Per il delitto di infedeltà patrimoniale legittimati alla querela sono anche i soci

Ciro Santoriello
09 Dicembre 2024

La Cassazione torna ad occuparsi del delitto di infedeltà patrimoniale, di cui all'art. 2634 c.c., e, concentrandosi in particolare sulla procedibilità, afferma che anche ai soci spetta la legittimazione a presentare la querela.

Massima

Anche i soci sono persone offese del delitto di infedeltà patrimoniale, per cui la legittimazione alla proposizione della querela per il reato in questione spetta non solo alla società nel suo complesso (essendo l'incriminazione volta alla tutela dell'integrità patrimoniale della società), ma anche — e disgiuntamente — al singolo socio.

Il caso

In sede di merito, veniva dichiarata la prescrizione per il delitto di infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 c.c., confermando le statuizioni civili.

In sede di cassazione, per quanto di interesse in questa sede, si contestava la procedibilità per il delitto in parola in quanto la querela era stata presentata non già dal liquidatore della società, cui è demandata in via esclusiva la conservazione del patrimonio quale bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, bensì da uno dei soci.

Si contestava, inoltre, la sussistenza dell'elemento oggettivo del reato di infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 c.c., nella misura in cui la condotta contestata afferiva la modifica di una clausola contrattuale del contratto di management stipulata fra la società e l'imputato. In questa circostanza, però, a dire della difesa, non si era innanzi ad un atto di disposizione dei beni sociali poiché la società non era danneggiata dalla modifica ed i danni lamentati non derivavano da tale circostanza ma da scelte – evidentemente non corrette – del liquidatore in ordine alla gestione della società. Quanto all'elemento soggettivo, i giudici di merito avrebbero rinvenuto lo stesso analizzando condotte assunte dall'imputato dopo la modifica contrattuale di cui si è detto, mentre il dolo specifico avrebbe dovuto sussistere già al compimento dell'atto di disposizione anche rispetto al conseguimento della finalità di ottenere un profitto arrecando danno alla società.

Le questioni 

Il reato di infedeltà patrimoniale è previsto dall'art. 2634 c.c., il quale punisce gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale; il delitto è procedibile a querela della persona offesa.

Il bene giuridico protetto dalla disposizione in commento va sicuramente rinvenuto nel patrimonio sociale, come si evince dal fatto che, per la sussistenza del reato, la norma richiede un evento di danno di natura patrimoniale a carico della persona giuridica e dalla procedibilità a querela (VENAFRO, Art. 2634. Infedeltà patrimoniale, in Leg. Pen., 2003, 508; FOFFANI, Le infedeltà, in ALESSANDRI (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società, Milano 2002, 353; AMATI, Infedeltà patrimoniale, in A. ROSSI (a cura di), Reati societari, Torino 2005, 402; D. FONDAROLI, Introduzione ai delitti di infedeltà patrimoniale, ibidem, 393. Nel senso che la fattispecie tutela anche profili di carattere non patrimoniale, dovendosi ricomprendere nel bene giuridico protetto anche il dovere oggettivo di correttezza, MEZZETTI, L'infedeltà patrimoniale nella nuova dimensione del diritto penale societario, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2004, 193; ZANOTTI, Il nuovo diritto penale dell'economia, Milano 2006, 258; CONSULICH, Art. 2634, Commentario Scialoja – Branca. Legge fallimentare, a cura di PERINI, Bologna – Roma 2019, 472).

Quanto ai soggetti attivi, è evidente che si è di fronte ad un reato proprio, che può essere realizzato dagli amministratori, direttori generali e dai liquidatori, ovvero da quanti sono titolari dei poteri di gestione dei beni sociali. Le suddette qualifiche, peraltro, vanno intese in senso funzionale, per cui le condotte delittuose potranno essere riferite ai sensi dell'art. 2639 c.c., anche a chi è tenuto a svolgere le medesime funzioni, sia pur diversamente qualificate, nonché a chi svolge in maniera continuativa e significativa i poteri tipici inerente alle suddette qualifiche; quanto ai sindaci, secondo alcuni autori, essi potranno rispondere del delitto solo a titolo di concorso con i soggetti qualificati (BELLACOSA, Obblighi di fedeltà dell'amministratore di società e sanzioni civili, Milano 2006, 76; ACQUAROLI, Alcune osservazioni sul reato di infedeltà patrimoniale alla luce del nuovo diritto societario, in AA.VV, La riforma dei reati societari, a cura di C. PIERGALLINI, Milano 2004, 174).

