La Corte costituzionale sulla decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di responsabilità nei confronti del revisore legale
03 Dicembre 2024
Massima La Corte costituzionale, con la sentenza n. 115 del 1° luglio 2024, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 3, d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 39, in materia di decorrenza del termine di prescrizione dell'azione di responsabilità esercitata nei confronti del revisore legale di società, sollevata dal Tribunale di Milano con ordinanza n. 133 del 15 settembre 2023 in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione. Segnatamente, il Giudice delle leggi ha escluso, da un lato, con riguardo all'azione di responsabilità esercitata dalla società, che la norma di cui all'art. 15, comma 3, d.lgs. 27 gennaio 2010 sia suscettibile di censure, in quanto prevede un dies a quo coincidente con il momento del perfezionamento del fatto illecito già produttivo di danni, e, dall'altro lato, che la medesima norma possa trovare applicazione anche con riguardo all'azione di responsabilità esercitata dai soci o dai terzi, soggetta invece all'ordinaria disciplina di cui all'art. 2947 c.c. Il caso La Sezione Specializzata in materia di impresa del Tribunale di Milano, con ordinanza n. 133 del 15 settembre 2023, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 3, d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 39, come modificato dall'art. 17 del d.lgs. 17 luglio 2016, n. 135, “nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione delle azioni nei confronti di revisori e società di revisione decorre dalla data della relazione di revisione sul bilancio d'esercizio o consolidato emessa al termine dell'attività di revisione cui si riferisce l'azione di risarcimento” (per un approfondimento, si consenta il rinvio a: Legnani, Ciliberti, Alla Corte Cost. il dies a quo della decorrenza del termine quinquennale di prescrizione dell'azione di responsabilità verso il revisore legale, in questo portale). In particolare, il Tribunale milanese aveva individuato un contrasto di tale previsione normativa con l'art. 3 Cost., secondo una duplice prospettiva, ossia ravvisando: (i) un aspetto di irragionevole discriminazione rispetto alla disciplina del decorso del termine prescrizionale previsto per le azioni di responsabilità verso amministratori e sindaci di società; (ii) un profilo di irragionevolezza intrinseca della norma, suscettibile di determinare un concreto ostacolo all'esercizio del diritto di cui all'art. 24 Cost. da parte della società, dei soci e dei terzi, nella misura in cui consentirebbe la decorrenza del termine prescrizionale anche qualora il (potenziale) danneggiato non sia divenuto titolare del diritto risarcitorio o non possa materialmente esercitarlo, perché il danno non si è ancora prodotto nella sua sfera patrimoniale o perché non ne è ancora a conoscenza. Le questioni Come anticipato, la Corte costituzionale ha disatteso la prospettazione del Giudice rimettente, escludendo il contrasto della norma in discorso con i princìpi costituzionali invocati e svolgendo al contempo alcune considerazioni in ordine alla disciplina del termine prescrizionale dell'azione di responsabilità esercitata nei confronti del revisore legale. Più in particolare, il Giudice delle leggi ha innanzitutto osservato che i revisori rispondono non soltanto dei danni cagionati - mediante il loro inadempimento - alla società che ha conferito loro l'incarico, ma anche dei danni che la loro attività può aver prodotto direttamente in capo ai soci o a terzi, per aver questi ultimi erroneamente riposto il proprio affidamento sulle risultanze della revisione contabile scorrettamente effettuata: alla prima categoria di danni corrisponde una responsabilità contrattuale dei revisori nei confronti della società, alla seconda una responsabilità extracontrattuale nei confronti appunto dei soci o dei terzi direttamente danneggiati. Così delimitato il campo di indagine, la Corte costituzionale ha affrontato le specifiche censure mosse dal Tribunale di Milano alla norma sospettata di incostituzionalità, anzitutto con riferimento all'azione di responsabilità esercitabile dalla società che ha conferito l'incarico al revisore dei conti. Sul punto, la Corte costituzionale, in merito al paventato profilo dell'irragionevole discriminazione, sotto il quale il Giudice a quo aveva ravvisato un contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza