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La Consulta sulla sospensione della pena inflitta con rito abbreviato e ridotta per mancata impugnazione

Alessandro Trinci
23 Dicembre 2024

La Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della mancata previsione, da parte dell'art. 442, comma 2-bis, c.p.p., del potere del giudice dell'esecuzione di provvedere anche in merito ai benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale. 

Massima

L'art. 442, comma 2-bis, c.p.p. è costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3111, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6, paragrafo 1, CEDU, nella parte in cui non prevede che il giudice dell'esecuzione può concedere altresì la sospensione della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena allora determinata era superiore ai limiti di legge che consentono la concessione di tali benefici.

In via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, dichiara n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), è costituzionalmente illegittimo l'art. 676, comma 3-bis, c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice dell'esecuzione può concedere altresì la sospensione della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena allora determinata era superiore ai limiti di legge che consentono la concessione di tali benefici.

Il caso

Tizio, all'esito di giudizio abbreviato, veniva condannato alla pena di due anni e quattro mesi di reclusione e 800 euro di multa per i delitti di tentata estorsione e di ricettazione.

Pochi giorni dopo la condanna, Tizio depositava dichiarazione di rinuncia all'impugnazione, chiedendo contestualmente, tra l'altro, la riduzione di un sesto della pena ai sensi dell'art. 442, comma 2-bis, c.p.p. e la concessione della sospensione condizionale e della non menzione della condanna.

Investito di tali istanze in qualità di giudice dell'esecuzione, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Nola riduceva la pena a un anno, undici mesi e dieci giorni di reclusione, oltre a 667 euro di multa, e, con separata ordinanza, sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 442, comma 2-bis, c.p.p., «nella parte in cui non prevede che il Giudice dell'esecuzione possa concedere la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, ove la diminuzione automatica di pena per la mancata impugnazione della sentenza di condanna emessa in sede di giudizio abbreviato comporti l'applicazione di una pena contenuta nei limiti di legge di cui all'art. 163 c.p. e ricorrendone gli ulteriori presupposti», in riferimento agli artt. 3, 27, commi 1 e 3, 111, 117, comma 1, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

La questione

La questione rimessa alla Corte costituzione è la seguente: è costituzionalmente legittimo l'art. 442, comma 2-bis, c.p.p., nella parte in cui non prevede che il Giudice dell'esecuzione possa concedere la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando, a seguito di mancata impugnazione della sentenza di condanna emessa all'esito del giudizio abbreviato, riduca la pena entro i limiti di legge di cui agli artt. 163 e 172 c.p. e ricorrano gli altri presupposti previsti da tali disposizioni?

Sottesa a tale questione vi è quella relativa ai poteri del giudice dell'esecuzione di rimodulare il giudicato di condanna applicando istituti preclusi al giudice della cognizione in ragione di ostacoli successivamente rimossi in fase esecutiva.

Le soluzioni giuridiche

Uno sguardo d'insieme sull'art. 442, comma 2-bis, c.p.p.

Introducendo un comma 2-bis nell'art. 442 c.p.p., il d.lgs. 15 ottobre 2022, n. 150 (c.d. riforma Cartabia) ha previsto che «quando né l'imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell'esecuzione».

Si tratta di una diminuente processuale che ha lo scopo di disincentivare le impugnazioni, concedendo all'imputato acquiescente uno sconto di pena (che potrebbe, in ipotesi, consentirgli di accedere alle misure alternative al carcere) – che spesso costituisce il principale, se non l'unico, obiettivo della doglianza – quale contropartita per il risparmio di tempo e risorse processuali. Lo sconto di pena in esame replica il sinallagma che regge il rito speciale. In entrambi i meccanismi normativi, la pena originariamente determinata dal giudice sulla base degli ordinari criteri di cui agli artt. 133 e 133-bis c.p. subisce una modificazione ex lege, in omaggio a logiche deflattive del contenzioso penale: la riduzione di un terzo o della metà, al fine di incentivare il ricorso al rito abbreviato, caratterizzato dalla rinuncia alle garanzie del contraddittorio nella formazione della prova; l'ulteriore riduzione di un sesto, allo scopo di indurre il condannato a rinunciare ad impugnazioni miranti unicamente a una riduzione della pena inflittagli.

La peculiarità della riduzione in esame sta nel fatto che alla rideterminazione della pena è chiamato il giudice dell'esecuzione, anziché il giudice della cognizione. Ciò è conseguenza necessaria del meccanismo normativo, che presuppone la rinuncia all'impugnazione nei termini di legge da parte del condannato e, dunque, il passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

La ratio deflattiva ha reso necessario estendere il meccanismo all'impugnazione del difensore, sebbene la delega facesse riferimento al solo imputato (esclude un eccesso di delega sul punto, la Relazione illustrativa che accompagna il d.lgs. n. 150 del 2022, p. 132).

