La responsabilità dell’avvocato: le regole operative nel quadro definito dalla recente giurisprudenza
Daniela Zorzit
12 Febbraio 2025
Muovendo da alcune recenti decisioni di legittimità, vengono delineati i tratti che caratterizzano la responsabilità dell’avvocato, individuando gli elementi essenziali che danno forma e contenuto allo “statuto” messo a punto dalla Cassazione. L’attenzione si sofferma dunque sulla natura della prestazione di “facere” professionale, sul riparto degli oneri, sul nesso causale tra condotta ed evento di danno, per toccare, infine, la delicata questione della risarcibilità della perdita di chance. Il tutto non senza tener conto del (controverso) rapporto tra non corretto adempimento e diritto al compenso.
Il caso deciso da Cass. 27 luglio 2024, n. 21045
La signora M.C. conviene innanzi al Tribunale di Bologna l’Avv. D.G. per ottenere il risarcimento dei danni patiti in conseguenza dell’inadempimento del mandato professionale, sostenendo che la tardiva costituzione nel giudizio di sfratto che la vedeva convenuta (in qualità di conduttrice) ne avrebbe determinato la soccombenza (la controparte, in veste di locatrice, aveva ottenuto la risoluzione del contratto).
Il legale si costituisce negando ogni responsabilità e chiedendo in via riconvenzionale il pagamento dei compensi professionali per l’opera svolta.
La domanda di parte attrice, accolta in primo grado, viene rigettata in sede di gravame; la Corte d’appello rileva, in sostanza, che «non è emersa la prova, neppure in via presuntiva, che vi sarebbe stato un probabile esito favorevole del giudizio, se l’attività dell’appellante fosse stata correttamente e diligentemente svolta»; il Collegio ritiene, per converso, fondata la domanda riconvenzionale proposta dall’avvocato per il pagamento del proprio onorario.
La Cassazione conferma la decisione di merito (fatto salvo il profilo delle spese di chiamata in garanzia della compagnia assicurativa, tema che non verrà in questa sede affrontato).
Le questioni
a) quali sono i presupposti della responsabilità dell’avvocato;
b) la struttura dell’obbligazione di facere professionale e il riparto degli oneri (la prova del nesso tra inadempimento ed evento di danno);
c) la perdita di chance di avere soddisfazione delle proprie ragioni: inquadramento della figura tra incertezze ed ambiguità;
d) il diritto al pagamento del compenso professionale in assenza della domanda di risoluzione del contratto.
La soluzione della Cassazione n. 21045/2024
a) I presupposti per affermare la responsabilità dell'avvocato
Volendo seguire un ordine logico, prima di affrontare le singole questioni conviene prendere le mosse dal principio (consolidato) che “guida” l'intera motivazione: la Cassazione ha infatti ritenuto necessario ribadire che: «“la responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell'attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente" (Cass. n. 10966 del 2004; n. 34787 del 2022), con la conseguenza che "la mancanza di elementi probatori, atti a giustificare una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito dell'attività del prestatore d'opera, induce ad escludere l'affermazione della responsabilità del legale, in quanto, la responsabilità dell'esercente la professione forense non può affermarsi per il solo fatto del mancato corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare se, qualora l'avvocato avesse tenuto la condotta dovuta, il suo assistito avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando altrimenti la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale ed il risultato derivatone" (v., ex multis, Cass. n. 11901 del 2002, citata in sentenza; n. 9917 del 2010; n. 22376 del 2012; n. 2638 del 2013; n. 1984 del 2016; n. 25112 del 2017; n. 13873 del 2020; n. 4655 del 2021; n. 33466 del 2022)».
Questa affermazione, chiara e perentoria, costituisce il punto di partenza, la chiave di lettura per individuare le coordinate entro cui si sviluppa la vicenda.
Il “cuore” del problema – o, se si vuole, il principale ostacolo su cui si concentrano gli sforzi della difesa della sig.ra M.C. nella proposizione del ricorso in Cassazione - sembra infatti racchiuso nel rilievo della Corte d'Appello secondo cui «nell'atto introduttivo del presente procedimento l'attrice non ha allegato né ha dato prova, a suo carico, del fatto che l'eventuale tempestiva costituzione del difensore avrebbe comportato la “ragionevole probabilità di un diverso e più favorevole esito” del giudizio».