La condotta prevista per l'integrazione del delitto in commento presuppone l'esistenza di una situazione di conflitto di interessi. La dottrina ritiene che tale contrasto sussista quando, in una determinata operazione economica, l'interesse della società e quello del soggetto attivo siano collidenti, nel senso di trovarsi in rapporto di obiettivo antagonismo non potendo essere contestualmente soddisfatti in modo completo. Di una tale nozione possono darsi due interpretazioni alternative, una cd. formalistica e l'altra, che si caratterizza per la sua concretezza, cd. sostanzialistica (ALAGNI, Note sul concetto penalistico di conflitto di interessi, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2003, 746).

  Inteso nel primo senso, il conflitto di interessi sottenderebbe una verifica meramente parziale presente nella società, prescindendo dalle condizioni operative in cui si è mosso il soggetto agente e conferendo rilievo non ad un antagonismo effettivo e realmente verificatosi fra gli interessi del singolo e quelli dell'ente ma alla mera ricorrenza di alcune situazioni paradigmatiche sul presupposto che queste siano espressive di una condizione di indebito conflitto. La seconda impostazione, decisamente da preferire, invece, pretende dal giudice che non si limiti a verificare la presenza di elementi sintomatici ma accerti la ricorrenza di un conflitto fra interessi oggettivamente valutabile, effettivo ed attuale (MEZZETTI, L'infedeltà patrimoniale nella nuova dimensione del diritto penale societario, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2004, 234; ALDROVANDI, Art. 2634, in AA.VV., I reati societari, a cura di LANZI – CADOPPI, Padova 2002, 186; MACCARI, Art. 2634, in I nuovi illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commerciali, a cura di GIUNTA, Torino 2003, 166. In giurisprudenza Cass., sez. V, 4 giugno 2019, n. 40466, secondo cui “ai fini della configurabilità del reato di infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 c.c., è necessario che ricorrano i seguenti presupposti:

a) un interesse dell'amministratore in conflitto con quello della società;

b) la "deliberazione" di un "atto di disposizione" di beni sociali;

c) un evento di danno patrimoniale intenzionalmente cagionato alla società amministrata;

d) il fine specifico, in capo all'agente, di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio. (In applicazione del suddetto principio, la Corte ha ritenuto non configurabile il reato nei confronti di amministratori di fatto di una società le cui condotte materiali, piuttosto che concretizzarsi in uno specifico "atto di disposizione" di beni sociali, si erano sostanziate nella reiterata e sistematica distrazione di crediti e di incassi, peraltro non annotati nelle scritture contabili. Nello stesso senso Cass., sez. II, 30 ottobre 2018, n. 55412 che ha escluso il reato di infedeltà patrimoniale a carico del presidente del consiglio di amministrazione di una società a partecipazione pubblica che aveva acquistato, a titolo personale, un podere a condizioni particolarmente vantaggiose dalla controparte dell'operazione commerciale deliberata per conto della società).

 Sempre alla dottrina si deve una compiuta definizione dei caratteri del conflitto di interessi, avendo numerosi autori sostenuto che tale contrasto deve essere:

1) oggettivamente valutabile, essendo esclusa la rilevanza di antagonismi di natura meramente psicologica e soggettiva, ed il relativo giudizio va condotto secondo rigorosi parametri oggettivi di tipo economico-patrimoniale;

2) effettivo e reale;

3) preesistente all'operazione economica;

4) attuale, non dovendo il conflitto essere venuto meno al momento del compimento dell'operazione economica (ACQUAROLI, Alcune osservazioni sul reato di infedeltà patrimoniale alla luce del nuovo diritto societario, in AA.VV, La riforma dei reati societari, a cura di C. PIERGALLINI, Milano 2004, 174; ALAGNA, Note sul concetto penalistico di conflitto di interessi, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2003, p. 746). Quanto alla natura degli interessi in contrasto, è indiscusso che l'interesse della società debba avere natura economico – patrimoniale, mentre si discute – ma la risposta è prevalentemente positiva – se l'interesse vantato dal soggetto attivo possa avere anche carattere non economico.

Particolari problematiche si pongono con riferimento ai rapporti fra la disciplina penalistica in esame e la normativa civilistica in tema di conflitto di interessi. Infatti, l'art. 2391 c.c. impone all'amministratore di dare notizia non dell'eventuale interesse in conflitto con quello della società, bensì di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, egli abbia in una determinata operazione, precisandone natura, termini e portata e nel caso si tratti di amministratore delegato, questi dovrà astenersi dal compimento dell'operazione, investendone l'organo collegiale. Ciò determina che la tutela penale del delitto d'infedeltà è destinata ad intervenire in un momento successivo rispetto a quella civilistica, richiedendosi, da un lato, in capo all'amministratore, un vero e proprio conflitto di interessi con quello della società e dall'altro la deliberata volontà di cagionare un danno alla società (SCOPINATO, Infedeltà patrimoniale, in SCHIANO DI PEPE, Diritto penale delle società, II ed., Milano 2003, 283; FOFFANI, Le infedeltà, in A. ALESSANDRI (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società, Milano 2002, 353; SCHIAVANO, Riflessioni sull'infedeltà patrimoniale societaria (art. 2634 c.c.), in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2004, 815).