Da parte di alcuni commentatori (si veda, ad esempio, Varraso, La legge “Cartabia” e l'apporto dei procedimenti speciali al recupero dell'efficienza processuale, in Sist. pen., n. 2/2022, p. 35) sono stati espressi dubbi sul successo di tale incentivo a fronte della possibilità per l'imputato di ottenere in appello un ribaltamento della condanna e, in ogni caso, di patteggiare ai sensi dell'art. 599-bis c.p.p., disposizione che la riforma ha epurato dalle limitazioni oggettive e soggettive che ne condizionavano l'utilizzo.

Il riferimento alla “pena inflitta” non lascia dubbi sul fatto che la riduzione vada operata sulla pena oggetto della sentenza di condanna divenuta definitiva a seguito della mancata impugnazione. In sostanza, la pena che il giudice avrebbe originariamente applicato in un ipotetico giudizio dibattimentale subisce due riduzioni, una, pari ad un terzo o alla metà, per la scelta del rito abbreviato e l'altra, espressamente indicata come “ulteriore”, pari ad un sesto, per la scelta di non impugnare la sentenza di condanna.

La norma si riferisce genericamente all'“impugnazione” e se non vi sono dubbi che l'espressione faccia riferimento sia all'appello che al ricorso per cassazione, non è altrettanto chiaro se comprenda anche le impugnazioni straordinarie. Ritengo che sia più corretta la soluzione negativa (e così anche Nacar, Riforma Cartabia e riti alternativi: piccole modifiche all'insegna dell'efficienza del processo, in Dir. pen. e proc., 2023, p. 168) sia perché il presupposto per azionarle potrebbe verificarsi molto tempo dopo l'esecuzione della pena e sia perché appare ingiustificatamente gravoso privare il condannato di strumenti che consentono di superare il giudicato per porre rimedio alle violazioni di diritti individuali accertate dopo l'irrevocabilità della sentenza.

Il meccanismo premiale richiede che non sia fatta alcuna impugnazione. Non basta, dunque, che l'imputato o il suo difensore rinuncino a quella già proposta, perché in questo caso non si realizzerebbe a pieno quel risparmio di tempo e risorse processuali che costituisce la contropartita per la rinuncia parziale alla punizione (così anche Barazzetta, Le modifiche al giudizio abbreviato, in Castronuovo-Donini-Mancuso-Varraso (a cura di), Riforma Cartabia. La nuova giustizia penale, Milano, 2023, p. 735; Cannas, Il “nuovo” rito abbreviato: una novità apparente, in Spangher (a cura di), La riforma Cartabia. Codice penale – Codice di procedura penale – Giustizia riparativa, Pisa, 2022, p. 380; favorevole ad una interpretazione estensiva che consenta di applicare il beneficio sanzionatorio ai casi di rinuncia all'impugnazione già presentata senza che, nel frattempo, si sia svolta alcuna attività processuale in senso stretto, ovvero prima della fissazione della data di udienza, cfr. Marchetti, Nuovi incentivi premiali nella disciplina del giudizio abbreviato e del rito monitorio: riflessioni in vista dell'esercizio della delega, in Sist. pen., n. 2/2022, p. 71 ss.; si veda anche Todaro, Questione di legittimità costituzionale dell'art. 442, comma 2-bis, c.p.p., in Cass. pen., 2023, p. 2349, il quale osserva che nei casi di rinuncia all'opposizione formulata prima della celebrazione del processo di appello, ove previsto, o del giudizio di legittimità, vi sarebbe indubbiamente un risparmio di tempo e non potrebbe opporsi che il giudizio di impugnazione si è comunque svolto, perché l'atto abdicativo comporta l'inammissibilità dell'impugnazione (artt. 589 e 591 c.p.p.), che, secondo il costante indirizzo giurisprudenziale, impedisce la regolare costituzione del giudizio di appello o di cassazione). In questo senso si è orientata anche la Suprema Corte, evidenziando che l'operatività della diminuzione è conseguente alla radicale mancanza dell'impugnazione, cui non è equiparabile la rinuncia ad essa (Cass. pen., sez. I, 12 ottobre 2023-21 dicembre 2023, n. 51180, Rv. 285583; Cass. pen., sez. I, 26 settembre 2023-11 dicembre 2023, n. 49255, Rv. 285683).