formale, la Corte costituzionale ha affermato l'erroneità del riferimento interpretativo utilizzato dal Tribunale, consistente nella disciplina del decorso del termine prescrizionale previsto per le azioni di responsabilità verso gli amministratori e i sindaci di società. In particolare, la Corte ha osservato che l'ordinamento detta una diversa disciplina della decorrenza del termine prescrizionale dell'azione di responsabilità esperibile nei confronti di amministratori e sindaci: vale a dire, “dalla cessazione dell'amministratore dalla carica” per l'azione sociale ai sensi dell'art. 2393, comma 4, c.c.; dal momento in cui “il patrimonio risulta insufficiente al soddisfacimento dei […] crediti” per l'azione esercitata dai creditori sociali ai sensi dell'art. 2394 c.c.; “dal compimento dell'atto che ha pregiudicato il socio o il terzo” per l'azione esercitata da questi ultimi, in quanto direttamente danneggiati, ai sensi dell'art. 2395, comma 2, c.c. (tali previsioni, secondo la Corte costituzionale, troverebbero appunto applicazione anche alle azioni di responsabilità esercitate nei confronti dei sindaci, alla stregua del rinvio operato dall'art. 2407, comma 3, c.c.). In altri termini, la circostanza che il legislatore non abbia ritenuto di individuare in modo omogeneo un unico dies a quo per le azioni di responsabilità promuovibili nei confronti degli amministratori e dei sindaci, deporrebbe, a differenza di quanto affermato dal Giudice rimettente, nel senso dell'impossibilità di ravvisare l'esistenza di un preciso tertium comparationis ai fini del giudizio c.d. “di coerenza”. Né a tali fini, secondo la Consulta, potrebbe ritenersi che, nell'ambito degli illeciti societari, sia assurto a rango di diritto vivente - parimenti da utilizzare come tertium comparationis - il principio secondo cui il dies a quo del termine prescrizionale delle azioni risarcitorie debba necessariamente coincidere con il momento della obiettiva conoscibilità del danno da parte del danneggiato. A testimonianza di ciò, la Corte ha rilevato che, in ordine alla medesima azione sociale di responsabilità verso gli amministratori, vi sarebbero state pronunce di merito che - in ossequio ad esigenze di certezza del diritto - hanno interpretato in senso letterale il disposto di cui all'art. 2393, comma 4, c.c., identificando il dies a quo (puramente e semplicemente) con il momento della cessazione dell'incarico dell'amministratore, a prescindere dal momento (eventualmente successivo) in cui il danno sarebbe divenuto percepibile per la società (ad es., Trib. Bologna, Sez. spec. impresa, 30 marzo 2023, n. 732; Trib. Trieste, Sez. spec. impresa, 14 novembre 2022, n. 559; Trib. Napoli, sez. spec. impresa, 7 marzo 2022, n. 2267). Con riguardo, poi, al secondo profilo di contrasto con l'art. 3 Cost. paventato dal Tribunale di Milano, ossia quello dell'irragionevolezza intrinseca della norma censurata, la Corte costituzionale ha affermato la sussistenza, in linea generale, della necessità di bilanciare due interessi contrapposti: da un lato, quello del danneggiante a liberarsi dall'eventuale vincolo obbligatorio una volta decorso un determinato periodo di tempo, anche in considerazione del fatto che la difesa in giudizio - a distanza di molto tempo - potrebbe dimostrarsi non più agevole, nonché in coerenza con l'interesse pubblicistico ad assicurare la certezza del diritto; dall'altro lato, quello del danneggiato a far valere il proprio diritto risarcitorio senza subire l'effetto preclusivo della prescrizione, se non a fronte di una propria inerzia non giustificabile. Ebbene, secondo la Corte costituzionale, al legislatore è attribuita ampia discrezionalità con riguardo alla fissazione dei termini per l'esercizio di singoli diritti, e il suo intervento deve essere limitato ad evitare che uno di tali contrapposti interessi subisca un irragionevole sacrificio. Per quanto riguarda l'azione di responsabilità nei confronti del revisore esercitabile dalla società, dunque, la Corte costituzionale ha escluso la manifesta irragionevolezza della scelta del legislatore di far decorrere il termine quinquennale di prescrizione dal deposito della relazione di revisione, per un duplice ordine di motivi. Per un primo verso, ha osservato che - ai sensi dell'art. 15, commi 1 e 2, d.lgs. n. 39/2010 - il revisore risponde in solido con gli amministratori dell'intero danno cagionato al patrimonio sociale, anche nell'ipotesi in cui il suo contributo effettivo sia stato