Volendo esprimere il concetto con termini diversi, si potrebbe anche dire che la questione attiene al nesso di causalità materiale: la cliente non ha dimostrato (secondo la consueta regola del “più probabile che non”) che l'inadempimento del legale ha effettivamente determinato l'evento pregiudizievole di cui si duole (cioè la soccombenza nella lite).
Il tema è articolato e complesso e chiama in causa altri profili, a cominciare dalla natura dell'obbligazione dell'avvocato, per arrivare alle regole sul riparto degli oneri, passando altresì - come si avrà modo di osservare in seguito - attraverso gli “incerti” territori della perdita di chance.
Nei prossimi paragrafi si prenderanno in esame alcuni di tali aspetti.
b) L'obbligazione dell'avvocato ed il riparto degli oneri
Come si accennava, il tema centrale su cui si appuntano le critiche della ricorrente riguarda il “giudizio controfattuale” (che risponde alla seguente domanda: “cosa sarebbe accaduto se il debitore avesse tenuto una condotta diligente?”): l'intento perseguito con il gravame è quello di contrastare la valutazione compiuta dal giudice del merito in ordine alla (ritenuta) insussistenza del nesso causale.
La sig.ra M.C. lamenta, tra i vari motivi, che la mancata acquisizione del fascicolo d'ufficio nel grado di appello avrebbe impedito di tener conto delle risultanze istruttorie da cui, a suo avviso, sarebbe emersa la prova della riconducibilità del danno subito alla condotta dell'avvocato.
La Cassazione respinge la censura evidenziando che gli elementi di valutazione erano tutti pacificamente esposti negli atti introduttivi e non consentivano, comunque, di dimostrare il collegamento tra il dedotto inadempimento ed il pregiudizio lamentato.
L'attrice sosteneva, in particolare, che il contratto di locazione stipulato era orale e non registrato e che se il proprio legale ne avesse tempestivamente eccepito la nullità, l'esito della lite sarebbe stato per sé favorevole.
Il motivo viene dichiarato inammissibile per la sua evidente non decisività: osserva infatti la Suprema Corte che la nullità del contratto di locazione avrebbe potuto e dovuto essere dichiarata d'ufficio (secondo il disposto degli artt. 1 comma 4 e 13 comma 1 della l. n. 431/1998 applicabili ratione temporis) ; in ogni caso, tale rilievo non avrebbe giovato alla ricorrente nella controversia cui era riferito il mandato professionale posto che la controparte (locatrice) aveva chiesto il rilascio dell'immobile (la domanda sarebbe stata accolta comunque).
La Cassazione rigetta anche le altre censure (con cui l'attrice contestava, in sostanza, le valutazioni operate dalla Corte d'appello in punto an), ritenendole inammissibili in quanto volte a sollecitare una revisione dell'accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito.
Non ha miglior sorte neppure la critica concernente il riparto degli oneri.
La signora M.C. lamenta l'erroneità della decisione impugnata anche perché, a suo dire, sarebbe spettato all'avvocato provare la mancanza del nesso tra inadempimento e danno.
La Suprema Corte ritiene l'assunto infondato e coglie l'occasione per richiamare l'insegnamento delle c.d. sentenze di San Martino bis (Cass. civ. 11 novembre 2019 nn. 28991 e 28992): nelle obbligazioni comuni di dare o facere l'evento di danno coincide con la lesione dell'interesse tutelato dal contratto, ossia è implicito (è “assorbito”) nell'inadempimento, senza che ci sia bisogno di darne prova (si immagini il seguente esempio: Tizio si è obbligato a dare a Caio una cosa determinata, ma non tiene fede all'impegno assunto. L'evento di danno è insito nell'inadempimento perché la mancata consegna lede di per sé, senza necessità di prova, l'interesse tutelato dal contratto - avere la disponibilità della res per trarne l'utilità sperata -).
Nelle obbligazioni professionali, invece, l'interesse corrispondente alla prestazione (nel caso in esame, resistenza nel giudizio di sfratto) è solo strumentale rispetto al soddisfacimento di quello “primario” (esterno al rapporto) avuto di mira dal creditore (la permanenza nell'immobile).
Allo stesso modo, ove si tratti di un medico, la prestazione richiesta è “fare bene”, nel rispetto delle leges artis, e ciò in funzione del perseguimento della guarigione o, comunque, del miglioramento delle condizioni del paziente.