Dal punto di vista procedurale è previsto che alla riduzione di pena provveda il giudice dell'esecuzione. Ciò implica che la sentenza di condanna sia passata in giudicato, eventualità che non consegue necessariamente all'omessa impugnazione da parte dell'imputato e del suo difensore, potendo il Pubblico Ministero impugnare la sentenza di condanna che abbia modificato il titolo di reato (art. 443, comma 3, c.p.p.). La procedura da seguire è quella prevista all'art. 667, comma 4, c.p.p.(ordinanza de plano da comunicare al pubblico ministero e notificare all'interessato, i quali possono proporre opposizione instaurando il procedimento con udienza camerale partecipata di cui all'art. 666 c.p.p.), richiamata dall'art. 676 c.p.p. (al cui elenco di competenze è stata aggiunta la decisione «in ordine all'applicazione della riduzione della pena prevista dall'articolo 442, comma 2-bis»). A seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. 19 marzo 2024, n. 31 (c.d. correttivo Nordio), il giudice dell'esecuzione non deve essere compulsato dalle parti, ma procede d'ufficio prima della trasmissione dell'estratto del provvedimento divenuto irrevocabile.

È stato osservato (De Giorgio, Giudizio abbreviato e riforma Cartabia, in IUS Penale, 25 agosto 2023) che la riforma non ha previsto un coordinamento fra l'art. 442, comma 2-bis, c.p.p. e l'art. 587 c.p.p. in tema di estensione degli effetti dell'impugnazione e si è sostenuto che, in assenza di indicazioni contrarie, l'impugnazione proposta da un coimputato giovi anche al condannato che abbia rinunciato ad impugnare la sentenza di condanna per poter ottenere l'ulteriore sconto di pena introdotto dalla novella. La soluzione è condivisibile e non mi pare che vi fosse motivo di precisarlo perché la ratio sottesa al meccanismo estensivo disciplinato dall'art. 587 c.p.p. – evitare la contraddittorietà tra giudicati – vale in tutti i casi di omessa impugnazione del coimputato, a prescindere dalle motivazioni che sorreggono tale scelta difensiva.

L'assenza di una disciplina transitoria ha suscitato un vivace dibattito sulla possibilità di applicare l'istituto ai procedimenti in corso.

Occorre premettere che la giurisprudenza interna e quella sovranazionale hanno da tempo chiarito che il trattamento sanzionatorio, anche laddove collegato alla scelta del rito, ha ricadute sostanziali e quindi deve essere soggetto alla disciplina dell'art. 2, comma 4, c.p., che impone l'applicazione retroattiva della legge sopravvenuta più favorevole al reo, con il limite del giudicato (Corte EDU, 17 settembre 2009, ricorso n. 10249/2003, Scoppola c. Italia: si veda anche Cass. pen., sez. IV, 15 dicembre 2017, n. 832, Del Prete, in Dir. pen. e proc., 2018, p. 1341 con nota di Mugnai, Retroattività del maxi-sconto di pena per chi sceglie il rito abbreviato e in Cass. pen., 2019, p. 280 con nota di Trabace, Abbreviato riformato e successione di norme nel tempo, che ha sancito l'applicabilità retroattiva, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile, ai sensi dell'art. 2, comma 4, c.p., della diminuente introdotta dalla l. n. 103/2017 per i giudizi abbreviati concernenti le contravvenzioni (riduzione della metà, anziché di un terzo come previsto dalla previgente disciplina), in quanto, pur essendo norma di carattere processuale, ha effetti sostanziali, comportando un trattamento sanzionatorio più favorevole seppure collegato alla scelta del rito).

Poiché la formazione del giudicato costituisce, ai sensi dell'art. 2, comma 4, c.p., un limite invalicabile all'applicazione retroattiva della lex mitior, l'ulteriore sconto di un sesto della pena irrogata non può essere applicato a chi sia stato condannato con una sentenza passata in giudicato prima dell'entrata in vigore della riforma, anche se abbia omesso di impugnarla.

Va detto che la ragionevolezza di una regola che limiti la retroattività della modifica migliorativa è stata messa in dubbio più di una volta da una parte della dottrina; tuttavia, poiché la Corte costituzionale ha sempre ritenuto che la sua previsione rientri nei limiti della discrezionalità legislativa, non è possibile ritenere che la pena in esecuzione nei confronti di chi abbia omesso di impugnare la sentenza sia illegale perché non ulteriormente scontata in base alla nuova disciplina sopravvenuta dopo il passaggio in giudicato.

La diminuente in esame può invece essere applicata a coloro che abbiano omesso di impugnare una sentenza di condanna pronunciata prima dell'entrata in vigore della riforma ma non ancora passata in giudicato a tale data.