minimo (salva l'azione di regresso verso gli amministratori): ciò renderebbe meritevole di tutela l'interesse del revisore a non essere costretto a difendersi in giudizio a fronte di pretese avanzate a distanza di molto tempo (magari diversi anni) dall'esecuzione della sua prestazione. Di conseguenza, secondo la Corte costituzionale, benché la posizione della società danneggiata risulti certamente meno protetta di quanto lo sarebbe se il termine di prescrizione decorresse dalla oggettiva conoscibilità di tutti i danni cagionati, deve ritenersi - anche in considerazione della previsione della responsabilità solidale del revisore - che la scelta del legislatore sia comunque rispettosa del livello di tutela minimo del danneggiato da considerarsi accettabile. Per un secondo verso, la Corte costituzionale ha rilevato che, sin dal deposito della relazione di revisione inesatta, scorretta o comunque frutto di inadempimento contrattuale da parte del revisore, la società subisce immediatamente un danno, costituito dalla perdita economica correlata al valore (minore o nullo) della prestazione inesattamente eseguita: già da questo momento, dunque, la società creditrice vanterebbe un interesse attuale a far valere - anche in via stragiudiziale - una pretesa risarcitoria. D'altro canto, per scongiurare il rischio che una condotta dolosa del revisore contribuisca ad occultare i danni cagionati alla società, ad esempio mediante la consapevole omessa segnalazione del carattere non veritiero e corretto delle risultanze del bilancio, ben potrebbe trovare applicazione anche al caso di specie la disposizione di cui all'art. 2941, n. 8, c.c., ai sensi del quale la prescrizione rimane sospesa “tra il debitore che ha dolosamente occultato l'esistenza del debito e il creditore, finché il dolo non sia stato scoperto”. A conclusioni diverse, invece, è giunta la Corte costituzionale con riferimento alla distinta ipotesi dell'azione di responsabilità che potrebbero attivare i soci o i terzi direttamente danneggiati dalla relazione errata o comunque viziata del revisore legale. Secondo l'opinione del Giudice delle leggi, infatti, in questo caso l'applicazione della previsione normativa oggetto di valutazione sarebbe, viceversa, del tutto incompatibile con il principio secondo cui il dies a quo della prescrizione dell'azione risarcitoria non possa essere antecedente allo stesso perfezionamento del fatto illecito produttivo dei danni, che rende altresì identificabili i soggetti danneggiati: la regola di cui all'art. 15, comma 3, d.lgs. n. 39 del 2010, pertanto, non garantisce - con riferimento alle azioni di responsabilità spettanti ai soci e ai terzi - il livello di tutela minima costituzionalmente garantito dall'art. 24 Cost. per il soggetto danneggiato. Per la relativa disciplina, dunque, occorre far riferimento esclusivamente alla regola generale valevole per la responsabilità aquiliana di cui all'art. 2947 c.c., secondo cui il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto stesso si è verificato. Pertanto, la Consulta ha ritenuto, in sintesi, che per ricondurre l'art. 15, comma 3, d.lgs. n. 39/2010 al canone di ragionevolezza, è necessario (ed anche sufficiente) limitare il campo applicativo della stessa norma alle sole azioni di responsabilità esercitate nei confronti del revisore dalla società che ha conferito l'incarico: è proprio in quest'ottica, del resto, che si giustificherebbe la riduzione della durata della prescrizione del termine ordinario decennale a quello quinquennale di cui alla disposizione in commento. Osservazioni Il Giudice delle leggi, disattendendo la prospettazione suggerita dall'ordinanza di rimessione, ha rifiutato l'assimilazione tra l'azione di responsabilità spettante alla società e quella esercitabile dai soci e dai terzi, procedendo ad un'analisi distinta delle due fattispecie e giungendo a conclusioni differenti. Quanto, anzitutto, all'azione di responsabilità esercitata nei confronti dei revisori da parte della società che ha conferito l'incaric o, la Corte costituzionale ha rigettato in toto le censure mosse dal rimettente, affermando, come si è visto:
Nella prospettiva generale assunta della Corte costituzionale, infatti, la sintesi dei due interessi contrapposti (del danneggiante e del danneggiato) deve essere discrezionalmente ricercata dal legislatore, il quale è chiamato ad individuarla nello spettro di possibilità oscillanti tra una tutela massima del danneggiato (rappresentata dalla conoscibilità di tutti i danni risarcibili e della loro derivazione causale dell'illecito) e una tutela minima (costituita dal mero verificarsi della condotta lesiva produttiva di danni). Ora, con riferimento anzitutto all'azione di responsabilità esercitabile dalla società, il cardine del ragionamento della Corte costituzionale è rappresentato, a ben vedere, dal convincimento che il deposito della relazione scorretta o infedele da parte del revisore già determinerebbe un inadempimento produttivo di un danno per la stessa società (evidentemente già conoscibile, al pari dell'inadempimento del revisore), sì che la disciplina del relativo termine prescrizionale, contenuta nella norma censurata dal Tribunale di Milano, dovrebbe ritenersi rispettosa dei princìpi costituzionali invocati. Ebbene, sotto il profilo in esame, la pronuncia della Corte costituzionale desta più di una perplessità. In primo luogo, appare errato il presupposto da cui ha preso le mosse l'argomentazione svolta dalla Consulta, ossia quello dell'inesistenza di un c.d. tertium comparationis su cui fondare un giudizio “di coerenza” della norma rispetto alla disciplina della prescrizione delle azioni di responsabilità promuovibili dalla società, dai creditori sociali e dai soci o dai terzi nei confronti degli amministratori e dei sindaci. Più in particolare, il vizio del ragionamento contenuto nella motivazione della decisione della Corte risulta, a questo proposito, duplice. Da un lato, non è corretto affermare che le regole valevoli per le azioni di responsabilità esercitabili nei confronti degli amministratori (dalla società, dai creditori sociali e dai singoli soci o terzi) siano applicabili nei medesimi termini anche alle azioni di responsabilità nei confronti dei sindaci: alla stregua del disposto di cui all'art. 2407, comma 2, c.c., del resto, le norme dettate per le azioni verso gli amministratori sono estensibili a quelle esercitate nei confronti dei sindaci solo “in quanto compatibili”. La principale differenza si registra proprio con riferimento all'azione sociale di responsabilità: invero, l'art. 2393, comma 4, c.c. impedisce (per ovvie e note ragioni) il decorso della prescrizione nei confronti degli amministratori sino alla cessazione di questi ultimi dalla carica, mentre la stessa esigenza non si pone per l'azione esercitata dalla società nei confronti dei sindaci, motivo per cui è ritenuta pacificamente inapplicabile a costoro la causa di sospensione di cui all'art. 2941, n. 7, c.c. (ex Ex plurimis, Trib. Venezia, 28 febbraio 2024; Trib. Milano, 20 dicembre 2016, n. 13929; Trib. Lecce, 9 dicembre 2011) Dall'altro lato e soprattutto, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte costituzionale, tali disposizioni - concernenti, appunto, le azioni di responsabilità variamente esperibili in ambito societario - sono tutte destinate ad applicarsi a fronte dell'esistenza di un danno già verificatosi e pienamente percepibile dal soggetto che lo ha subìto: a questo riguardo, dunque, non pare si possa sostenere l'inesistenza di un diritto vivente in forza del quale la disciplina ordinaria in tema di decorrenza del termine prescrizionale - e, in definitiva, dell'art. 2935 c.c. - sia destinata ad applicarsi a tutte le azioni di responsabilità riguardanti il contesto societario. La stessa ordinanza di rimessione, infatti, aveva osservato che nel regime prescrizionale della responsabilità extracontrattuale degli amministratori e dei sindaci “il dies a quo di decorrenza del termine prescrizionale non poteva che essere ricondotto al ‘fatto illecito' di cui all'art. 2947, comma 1 c.c., necessariamente inclusivo di nesso di causalità e danno, dalla cui conoscenza il termine inizia a decorrere”. Nel medesimo senso, cfr. Cass., 4 dicembre 2015, n. 24715, secondo cui “con riguardo all'azione sociale, il termine prescrizionale decorre dal momento in cui il danno diventi oggettivamente percepibile all'esterno e cioè si sia manifestato nella sfera patrimoniale della società”. Cfr. anche Trib. Milano, 6 settembre 2023, n. 6915, secondo cui “l'azione sociale di responsabilità ex art. 2393 c.c. si prescrive nel termine di cinque anni; il termine, in applicazione del principio generale di cui all'art. 2935 c.c., decorre dal momento in cui il danno diventa oggettivamente percepibile all'esterno, manifestandosi nella sfera patrimoniale della società”; nonché Trib. Milano, 21 maggio 2020, n. 2892, secondo cui “[i]l termine di prescrizione