Secondo alcuni autori, inoltre, la decisione del consiglio di amministrazione di procedere al compimento dell'operazione, anche se viziata dalla situazione di conflitto, proietterà la sua efficacia scriminante rispetto all'amministratore infedele, anche dinanzi all'esito pregiudizievole dell'operazione. In senso contrario, però, si osserva che tale impostazione conferisce all'organo gestorio la potestà di disporre di interessi che invece fanno capo ad un diverso soggetto, ovvero l'assemblea dei soci – cui, per l'appunto, è rimessa la scelta circa la proposizione della querela per il perseguimento del fatto delittuoso. Si ricorda comunque che l'omessa comunicazione dei dati richiesti dall'art. 2391 c.c. è penalmente sanzionata dall'art. 2629-bis c.c..

La condotta descritta dalla previsione in commento può assumere due modalità:

- il diretto e materiale compimento di atti di disposizione dei beni sociale e

- la partecipazione alla deliberazione relativa ai medesimi atti dispositivi. La previsione di tale duplice modalità di realizzazione della fattispecie rende il delitto in parola realizzabile – a differenza di quanto accadeva in precedenza per la previsione di cui all'art. 2631 c.c. – anche da un organo monocratico, come l'amministratore unico, e si tratta di una novità assolutamente rilevante, giacché così viene a coprirsi un grave vuoto di tutela che invece era dato registrarsi nella vigenza della preesistente normativa.

Nella nozione di beni sociali, oggetto dell'atto di disposizione, rientrano tutti i beni della società avente valenza patrimoniale, quindi i beni mobili, i beni immobili, i beni materiali ed immateriali, i brevetti, l'avviamento ecc., non necessitando che la società abbia sugli stessi un diritto di proprietà, essendo sufficiente un diritto reale limitato o comunque un potere dispositivo che, ridotto o modificato, sarebbe idoneo a cagionare un danno patrimoniale alla stessa società.

Gli atti di disposizione devono incidere sul patrimonio della società: non rientrano dunque nella fattispecie in commento né gli atti a carattere meramente organizzativo privi di disposizione a contenuto patrimoniale, né i comportamenti omissivi – e tale lacuna della previsione è decisamente criticabile, posto che l'aggressione degli interessi patrimoniali può ben avvenire, ad esempio, mediante una mancata richiesta giudiziale di prestazione debitoria. E' discusso invece se abbiano rilevanza penale le condotte di assunzione di obbligazioni a carico del patrimonio sociale; a quanti ne sostengono la inerenza al dettato di cui all'articolo in commento, si oppone che l'assunzione di obbligazioni comporta una disposizione di beni sociali solamente potenziale.

Quanto alla condotta delittuosa consistente nel concorrere a deliberare atti di disposizione, perché possa dirsi violata la previsione criminosa occorre che il soggetto abbia apportato un contributo causale effettivo all'adozione della delibera, non essendo sufficiente la mera partecipazione alla votazione, anche se non occorre che il voto del soggetto interessato sia decisivo o determinante per l'adozione della deliberazione. Il concorso nella deliberazione può assumere qualsiasi forma ed è compatibile finanche con la mancata partecipazione alla votazione con voto favorevole alla delibera: si pensi all'amministratore che si astenga dal voto o voti in senso contrario ma si attivi per l'assunzione della decisione favorevole alla sua persona.

La fattispecie in esame è costruita come reato di evento, essendo richiesto il realizzarsi di un danno patrimoniale a carico della società: il legislatore, dunque, ha ritenuto di dover abbandonare qualsiasi ipotesi o modalità di tutela anticipata del bene giuridico considerato. Prevedendo un reato di evento, si è quindi esclusa la rilevanza penale di tutte quelle condotte di gestione del patrimonio sociale rischiose ma al contempo necessarie, caratterizzate dalla semplice commistione di interessi, e che l'imprenditore a volte si vede costretto a porre in essere nella gestione dell'impresa.