Più controverso è se la riduzione in argomento vada applicata a chi, avendo impugnato prima dell'entrata in vigore della riforma, vi rinunci in costanza della nuova disciplina. Se è vero che anche in questo caso si realizza, almeno in parte, l'obiettivo sotteso all'istituto, e l'imputato potrebbe ritenersi meritevole dell'incentivo introdotto (ma ciò non è scontato dovendosi ammettere che rinunciare all'impugnazione non equivale, sul piano dell'economia processuale, sempre e comunque ad ometterla), è altrettanto vero che nel caso in esame non si realizza il presupposto della norma – omessa impugnazione – e l'estensione analogica al caso di rinuncia potrebbe ritenersi impedito dalla natura eccezionale della norma. Si potrebbe allora prospettare un problema di legittimità costituzionale del differente trattamento, ma, come detto, la ratio non è proprio la medesima, salvo, forse, per i casi di rinunce precoci, effettuate all'indomani del deposito dell'atto introduttivo.

Sulla tematica in esame si è formato un contrasto giurisprudenziale. Inizialmente, si è pronunciata, con due sentenze, la Prima Sezione penale della Corte di cassazione, che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 442, comma 2-bis, c.p.p., per contrasto con gli artt. 3,25,27 e 117 Cost., in relazione all'art. 7 CEDU, nella parte in cui non prevede che il beneficio dell'ulteriore riduzione di pena di un sesto per mancata impugnazione della sentenza di condanna si applichi anche ai procedimenti penali pendenti in fase di impugnazione e a quelli definiti con sentenza divenuta irrevocabile prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (Cass. pen., sez. I, 10 marzo 2023-14 aprile 2024, n. 16054, Rv. 284545; Cass. pen., sez. I, 27 settembre 2023-19 ottobre 2023, n. 42681, Rv. 285394).

Osserva la Corte che la condizione processuale che consente l'applicazione della nuova disciplina, costituita dall'irrevocabilità della sentenza per mancata impugnazione, in quanto soggetta al principio del tempus regit actum, è ravvisabile solo rispetto a sentenze di primo grado divenute irrevocabili dopo l'entrata in vigore della novella, pur se pronunciate antecedentemente, sicché non risulta violato il principio di retroattività della lex mitior, che riguarda le sole disposizioni che definiscono i reati e le pene che li sanzionano e la cui applicazione è preclusa ex art. 2, comma 4, c.p. ove sia stata pronunziata sentenza definitiva.

Secondo il giudice di legittimità, dunque, l'inapplicabilità dell'art. 2, comma 4, c.p. deriva dalla natura della disposizione in esame, che non sarebbe sostanziale ma mista, ad un tempo processuale e sostanziale. La Corte esclude che tale interpretazione comporti attriti con i principi dettati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, perché i giudici europei hanno chiarito che il principio di retroattività della lex mitior, che loro considerano un corollario di quello di legalità, consacrato dall'art. 7 CEDU, concerne solo le disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono.

La soluzione ha destato qualche perplessità in dottrina. Si è osservato (Todaro, Questione di legittimità costituzionale dell'art. 442, comma 2-bis, c.p.p., in Cass. pen., 2023, p. 2348) che, se è pacifico che la diminuente di cui di discorre sia ambivalente, ad un tempo processuale e sostanziale, «dubbi permangono in ordine alla corretta interpretazione delle decisioni della Corte di Strasburgo: negli arresti del giudice europeo, più che una rigida distinzione basata sull'astratto discrimine tra fattispecie incriminatrice e disciplina processuale, conta in concreto l'incidenza che una norma ha sul trattamento sanzionatorio. Ed è indubbio che la nuova diminuente riguardi quest'ultimo aspetto». 

Più recentemente, la Seconda Sezione Penale della Corte di cassazione ha ritenuto che il beneficio dell'ulteriore riduzione di pena di un sesto per mancata impugnazione della sentenza di condanna, di cui all'art. 442, comma 2-bis, c.p.p., possa trovare applicazione, previa rinuncia all'appello, anche ai procedimenti penali pendenti in fase di impugnazione antecedentemente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2022 (Cass. pen., sez. II, 17 novembre 2023-31 gennaio 2024, n. 4237, Rv. 285820). Si è osservato che la giurisprudenza europea considera sostanziali non solo tutte le norme che qualificano il comportamento come reato, ma anche quelle che ne stabiliscono la punizione in concreto definendo l'an, il quantum ed il quomodo delle conseguenze punitive. Anche tali norme, dunque, devono soggiacere alla regola della irretroattività della legge sopravvenuta sfavorevole e della retroattività della legge sopravvenuta favorevole. Allora, la riduzione di pena in esame, incidendo sul trattamento sanzionatorio concreto, ha ricadute necessariamente sostanziali, la cui natura non muta nonostante siano collegate non all'illecito penale in sé, ma ad un comportamento successivo, consistente nel mancato esercizio di una facoltà processuale.

