrapposto al diritto del dipendente a conservare il posto di lavoro ed a percepire un'indennità durante il periodo di malattia, vi è l'interesse della parte datoriale, e dello stesso ente assicuratore, di accertare, come detto, l'effettivo stato di salute del lavoratore nonché che quest'ultimo non ponga in essere comportamenti tali da ostacolare il recupero di questa. E l'effettiva condizione psico-fisica del lavoratore nel periodo di malattia, quale perlomeno apparente dal suo comportamento esteriore nella vita di tutti i giorni, può essere dal datore di lavoro accertata anche tramite indagini investigative (sulla liceità delle quali, in rapporto agli artt. 5 e 8 Stat. lav., cfr. Cass. n.3630/2017; Cass. n.20433/2016; Cass. n. 25612/2014). All'esito di tali accertamenti, allorquando emergano comportamenti incompatibili con il denunciato stato di malattia, possono trarsi conseguenze di carattere disciplinare, sino al licenziamento. La faccenda naturalmente confluisce nel più generale tema della valutazione della gravità dell'infrazione disciplinare e sulla conseguente proporzionalità della relativa sanzione, nel rispetto del principio all'uopo fissato dall'art 2106 c.c. Dovendosi in particolare verificare se, nel caso concreto, la condotta inadempiente sia riconducibile, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, alla nozione legale di giusta causa ai fini del licenziamento (art.2119 c.c.). Da segnalare inoltre che gli elementi presuntivi della simulazione o, comunque, di un comportamento sleale del dipendente non sono, almeno secondo la giurisprudenza maggioritaria, da ricercarsi in seno al rapporto di lavoro. Rimangono infatti isolate alcune pronunce di segno contrario: ad es., sono stati ritenuti legittimi i licenziamenti di un lavoratore che si sia “messo in malattia” dopo essersi visto rifiutare reiteratamente un permesso (Trib. Milano 3/7/1991, in Riv. Critica Dir. Lav., 1992, 154), o di altro la cui depressione si sia manifestata in istantanea concomitanza con un trasferimento sgradito (Trib. Torino 7/2/2005, in Giur. piemontese, 2006, 1, 100). Assai più comune è invece il riferimento alla condotta tenuta dal lavoratore nella sua sfera privata, soprattutto se la stessa assume modalità occulte e/o artefatte. In tale prospettiva, oltre ad attività lavorative ulteriori ed esterne al rapporto considerato l'attenzione è rivolta allo svolgimento di attività sportive e ludico-ricreative: azioni, tutte, da ritenersi lecite nel limite in cui siano rispettose dei principi di correttezza e buonafede e, di conseguenza, non mettano a repentaglio le possibilità di ripresa fisica e psicologica del lavoratore. Al riguardo, la casistica giurisprudenziale è varia ed eterogenea, specchio del resto degli italici costumi. Tra gli esempi di occupazioni del lavoratore che, in considerazione delle particolarità del caso, sono state ritenute incompatibili con la sua malattia e quindi giusta causa di licenziamento può annoverarsi il lavoro prestato nelle attività economiche di famiglia (come una pizzeria, cfr. Cass. n.7641/2019), quello nei campi (Cass. n.11535/2020), la guida di auto, scooter o moto e relativa attività di carico/scarico (Cass. n.12994/2023), la pratica sportiva (Cass.n.144/2015), tanto più se a livello agonistico (Cass. n. 10647/2017) o professionale (come istruttore di una palestra, Cass. n.22029/2010). Per contro, sono stati dal giudice considerati illegittimi, tra gli altri, i licenziamenti del lavoratore che durante la malattia è uscito di casa per acquisti e altre attività quotidiane (Cass. n. 6375/2011; Cass. n. 1173/2018) o ha giocato a tennis senza su ciò mentire al proprio datore di lavoro (Cass. n.1374/2018). Uno sguardo d'insieme consente comunque di cogliere nella più recente giurisprudenza un aumentato rigore nella valutazione della condotte esterne del dipendente assente per malattia. Tanto che, sul piano processuale, la congruità o meno della prognosi di cui alla certificazione medica di malattia è in simili casi considerata come valutabile direttamente dal giudice, anche prescindendo da accertamenti tecnici medico scientifici. Le soluzioni giuridiche La S.C., in applicazione di consolidati principi giurisprudenziali ma considerando le particolarità del caso concreto, decide con esiti opposti due situazioni in apparenza simili. In entrambe le pronunce di legittimità esaminate, la Corte richiama sui vari temi in discussione il consolidato proprio orientamento. Fulcro del ragionamento compiuto la considerazione che lo svolgimento di altra attività da parte del dipendente durante lo stato di malattia può configurare la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede. Ed essere quindi disciplinarmente rilevante. Invero, in primo luogo, tale attività esterna può, di per sé, essere sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione. Oppure, essa, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, può fondatamente convincere che la guarigione o il rientro in