dell'azione di responsabilità sociale decorre dal momento in cui il danno diventi oggettivamente percepibile all'esterno, cioè si sia manifestato nella sfera patrimoniale della società (Cass 24715/2015). Si tratta, invero, di applicazione del generale principio in materia di decorso della prescrizione delle azioni di risarcimento danni da responsabilità contrattuale per cui ‘in tema di risarcimento del danno contrattuale al fine di determinare il dies a quo della prescrizione occorre verificare il momento in cui si sia prodotto nella sfera patrimoniale del creditore il pregiudizio' (Cass 5504/2012)”. In altri termini, non può affatto escludersi che la conoscibilità del danno sia indefettibilmente connaturata tout court alla ratio stessa dell'istituto della prescrizione, il cui presupposto di operatività è - come riconosciuto anche dalla Corte costituzionale nella pronuncia in commento, d'altronde - l'inerzia ingiustificata del titolare del diritto, per la cui configurabilità è necessario (i) che il diritto sia effettivamente sorto, (ii) che il titolare si sia effettivamente trovato nella condizione di conoscere l'esistenza del medesimo e (iii) di esercitarlo, ma, nonostante ciò, (iv) abbia trascurato di farlo. Affermare che la piena conoscibilità del danno non rilevi, peraltro, appare altresì in controtendenza con l'orientamento maggioritario accolto nella giurisprudenza, anche di legittimità, secondo cui è necessario che l'exordium praescriptionis coincida con il momento di verificazione del fatto dannoso, comprendente non solo l'azione illecita (i.e., la condotta contra ius), ma anche la piena conoscibilità dell'effetto lesivo da parte del danneggiato (Cass. 13 marzo 2023, n. 7262; Cass., Sez. Un., 29 gennaio 2021, n. 2146; Corte dei Conti Liguria, Sez. giurisdiz., 5 ottobre 2020, n. 68). D'altro canto, due delle tre pronunce richiamate dalla Corte costituzionale a sostegno della tesi dell'inesistenza sul punto di un “diritto vivente”, non hanno affermato, in realtà, che l'art. 2393, comma 4, c.c. debba essere interpretato alla lettera e che, quindi, debba escludersi la rilevanza della conoscibilità del danno per la società verificatasi soltanto dopo la cessazione degli amministratori dalla carica; inoltre, con riferimento all'azione di cui all'art. 2394 c.c., le due medesime pronunce in questione hanno ribadito che il termine di prescrizione non possa decorrere se non dalla percepibilità esteriore dell'incapienza patrimoniale della società e, quindi, del danno subìto dai creditori (precisando che “l'eventuale falsa rappresentazione di poste attive non avrebbe certamente potuto determinare l'evidenza per i terzi dell'incapienza patrimoniale della società, avendo comportato, piuttosto, la falsa rappresentazione di una solida situazione finanziaria”: Trib. Bologna, Sez. spec. Impresa, 30 marzo 2023, n. 732, cit.; Trib. Napoli, Sez. spec. Impresa, 7 marzo 2022, n. 2267, cit.). Insomma, disancorare il decorso del termine prescrizionale dal parametro della conoscibilità del danno appare (anche per quanto concerne la posizione della società danneggiata dalla condotta del revisore, appunto) un'operazione che trascura l'essenza stessa dell'istituto della prescrizione e che rischia di trasformare surrettiziamente il termine in parola in un termine decadenziale, questo sì potenzialmente svincolato dalla conoscenza che il danneggiato possa avere del danno subìto. Significative perplessità destano anche le ulteriori considerazioni svolte dalla Corte con riferimento al giudizio c.d. “di ragionevolezza intrinseca” della norma oggetto di scrutinio. Non del tutto convincente si presenta, infatti, il nucleo dell'argomentazione contenuta a tale riguardo nella pronuncia in commento, vale a dire l'assunto secondo cui il deposito della relazione scorretta o infedele, da parte del revisore, già si configurerebbe come fatto generatore di danni (conoscibili) nei confronti della società, la quale, quindi, già da quel momento potrebbe far valere una pretesa risarcitoria nei confronti del revisore. Ora, sotto un primo profilo, tale ragionamento può risultare astrattamente corretto solo con riferimento agli eventuali danni immediatamente connessi all'inesatto adempimento della prestazione da parte del revisore (e forse sostanzialmente coincidenti con il corrispettivo pagato dalla società al revisore stesso per lo svolgimento dell'incarico), ma non anche a quelli - più frequenti e soprattutto di dimensioni più significative - che