    

Sospensione condizionale e non menzione concessi in executivis: lo stato dell'arte prima della Consulta

La diminuzione automatica di pena per la mancata impugnazione della sentenza di condanna emessa in sede di giudizio abbreviato potrebbe per scendere la pena irrogata dal giudice della cognizione entro i limiti di legge di cui agli artt. 163 e 175 c.p., rendere così applicabili, ove ne ricorrano anche gli altri presupposti, i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudicale destinato ai privati; benefici che il giudice della cognizione non ha potuto applicare avendo irrogato una pena superiore ai limiti di legge.

Tuttavia, sia l'art. 442, comma 2-bis, c.p.p. che l'art. 667, comma 3-bis, c.p.p. non prevedono che il Giudice dell'esecuzione possa concedere la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.

Il silenzio legislativo è stato valorizzato da una parte della giurisprudenza di merito per escludere tale possibilità in ossequio al principio di legalità processuale (v., ad esempio, Trib. Bari, sez. I, ord., 9 luglio 2024, est. Abbatista, che non solo esclude la possibilità di colmare la lacuna applicando analogicamente l'art. 671 c.p.p. in quanto norma eccezionale, ma ritiene anzi che il silenzio del legislatore sia frutto di una precisa volontà di «limitare gli effetti favorevoli della nuova previsione normativa alla sola rideterminazione della pena»).

Tale soluzione è stata poi recepita da due pronunce della Prima Sezione penale della Corte di cassazione (cfr. Cass. pen., sez. I, 9 luglio 2024-15 ottobre 2024, n. 37899, in questa rivista con nota di Magi, Riduzione della pena inflitta in rito abbreviato per mancata proposizione dell'impugnazione; Cass. pen., sez. I, 26 marzo 2024-17 luglio 2024, n. 28917, Rv. 286806).

La Corte ha osservato che in sede esecutiva la possibilità di concedere i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale è espressamente prevista solo dall'art. 671, comma 3, c.p.p.con riferimento alla diminuzione di pena derivante dall'applicazione della disciplina del concorso formale di reati e del reato continuato. Tale norma, però, non è ritenuta suscettibile di applicazione analogica perché fa eccezione al principio generale secondo il quale la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna posso essere riconosciute esclusivamente dal giudice della cognizione, che deve valutare la sussistenza delle condizioni oggettive e soggettive richieste dagli artt. 163 e 172 c.p.

La facoltà del giudice dell'esecuzione di concedere i suddetti benefici è stata riconosciuta dalla giurisprudenza anche nell'ipotesi in cui venga disposta la revoca di una sentenza di condanna per abrogazione o dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice. Valorizzando il riferimento, contenuto al primo comma dell'art. 673 c.p.p., ai “provvedimenti conseguenti” adottabili a seguito della revoca della sentenza, si è detto che il giudice dell'esecuzione, qualora, in applicazione dell'art. 673 c.p.p., rimuova precedenti condanne, le quali siano state a suo tempo di ostacolo alla concessione della sospensione condizionale della pena per altra condanna, può, nell'ambito dei "provvedimenti conseguenti" alla suddetta pronuncia, concedere il beneficio, previa formulazione del favorevole giudizio prognostico richiesto dall'art. 164, comma 1, c.p.p., sulla base non solo della situazione esistente al momento in cui era stata pronunciata la condanna in questione, ma anche degli elementi sopravvenuti.

La Suprema Corte ha chiarito che tale soluzione non si pone in contrasto con il principio dell'intangibilità del giudicato e con la carenza di poteri valutativi da parte del giudice dell'esecuzione, ma si basa su esigenze di ordine logico, coessenziali alla razionalità del sistema. Alla base di questa interpretazione vi è la teoria dei c.d. poteri impliciti, secondo la quale, se una legge processuale demanda al giudice una determinata funzione, allo stesso giudice deve ritenersi conferita la titolarità di tutti i poteri necessari all'esercizio di quella medesima attribuzione. Ne consegue che il riconoscimento della possibilità di eliminare l'effetto ostativo alla concessione della sospensione condizionale della pena comporta necessariamente la titolarità dei poteri necessari al conseguimento di tale risultato. Laddove, dunque, nel giudizio pregresso l'unico motivo della mancata applicazione del beneficio sia stato l'effetto preclusivo della sentenza di condanna successivamente revocata, «non può certamente ravvisarsi alcun reale vulnus al giudicato qualora quel giudizio prognostico che non è stato compiuto dal giudice della cognizione sia compiuto, poi, dal giudice dell'esecuzione», anche alla luce «di tutti i sopravvenuti elementi sintomatici che, allorché il giudice dell'esecuzione formula il giudizio prognostico, contribuiscono a giustificare il convincimento che il condannato si asterrà dal commettere ulteriori reati» (Cass. pen., sez. un., 20 dicembre 2005-6 febbraio 2006, n. 4687, Rv. 232610, a cui si è uniformata la giurisprudenza successiva; soluzione poi ripresa da Cass. pen., sez. un., 26 febbraio 2015-15 settembre 205, n. 37107, Rv. 264859).