Ovviamente, il danno – che deve essere conseguenza diretta dell'atto di disposizione o della deliberazione della persona giuridica - considerato dalla fattispecie è esclusivamente quello di natura patrimoniale. La dottrina ritiene che in tale nozione di danno rientri non il solo danno emergente ma anche il cosiddetto lucro cessante.

Quanto all'elemento soggettivo è il dolo specifico del fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, in maniera intenzionale rispetto alla causazione del danno. Il soggetto deve dunque agire nel perseguimento di un interesse proprio confliggente con quello della società, con la conseguenza che il delitto non sussiste laddove – pur in presenza di un'operazione economica dannosa per la società – il perseguimento dell'interesse extrasocietario non abbia avuto un'influenza preminente nella condotta del singolo. Certo, pare incongruo richiedere che il soggetto – oltre al soddisfacimento del proprio personale interesse – debba volere anche il danno per la persona giuridica, obiettivo che il soggetto agente invece cercherà ovviamente di evitare o il cui verificarsi sarà al più per lui indifferente una volta ottenuto il risultato da lui personalmente voluto.

La disciplina che il legislatore ha dettato in tema di atteggiamento psicologico è (giustamente, a nostro parere) criticata in dottrina, in quanto la proiezione finalistica della condotta nulla aggiunge a quanto la fattispecie già richiede sulla base del dolo generico ed inoltre pare incongruo richiedere che il singolo – oltre al soddisfacimento del proprio personale interesse – debba volere anche il danno per la persona giuridica, obiettivo che il soggetto agente invece cercherà ovviamente di evitare o il cui verificarsi sarà al più per lui indifferente una volta ottenuto il risultato personalmente voluto (MANNA, Abuso d'ufficio e conflitto d'interessi nel sistema penale, Torino 2004, 158; GIUNTA, Lineamenti di diritto penale, cit., 292). Per superare tali problematiche da parte di alcuni si è avanzata la tesi secondo cui la norma intenderebbe richiamare non il dolo intenzionale, ma il dolo diretto, cioè l'ipotesi in cui l'agente abbia agito rappresentandosi come certa o comunque altamente probabile la realizzazione del reato, ma non sarebbe comunque necessario che tale rappresentazione abbia esplicato efficacia motivante della condotta (ALDROVANDI, Art. 2634, cit., 198).

Il risultato cui l'agente deve indirizzarsi con la propria condotta non deve avere necessariamente natura patrimoniale. Quanto all'ingiustizia del profitto, l'espressione non richiama parametri normativi esterni alla disposizione, alla ricerca di una illiceità speciale, desumibile dal contrasto della condotta con altre norme dell'ordinamento, giacché è ingiusto il profitto che sia stato perseguito in presenza del contrasto di interessi ed in quanto esprima la scelta a favore del polo extrasociale dell'astratto conflitto su cui si fonda la fattispecie.

Quanto al rapporto con il reato di omessa comunicazione del conflitto di interessi, di cui all'art. 2629-bis c.c., se da un lato è evidente che le due fattispecie hanno un autonomo spazio operativo, è anche vero che è ben possibile che una medesima condotta integri gli elementi costitutivi di entrambe le fattispecie; in tale ipotesi, la previsione di cui all'art. 2629 bis viene ritenuta quella maggiormente severa giacché contempla il verificarsi di danni alla società o a terzi come mera conseguenza della violazione degli obblighi formali imposti dall'art. 2391, comma 1, c.c., arretrando quindi la tutela ad un momento anteriore al compimento dell'atto dispositivo produttivo del danno, con la conseguenza che l'evento di danno va qualificato come post factum penalmente irrilevante.

Osservazioni

Non è stata ritenuta corretta la censura inerente alla procedibilità del giudizio per provenienza della necessaria querela da un socio, soggetto asseritamente non legittimato a tale scopo. In effetti, da tempo la Cassazione ha affermato che anche i soci sono persone offese del delitto di infedeltà patrimoniale, per cui la legittimazione alla proposizione della querela per il reato in questione spetta non solo alla società nel suo complesso (essendo l'incriminazione volta alla tutela dell'integrità patrimoniale della società), ma anche — e disgiuntamente — al singolo socio. Secondo la giurisprudenza, infatti, il singolo socio è persona offesa del reato di infedeltà patrimoniale, e non solo danneggiato dallo stesso, in quanto la condotta dell'amministratore infedele è diretta a compromettere le ragioni della società, ma anche, principalmente, quelle dei soci o quotisti della stessa, che per l'infedele attività dell'amministratore subiscono il depauperamento del proprio patrimonio (Cass., sez. V, 18 novembre 2015, n. 22495).