possono manifestarsi (e in genere si manifestano) a distanza di tempo: si tratta dei c.d. danni lungolatenti, cui pure il Tribunale rimettente aveva fatto riferimento, ai quali possono essere ricondotti quelli derivanti dall'aggravamento del dissesto o comunque della situazione di crisi della società a causa della non rilevata (anche da parte del revisore, naturalmente) perdita del capitale sociale o assenza di continuità aziendale. Nella prassi, infatti, l'azione di responsabilità nei confronti del revisore, anche per conto della società, è quasi sempre esercitata (unitamente a quella nell'interesse dei creditori sociali) nell'ambito delle procedure concorsuali e da parte dei rispettivi organi: in tale contesto, il danno di cui tipicamente si chiede il risarcimento (agli organi sociali ed anche al revisore legale) è proprio quello derivato dall'indebita prosecuzione dell'attività a fronte di una perdita (occultata) del capitale sociale, che per definizione emerge solo a distanza di tempo e, spesso, anche a seguito di accurate attività di analisi e verifica effettuate proprio dagli organi concorsuali. Peraltro, la pronuncia della Corte costituzionale non sembra aver tenuto in considerazione il fatto che le scorrettezze o inesattezze contenute nel bilancio - cui si riferisce la relazione del revisore legale convenuto in responsabilità - vengono, di norma, reiterate anche nei bilanci successivi e, di conseguenza, nelle successive relazioni del medesimo revisore dei conti: il decorso del termine di prescrizione dal deposito della prima relazione scorretta, quantomeno con riferimento ai danni lamentati in relazione a quell'esercizio, comporterebbe allora anche la possibilità che il termine prescrizionale spiri addirittura in un momento in cui gli effetti dannosi prodottisi sulla scorta di quella relazione (oltre a non essere ancora emersi, come si è già osservato) non siano ancora esauriti. Sotto altro profilo, non può essere condivisa l'idea - sottesa al medesimo ragionamento svolto dalla Consulta - secondo cui, al momento del deposito della relazione del revisore, la società sia già in condizione di esperire l'azione risarcitoria nei suoi confronti (anche a motivo della già presente conoscibilità del danno, evidentemente). Ebbene, in concreto, nella maggior parte dei casi potrebbe non essere così, atteso che il danno dovrebbe essere conosciuto (e l'azione nei confronti del revisore promossa) dalla società in persona degli amministratori, i quali, tuttavia, sono proprio coloro che hanno verosimilmente concorso con lo stesso revisore legale nella condotta illecita pregiudizievole per la società, tanto più tenuto conto di quanto si è detto poc'anzi circa la tipologia di danno che, nella pratica, viene solitamente imputato (anche) al revisore dei conti (in solido con gli amministratori, appunto). In altri termini, il principio dell'immedesimazione organica non può essere invocato in relazione a danni che gli stessi amministratori abbiano contribuito a causare alla società. Il tutto senza considerare che, laddove la società - alle condizioni di cui all'art. 2409-bis c.c. - intenda “internalizzare” il controllo contabile, affidandolo al collegio sindacale, si giungerebbe all'esito paradossale che il dies a quo sarebbe “mobile”, a seconda del soggetto che ha in concreto redatto la relazione di revisione (idem Spiotta, Responsabilità del revisore: le scale mobili soggettive del dies ad quem, in Le Società, 2024, n. 8-9, 931). Né alle aporie rilevate è in grado di sopperire - nell'ipotesi del carattere non veritiero e non corretto della rappresentazione offerta nella relazione - il semplice richiamo alla causa di sospensione del termine di prescrizione di cui all'art. 2941, comma 1, n. 8, c.c., limitata alla sola ipotesi dell'occultamento doloso, di difficile verificazione (e prova) nella prassi. Maggiormente condivisibili, invece, appaiono gli esiti cui è approdata la Corte costituzionale con riferimento all'azione esercitabile nei confronti dei revisori dai soci o dai terzi estranei alla società. A questo proposito, la Consulta ha osservato che, rispetto a tali categorie di soggetti, il danno può prodursi solo in un momento successivo al deposito della relazione da parte del revisore, ossia allorquando risulti che la medesima relazione infedele abbia successivamente condizionato - in modo indebito e, appunto, pregiudizievole - le loro scelte negoziali. Pertanto, la Corte, reputando che l'art. 15, comma 3, d.lgs. n. 