Va detto che la giurisprudenza di legittimità successiva ha significativamente esteso i casi in cui è possibile superare il giudicato penale: ad esempio ammettendo la revoca di una condanna pronunciata sulla base di una disposizione penale giudicata incompatibile con il diritto dell'Unione europea dalla Corte di giustizia (Cass. pen., sez. I, 12 aprile 2012, n. 14276) ovvero di una condanna fondata su una norma incriminatrice già abrogata al momento della pronuncia della sentenza passata in giudicato (Cass. pen., sez. un., 29 ottobre 2015-23 giugno 2016, n. 26259), nonché la rideterminazione della pena nel caso di sopravvenienza di una sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo dichiarativa di una violazione convenzionale relativa al quantum della pena inflitta (Cass. pen., sez. un., 24 ottobre 2013-7 maggio 2014, n. 18821) ovvero nel caso di sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale della comminatoria edittale (Cass. pen., sez. un., 29 maggio 2014-14 ottobre 2014, n. 42858, Rv. 260697).

Parallelamente, vi è stato un progressivo riconoscimento del potere di concedere la sospensione condizionale della pena in conseguenza di tale rimodulazione del giudicato, una volta rimosso l'ostacolo normativo che aveva impedito al giudice della cognizione di provvedervi. E ciò a prescindere da uno specifico appiglio normativo come quello - «e adotta i provvedimenti conseguenti» - valorizzato dalle Sezioni unite nel 2006 (così, ad esempio, Cass. pen., sez. I, 1° marzo 2013-12 aprile 2013, n. 16679, Rv. 254570, rispetto ai poteri del giudice dell'esecuzione che abbia rideterminato la pena dopo l'annullamento senza rinvio di un solo capo della sentenza di condanna; oppure Cass. pen., sez. I, 30 ottobre 2018-15 novembre 2018, n. 51692, Rv. 274547, rispetto ai poteri del giudice dell'esecuzione che, ai sensi dell'art. 669, comma 8, c.p.p., abbia revocato una sentenza di condanna per essersi formato, sullo stesso fatto e contro la stessa persona, un giudicato assolutorio).

Trascurando l'evoluzione successiva, la Prima Sezione penale ha ritenuto che la soluzione interpretativa adottata dalle Sezioni unite con riferimento all'art. 673 c.p. non possa essere applicata al nostro caso sia perché manca un richiamo ai provvedimenti consequenziali che possa essere valorizzato per includersi l'applicazione dei benefici, sia perché l'abolitio criminis e la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, a differenza della diminuzione ex art. 442, comma 2-bis, c.p., determinano sopravvenienze che incidono sul quadro sanzionatorio genetico, nel senso che la valutazione prognostica da effettuarsi ai sensi dell'art. 164 c.p. diviene possibile alla stregua del novum sopravvenuto idoneo a incidere sull'ammissibilità della valutazione che avrebbe dovuto farsi se esso fosse maturato in sede cognitiva.

Ad avviso della Corte, inoltre, la mancata attribuzione al giudice dell'esecuzione del potere di verificare la possibilità di concedere o meno i benefici di legge nel caso di applicazione della riduzione prevista dall'art. 442, comma 2-bis, c.p.p. non è irragionevole e non determina alcuna disparità di trattamento con riferimento al potere allo stesso riconosciuto dall'art. 671 c.p.p. La norma ha natura strettamente processuale prevedendo una riduzione della pena in misura fissa, che sottrae al giudice dell'esecuzione ogni valutazione circa la congruità o meno della pera e del rapporto tra questa e il reato e la personalità del condannato. Il giudice dell'esecuzione, nel caso di specie, non ha alcun potere discrezionale paragonabile a quello che gli è invece riconosciuto nella diversa ipotesi prevista dall'art. 671 c.p.p., allorché gli è attribuito eccezionalmente il compito di rideterminare complessivamente la pena.

Tale scelta, secondo la Corte, sarebbe anche ragionevole in termini generali di sistema. In questa specifica situazione, infatti, il giudizio in ordine alla quantificazione della pena e circa la concessione o meno dei benefici è coerentemente demandato al giudice della cognizione, cui questo è attribuito in via ordinaria, senza che possa su questo incidere la circostanza, del tutto eventuale, che l'ulteriore riduzione di un sesto comporti l'applicazione di una pena finale inferiore ai due anni.