servizio del lavoratore siano stati nel caso concreto pregiudicati o comunque ritardati (cfr. Cass. n.10416/2017; Cass. n. 26496/2018; Cass. n. 16465/2015). A tali principi, aggiunge nell'occasione la S.C., si correla la nozione di malattia rilevante a fini di sospensione della prestazione lavorativa: che ricomprende le situazioni nelle quali l'infermità determini, per intrinseca gravità o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale, sebbene transitoria, incapacità al lavoro del medesimo (cfr. Cass. n. 14065/1999, Cass. n. 12152/2024). Per cui, anche ove la malattia comprometta la possibilità di svolgere quella determinata attività oggetto del rapporto di lavoro, può comunque accadere che le residue capacità psico-fisiche possano consentire al lavoratore altre e diverse attività. Tuttavia, sottolinea ancora la S.C., in ragione del sopra descritto rilievo disciplinare dello svolgimento di tali attività, in relazione alle stesse può anche giustificarsi la sanzione del licenziamento. Vertendosi in materia di licenziamento disciplinare, deve al riguardo ricordarsi che grava sul datore di lavoro la prova che la malattia sia simulata ovvero che l'attività svolta nei giorni di assenza sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio (cfr. Cass. n. 6047/2018, la quale osserva che il lavoratore assente per malattia non per questo deve astenersi da ogni altra attività, quale in ipotesi un'attività ludica o di intrattenimento, anche espressione dei diritti della persona, purché compatibile con lo stato di malattia e in conformità all'obbligo di correttezza e buona fede, gravante sul lavoratore, di adottare le idonee cautele perché cessi lo stato di malattia). E l'accertamento in ordine alla sussistenza o meno dell'inadempienza idonea a legittimare l'interruzione del rapporto, sia essa, nei termini indicati, la fraudolenta simulazione della malattia ovvero l'idoneità della diversa attività contestata a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche, si risolve in un giudizio di fatto, che dovrà tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, come tale riservato al giudice del merito con i conseguenti limiti di sindacato in sede di legittimità (v. Cass. n. 24812/2016, n. 21667/2017; cfr. anche Cass. n. 107/2024). In entrambi i casi sottoposti al suo vaglio, la S.C. reputa in definitiva corretta l'applicazione dei surriferiti principi di diritto operata dal giudice di merito. In particolare, per le attività accertate in capo alla lavoratrice in malattia al di fuori del domicilio, la Corte di legittimità conferma l'inidoneità di tali circostanze, per la loro marginalità, a provare la simulazione della malattia certificata non risultando in alcun modo dimostrato che la lavoratrice stessa si fosse assentata dal lavoro in malafede. Nel caso della partita di calcio, viceversa, la condotta addebitata al lavoratore viene considerata di tipo artificioso, in violazione degli obblighi di lealtà e correttezza, perché diretta, tramite la simulazione di uno stato fisico incompatibile con lo svolgimento dell'attività lavorativa, non solo all'assenza dal lavoro, ma anche al vantaggio indebito della partecipazione in orario di lavoro a partita di calcio già programmata (nell'ambito di campionato regionale), implicante uno sforzo fisico gravoso. Osservazioni Al di là di un apparente contrasto nelle soluzioni adottate, la S.C. in realtà ribadisce per due distinte pur se somiglianti situazioni, in maniera del tutto coerente, il consolidato principio giurisprudenziale per il quale durante l'assenza per malattia il lavoratore può svolgere altra attività - lavorativa, sportiva, ricreativa o comunque di svago - purché questo comportamento non evidenzi la fraudolenta simulazione dell'infermità oppure, quale distinta ipotesi, esso sia di per sé idoneo a pregiudicare o ritardare la sua guarigione ed il rientro in servizio. Per giustificare il licenziamento, o comunque per poter dare rilievo disciplinare alla condotta stessa, il datore di lavoro ha l'onere di provare l'incidenza della diversa attività nel ritardare o pregiudicare la guarigione. Il giudice di legittimità, nel motivare le opposte decisioni assunte, evidenzia con sufficiente chiarezza le specifiche circostanze che, nelle diverse vicende valutate, sono state considerate al fine di stabilire l'effettivo valore negativo delle condotte rispettivamente addebitate ai dipendenti: da una parte, la gravosità dello sforzo fisico intuitivamente insita nella partecipazione ad una competizione sportiva (partita di calcio) di livello agonistico, circostanza ritenuta oggettivamente incompatibile con una “vera” malattia in atto; dall'altra parte, il carattere comune e nient'affatto impegnativo sotto il profilo fisico delle attività ludiche e di intrattenimento svolte dalla lavoratrice nel tempo libero e fuori della fasce di reperibilità, del tutto compatibili con la patologia nell'occasione certificata dal medico e con la buona fede della dipendente stessa. |