39 del 2010 individui in tale frangente un dies a quo anteriore alla stessa insorgenza del danno, ha ritenuto che il legislatore non abbia realizzato un corretto bilanciamento tra gli interessi del danneggiato e del danneggiante e, pertanto, ha concluso nel senso che la norma debba essere ritenuta contrastante in parte qua con gli artt. 3 e 24 Cost: per tale motivo, dovrebbe operare la disciplina generale della prescrizione in materia di responsabilità aquiliana di cui all'art. 2947 c.c. (e, di conseguenza, l'art. 2935 c.c.). Sul punto, non può non osservarsi, per inciso, che proprio l'assoggettamento alla disciplina ordinaria della responsabilità aquiliana dell'azione spettante ai soci e ai terzi comporta, sostanzialmente, il riconoscimento dell'applicabilità della regola generale per cui il termine di prescrizione non possa iniziare a decorrere se non dall'oggettiva conoscibilità del danno da parte di coloro che lo hanno subìto (in linea con la generale prospettazione del Tribunale rimettente). Maggiori dubbi, tuttavia, residuano con riferimento allo strumento tecnico con cui la Corte costituzionale è giunta a tale risultato, che comporta, sostanzialmente, la limitazione dell'alveo applicativo della disposizione di cui all'art. 15, comma 3, D. Lgs. n. 39 del 2010 alle sole azioni di responsabilità promosse dalla società che ha conferito l'incarico di revisione. Tale operazione, realizzata mediante una sentenza interpretativa di rigetto, non appare invero rispettosa dei limiti stessi nei quali deve essere contenuta l'interpretazione giuridica, anche nella particolare specie della interpretazione secundum constitutionem: come è noto, infatti “una disposizione non può essere ritenuta costituzionalmente illegittima perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (…), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali” (principio affermato da Corte cost., 22 ottobre 1996, n. 356 e più volte ribadito). Ebbene, il tenore letterale della norma in commento non permette di distinguere tra la disciplina applicabile alle azioni promosse nei confronti dei revisori legali dalla società e quella applicabile alle azioni promosse dai singoli soci o terzi danneggiati (come osservato anche dalla stessa giurisprudenza che si era pronunciata sul punto: cfr. Trib. Milano, Sez. spec. Impresa, 9 marzo 2020, n. 2068): al contrario, essa si rivolge indiscutibilmente, in modo unitario, a tutte le azioni contemplate dall'art. 15 d.lgs. n. 39/2010. La sola circostanza che l'applicazione di una norma determini esiti irragionevoli non potrebbe, invero, giustificare una interpretazione ermeneutica che riduca l'ambito applicativo della stessa, non percorribile - come affermato in diverse occasioni dalla medesima Corte costituzionale - nelle ipotesi in cui detta interpretazione conforme sia incompatibile con il tenore letterale della norma (cfr., tra le più recenti: Corte cost., 23 ottobre 2019, n. 221; Corte cost., 16 novembre 2018, n. 207; Corte cost., 14 dicembre 2017, n. 268). Probabilmente, allora, la soluzione più corretta - con limitato riguardo alla posizione di soci o terzi danneggiati - sarebbe stata quella di accogliere in misura parziale la questione di legittimità costituzionale posta dal giudice rimettente, dichiarando l'incostituzionalità della norma censurata quantomeno nella parte in cui essa trova (inevitabilmente) applicazione anche alle azioni di responsabilità promosse appunto dai singoli soci o dai terzi danneggiati dalle condotte del revisore legale. Sullo sfondo resta, invece, la questione riguardante la posizione dei creditori sociali e, quindi, il trattamento dell'azione da loro esperibile (anche) nei confronti del revisore: il punto è stato del tutto ignorato dalla Corte costituzionale, la quale ha dato la netta impressione di avere presente - nella disamina dei danni subiti dai singoli soci o terzi - al solo schema dell'azione di cui all'art. 2395 c.c.: nel silenzio dell'art. 15 d.lgs. n. 39/2010, il tema intercetta in qualche misura il noto problema se l'azione di responsabilità spettante ai creditori sociali ai sensi dell'art. 2394 c.c. (nei confronti degli amministratori e di eventuali corresponsabili) abbia carattere di autonomia ovvero se essi siano legittimati ad esercitare in via surrogatoria (in presenza dei presupposti contemplati dalla norma richiamata da ultimo) l'azione spettante alla società. Ad ogni modo, il silenzio della Corte Costituzionale in proposito desta le stesse