   

L'intervento della Consulta

Prima che fossero depositate le due sentenze della Corte di cassazione di cui ho detto al paragrafo precedente, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Nola ha chiesto alla Consulta di pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della mancata previsione, da parte dell'art. 442, comma 2-bis, c.p.p., del potere del giudice dell'esecuzione di provvedere anche in merito ai benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.

Ad avviso del rimettente la lacuna normativa sarebbe intrinsecamente irragionevole sotto due profili: in relazione alla funzione rieducativa della pena, con conseguente violazione degli artt. 3 e 27, commi 1 e 3, Cost. e in relazione alla ragionevole durata del processo, con conseguente violazione degli artt. 3,111 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU.

La Corte ha accolto la questione dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 442, comma 2-bis, c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice dell'esecuzione può concedere altresì la sospensione della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena allora determinata era superiore ai limiti di legge che consentono la concessione di tali benefici. In via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 l. 11 marzo 1953, n. 87, ha esteso la medesima dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale anche all'art. 676, comma 3-bis, c.p.p., norma non censurata dal rimettente, ma che detta un'espressa disciplina dei poteri del giudice dell'esecuzione nell'ipotesi di cui all'art. 442, comma 2-bis, c.p.p.

Innanzitutto, la Corte ha ravvisato una irragionevole disparità di trattamento tra chi rinunci al proprio diritto all'impugnazione della sentenza di condanna pronunciata all'esito di un giudizio abbreviato, in cambio di un ulteriore sconto di pena rispetto a quello già ottenuto per effetto della scelta del rito, e chi si avvalga di analoghi sconti di pena attraverso il meccanismo del concordato con rinuncia ai motivi di appello di cui all'art. 599-bis c.p.p., dunque in cambio della rinuncia a proprie facoltà processuali parimenti coperte dal diritto costituzionale di difesa e dai principi del giusto processo.

In secondo luogo, la Corte ha ritenuto che la scelta legislativa di non consentire al giudice dell'esecuzione l'applicazione dei benefici in esame sia in contrasto con il finalismo rieducativo della pena. Scelta di fondo del nostro sistema, coerente con il mandato costituzionale di cui all'art. 27, comma 3, Cost., è quella di assicurare al condannato per reati non gravi, specie se alla prima condanna, una chance di sottrarsi agli effetti desocializzanti e criminogeni delle pene detentive brevi e all'effetto stigmatizzante derivante dalla pubblicità della condanna. Eseguire sempre e comunque pene detentive di durata non superiore a due anni, menzionando la relativa condanna nel casellario giudiziale, finirebbe per porsi in contrasto con le finalità rieducative perseguite dal legislatore attraverso i due istituti in esame.

Infine, i giudici costituzionali hanno ritenuto che la soluzione censurata contrasti con gli scopi deflattivi della riforma del 2022. Chi ha subito la condanna ad una pena che, grazie alla riduzione di un sesto, potrebbe rientrare nei limiti di legge per la sospensione condizionale e la non menzione, non potendo ottenere tali benefici dal giudice dell'esecuzione sarebbe incentivato a proporre appello, mirando a ottenerli in quella sede, anche attraverso il meccanismo di riduzione della pena connesso al concordato con rinuncia ai motivi di appello. Il che frustrerebbe lo scopo legislativo di favorire una più rapida definizione del contenzioso penale, con conseguente ulteriore profilo di frizione rispetto all'art. 3 Cost., in combinato disposto con gli artt. 111, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6, paragrafo 1, CEDU.

Passando a individuare il rimedio al vulnus riscontrato, la Consulta osserva che, alla luce dell'evoluzione giurisprudenziale di cui si è detto al paragrafo precedente, un'interpretazione costituzionalmente conforme della norma censurata sarebbe stata possibile. La teoria dei poteri impliciti avrebbe consentito al giudice rimettente di ritenere che tra i poteri del giudice dell'esecuzione rientri anche quello valutare la concedibilità dei benefici della sospensione condizionale e della non menzione conseguenti alla rideterminazione della pena irrogata nella sentenza irrevocabile. E tanto sarebbe basato per adottare una sentenza interpretativa di rigetto. Del resto, il fatto che la Prima Sezione della Corte di cassazione abbia ritenuto di non poter pervenire ad un'interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata non sarebbe stato di ostacolo a tale decisione, perché, come riconosco gli stessi giudici costituzionali, due sole pronunce, rese in un brevissimo arco temporale, non possono costituire già diritto vivente idoneo a essere assunto come oggetto del giudizio di legittimità costituzionale. Ciononostante, la Corte, tenuto conto della posizione assunta dalla Suprema Corte, ha ritenuto di adottare comunque una decisione di accoglimento, precisando di averlo fatto per soddisfare le esigenze di certezza giuridica che sono particolarmente acute nella materia processuale.