Quanto alla sussistenza dell'elemento oggettivo del fatto contestato, la stessa viene confermata dalla Cassazione che evidenzia come la modifica contrattuale fosse peggiorativa per la società persona offesa, come dimostrato da una serie di previsioni che andavano ad incidere negativamente sulle pretese economiche della persona giuridica. Quanto alla sussistenza di un interesse dell'imputato in contrasto con quelli della società, la Cassazione si limita ad evidenziare come, a seguito della modifica contrattuale, l'accusato avrebbe percepito compensi in misura decisamente maggiore rispetto a quanto previsto prima della nuova previsione negoziale, il che attesta che la stipula del contratto abbia costituito un atto concretante un antagonismo di interessi effettivo, attuale e oggettivamente valutabile tra l'amministratore agente e la società (Cass., sez. II, 30 ottobre 2018, n. 55412).

Quanto all'elemento soggettivo, la decisione circa la sua ricorrenza nel caso di specie deriva dalla circostanza che l'imputato era un soggetto molto esperto nel settore e, quindi, comprendeva pienamente la portata delle nuove clausole negoziali e il danno che l'atto dispositivo, costituito dalla modifica negoziale avrebbe arrecato alla società. Con riferimento al dolo specifico, viene evidenziato come la valutazione complessiva delle condotte assunte dall'imputato ne palesasse l'intenzione di danneggiare la società, essendo peraltro inverosimile, rispetto alle condotte decettive nei confronti del liquidatore, che l'accusato non conoscesse in dettaglio i termini degli accordi programmati e non potesse così riferirne in dettaglio alla liquidatrice.

Conclusioni

Come è noto, il delitto di infedeltà patrimoniale è procedibile a querela della persona offesa, il che da un lato ha esposto la riforma in commento a critiche aspre da parte della dottrina e dall'altro determina significative problematiche – come appunto accaduto nel caso di specie – circa l'individuazione dei soggetti titolari del relativo diritto e quindi in ordine alla definizione della persona offesa del reato in esame (MANCUSO, Le condizioni di procedibilità nel nuovo diritto penale societario, in F. GIARDA – S. SEMINARA (a cura di), I nuovi reati societari: diritto e processo, Padova 2002, 651).

E' pacifico che, nell'ipotesi di cui al comma 2 dell'art. 2634 c.c., quando cioè l'infedeltà patrimoniale è commessa in rapporto ai beni posseduti o amministrati dalla società per conto terzi, persone offese sono quest'ultimi ed a costoro va sicuramente attribuito la titolarità del diritto di presentare querela, di contro nel caso in cui la condotta delittuosa vada a danneggiare la società amministrata dal soggetto agente l'individuazione delle persone offese è stata decisamente più complessa.

In una prima fase, infatti, secondo la Cassazione laddove sia il patrimonio della società ad essere oggetto di aggressione da parte degli organi apicali, la persona offesa sarebbe stata da individuare nella sola società con la conseguenza che l'organo competente a esprimere la volontà di punizione andava individuata nella sola assemblea dei soci, per cui “la titolarità del diritto di querela per il delitto di infedeltà patrimoniale, trattandosi di un reato strutturato a tutela dell'integrità patrimoniale della società, compete[va] in maniera effettiva ed esclusiva a tale soggetto passivo dell'evento di danno”(Cass., sez. II, 17 gennaio 2003, Pietra, inedita).

Questa impostazione ha però sempre ricevuto critiche dalla dottrina – da sempre critica in generale sulla scelta di subordinare alla querela della persona offesa la perseguibilità del reato in parola (SEMINARA, Riflessioni in tema di riforma dei reati societari, in Dir. Pen. Proc., 2014, 139) -, giacché attribuire la scelta circa la perseguibilità dell'illecito alla società significava di fatto rimettere la relativa valutazione è rimessa decisioni del gruppo di maggioranza assembleare, che diventava così titolare di un rilevante potere il cui esercizio può essere negoziato secondo esigenze di personale convenienza, specie all'interno dei gruppi societari, dove la holding potrebbe esercitare la propria influenza per non far attivare il procedimento penale. E' a tali considerazioni, presumibilmente, che si deve la modifica dell'iniziale orientamento della Cassazione la quale oggi afferma che la legittimazione alla proposizione della querela per il reato di infedeltà patrimoniale dell'amministratore spetta non solo alla società nel suo complesso ma anche - e disgiuntamente - al singolo socio (Cass., sez. V., 30 settembre 2015, n. 39506, che ha escluso la qualifica di persona offesa dal reato ai creditori sociali; Cass., sez. V, 7 agosto 2014, n. 35080).

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