perplessità di cui si è dato conto in precedenza in merito all'azione nei confronti del revisore spettante alla società, e per analoghe ragioni. Per un verso, cioè, le azioni risarcitorie spettanti ai creditori sociali sono concretamente esercitate nell'ambito delle procedure concorsuali da parte dei competenti organi di queste ultime, e soprattutto per il danno da indebita prosecuzione dell'attività sociale per perdita del capitale precedentemente occultata (tipicamente, anche a causa di una condotta negligente del revisore dei conti); per altro verso ed anche per tale motivo, i creditori sociali - anch'essi soggetti terzi rispetto alla società - possono venire a conoscenza del danno loro cagionato solo in un momento successivo alla scorretta relazione di revisione, ossia quello in cui si è palesata e resa percepibile l'insufficienza patrimoniale della società (precedentemente nascosta, come detto, anche sulla base dei mancati rilievi del revisore legale circa la reale situazione patrimoniale ed economico-finanziaria della società, non debitamente rappresentata in bilancio). Tali circostanze - come più volte ricordato - sono tenute ben presente dal legislatore e dalla giurisprudenza che si è occupata in plurime occasione delle azioni di responsabilità esercitate nei confronti degli amministratori e dei sindaci, tanto che si afferma (proprio con riguardo all'azione riconosciuta ai creditori sociali) l'operatività di una presunzione iuris tantum della coincidenza della percepibilità dello stato di incapienza patrimoniale della società con la dichiarazione di fallimento (ex plurimis, cfr. le medesime Trib. Bologna, 30 marzo 2023, n. 732 e Trib. Napoli, 7 marzo 2022, n. 2267. Nella giurisprudenza di legittimità, ad esempio, Cass., n. 13378/2014 e Cass., n. 8426/2013, secondo cui “[i]l decorso del termine di prescrizione dell'azione di cui all'art. 2934 c.c. può farsi risalire ad una data anteriore a quella della dichiarazione di fallimento nel caso di preesistenza di elementi oggettivi, conoscibili dal ceto creditorio, dai quali emerga il deficit patrimoniale”), salva la possibilità di fornire una eventuale prova contraria. Conclusioni In definitiva, la pronuncia n. 115 del 2024 non sembra aver sopito i dubbi di quanti, anche in dottrina, avevano sostenuto l'illegittimità costituzionale della disciplina di cui all'art. 15, comma 3, d.lgs. n. 39/2010, auspicando l'intervento chiarificatore della Consulta (Bussoletti, Bilancio e revisione contabile: sette anni di disciplina all'ombra degli IAS e delle direttive comunitarie, in Riv. soc., 2011, 1116; Spiotta, La responsabilità civile del revisore legale in base all'art. 15 del d.lgs. 39/2010, in Giur. comm., 2012, I, 711 ss.; Salerno, La responsabilità del revisore tra nuove incertezze e vecchi problemi, in Riv. Soc., fasc. 5, 2013, 985). Con riferimento all'azione di responsabilità esercitata nei confronti dei revisori dalla società che ha conferito l'incarico, il principio affermato dalla Corte costituzionale appare troppo distante tanto dai princìpi in materia di prescrizione delle azioni risarcitorie in ambito societario, come ormai consolidatisi nell'applicazione operata dalla stessa giurisprudenza, quanto dalle esigenze poste dall'esperienza pratica. Con riferimento, invece, all'azione di responsabilità esercitata nei confronti dei revisori dai soci o dai terzi, l'affermazione dell'applicabilità della disciplina ordinaria della prescrizione in materia di responsabilità aquiliana conduce ad esiti più coerenti con i parametri costituzionali invocati dal Giudice rimettente, anche se può risultare discutibile, come si è evidenziato, la modalità interpretativa attraverso la quale la Corte ha ritenuto di giungere a tale conclusione. Resta aperto, infine, anche il problema concernente la correttezza dell'operazione ermeneutica cui sarebbe tenuto il giudice di merito, al quale sarebbe richiesto di applicare (solo con riferimento alle azioni esperibili dai soci o dai terzi) l'ordinaria disciplina di cui all'art. 2947 c.c., alla stregua di un'interpretazione costituzionalmente orientata: quest'ultima, però, sembra presentare tutti i connotati di una vera e propria disapplicazione (parziale) della norma di cui all'art. 15, comma 3, d.lgs. n. 39/2010, la quale, invece, si riferisce espressamente anche alle azioni di responsabilità esercitate dai soci e dai terzi, con possibili ricadute rilevanti anche nella prospettiva del principio di cui all'art. 101, comma 2, Cost. |