Osservazioni

Ritengo che, nel merito, la decisione della Consulta sia condivisibile. Escludere che il giudice dell'esecuzione possa sospendere l'esecuzione della pena così come rimodulata a seguito dell'omessa impugnazione e ordinare la non menzione della relativa condanna, significa impedire alla pena di svolgere la sua funzione rieducativa e depotenziare l'incentivo all'acquiescenza, inficiando l'utilità deflattiva della novella. Inoltre, tale soluzione si porrebbe in distonia con l'evoluzione pretoria in tema di poteri del giudice dell'esecuzione.

Quel che può lasciare perplessi, passando dai contenuti alla forma, è la scelta della Corte di adottare una declaratoria di incostituzionalità anche a fronte della possibilità per i giudici ordinari di conferire alla norma un significato costituzionalmente orientato. Se sul piano dell'opportunità la scelta può essere condivisa nella misura in cui, stante gli effetti erga omens della pronuncia di incostituzionalità, soddisfa maggiormente, rispetto ad una sentenza interpretativa di rigetto, che ha effetti limitati alla controversia, le esigenze di certezza giuridica in materia processuale, su un piano più ampio crea disorientamento perché sovverte un principio consolidato nella giurisprudenza costituzionale secondo il quale il giudice ordinario ha l'onere di interpretare secundum constitutionem le disposizioni legislative, prima ed in luogo di devolverne l'esame alla Corte; inoltre, può rappresentare un intervento precoce che non consente al diritto vivente di consolidarsi e alla Suprema Corte di svolgere la propria funzione nomofilattica.

Ciò detto, c'è da chiedersi se la teoria dei poteri impliciti possa giustificare l'attribuzione al giudice dell'esecuzione anche di altri spazi di intervento a seguito dell'applicazione della diminuente processuale di cui all'art. 442, comma 2-bis, c.p.p.; primo fra tutti, la sostituzione della pena inflitta con una delle pene sostitutive di cui agli artt. 20-bis c.p. e 53 ss. l. 689/1981, preclusa al giudice della cognizione in ragione del quantum di pena irrogato.

Infine, deve rilevarsi che nella prassi si registra la tendenza di alcuni giudici ad anticipare la determinazione a contenuto vincolato che dovrebbe essere assunta in executivis dopo la formazione del giudicato, indicando già nel dispositivo della sentenza la pena da eseguire in caso di mancata proposizione dell'impugnazione, calcolando la decurtazione di cui all'art. 442, comma 2-bis, c.p.p. Seppur irrituale, tale prassi è stata ritenuta legittima dalla Suprema Corte, perché non viola il diritto dell'imputato all'intervento, assistenza e rappresentanza di cui all'art. 178, comma 1, lett. c), c.p.p. e non comporta pregiudizi in termini di corretto computo della pena, salvo il caso in cui sia stato commesso un errore di calcolo. Dunque, si esclude che il condannato che non abbia impugnato la sentenza abbia interesse a contestare innanzi al giudice dell'esecuzione tale decisione (Cass. pen., sez. I, 26 marzo 2024-17 luglio 2024, n. 28917, Rv. 286806).

L'anticipazione di giudizio potrebbe estendersi anche alla concessione dei benefici. In sostanza, il giudice della cognizione, avvalendosi dei poteri di accertamento e valutazione che gli sono propri, potrebbe formulare un giudizio ipotetico, ossia stabilire non solo il quantum di pena conseguente alla riduzione per l'eventuale omessa impugnazione, ma anche, qualora tale pena finale lo consenta, la possibilità di concedere la sospensione condizionale della stessa e la non menzione della relativa condanna.

In questo caso si avrebbe il duplice vantaggio di accelerare ulteriormente i tempi di definizione del fascicolo e di svolgere un sindacato più penetrante sulle condizioni soggettive e oggettive richieste per l'applicazione dei benefici. Del resto, considerato il meccanismo di funzionamento della riduzione premiale ex art. 442, comma 2-bis, c.p.p., di regola il giudice dell'esecuzione coinciderà con quello che ha emesso la sentenza di condanna, di talché, per quanto irregolare, l'escamotage proposto non entrerebbe in attrito con il principio del giudice naturale. Inoltre, tale coincidenza dovrebbe neutralizzare l'unico inconveniente ravvisabile nella soluzione proposta, ossia l'ipotesi di un giudizio ipotetico negativo non condiviso dal giudice dell'esecuzione a cui si sia rivolto l'imputato dopo il passaggio in giudicato della sentenza non impugnata.

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