In queste fattispecie, dunque, l'evento di danno (es. compromissione della salute) consta della lesione di un interesse diverso da quello contrattualmente regolato e quindi non è “assorbito”, non è automaticamente insito nell'inadempimento.
In altri termini: la condotta negligente del professionista incide, compromettendolo, sull'interesse strumentale (alla corretta esecuzione della prestazione) dedotto in obbligazione, ma non si pone necessariamente come causa della lesione di quello primario (i.e.: non è affatto detto che il peggioramento sia stato determinato dall'errore del sanitario, così come è tutto da verificare che l'esito negativo del giudizio sia effettivamente dipeso dall'omissione del legale).
Secondo la Cassazione, posto che il nesso materiale è elemento costitutivo della fattispecie, spetta al creditore (cliente dell'avvocato) dare la prova che l'inadempimento ha prodotto un evento di danno (la soccombenza nella controversia locatizia).
La domanda di risarcimento proposta dalla sig.ra M.C. è stata quindi correttamente rigettata nel giudizio di merito perché spettava all'attrice dimostrare che la tempestiva costituzione del legale le avrebbe consentito di vincere la causa.
c) La perdita di chance
Leggendo la motivazione di Cass. n. 21045/2024 si evince che la sig.ra M.C. aveva censurato la sentenza della Corte d'appello anche sotto il profilo della perdita di chance (di vincere la lite locatizia). La Cassazione rileva la palese inammissibilità della critica in quanto «volta ad introdurre un tema ontologicamente diverso da quello trattato nel giudizio di merito», ma ritiene comunque di soffermarsi sulla figura in esame al fine di evidenziarne le peculiarità.
Anche se la questione viene affrontata in via incidentale, suscita particolare interesse l'affermazione secondo cui la «Chance, infatti, è bensì (soltanto) la possibilità di conseguire un risultato vantaggioso (ovvero di evitarne uno sfavorevole), ma il termine implica anche e soprattutto incertezza e l'incertezza è la cifra che connota, come dato essenziale, il concetto anche nelle sue declinazioni giuridiche. L'essenza della figura è, dunque, rappresentata da una condizione di insuperabile incertezza eventistica».
L'enunciato merita attenta disamina perché dietro alla sua apparente semplicità si cela una questione (interpretativa) al momento irrisolta: si fatica a coglierne il significato e ad individuarne i concreti i risvolti operativi.
Occorre infatti premettere che nella ricostruzione tradizionale, la chance risulta concepita come danno emergente, ossia come perdita di una opportunità positiva, che è già entrata nel patrimonio della vittima e che è sfumata per effetto dell'illecito (o dell'inadempimento) altrui.
Nella “medmal” essa viene riconosciuta e liquidata nei casi in cui il paziente ha perso, per via dell'errore del sanitario, una possibilità “inferiore alla soglia del 50+1” (per es. il Tribunale di Rovigo con la pronuncia del 26 luglio 2022 ha riconosciuto iure successionis il risarcimento per la perdita di chance in una situazione in cui in cui la possibilità di sopravvivenza del paziente era del 21%; nel caso deciso da Trib. Lecce 24 novembre 2021 la possibilità di un miglior risultato terapeutico era del 30%; ancora: Trib. Ferrara 18 giugno 2018, n. 476 per un caso in cui le possibilità di vivere più a lungo erano del 40%; Trib. Livorno 19 marzo 2018, n. 332 per un caso in cui le possibilità di sopravvivenza erano del 25%; Trib. Milano 4 settembre 2017 ove le aspettative di vita a cinque anni del paziente erano tra il 25-30%; Trib. Milano n. 1416/2016: il paziente aveva la possibilità, stimata nel 32,5%, di sopravvivere per altri 5 anni ove la diagnosi fosse stata tempestiva).
Laddove, invece, la probabilità (di conseguire un risultato utile) sia indicata dal CTU in misura superiore al 50%, si ritiene esistente un vero e proprio nesso causale (si dirà: la condotta negligente del medico, che non ha diagnosticato la patologia, ha cagionato il decesso/ peggioramento della malattia perché “è più probabile che non” che, se tempestivamente curato, il malato sarebbe sopravvissuto).
Questo, dunque, è lo schema “consolidato”, per come applicato nella prassi.
Va detto, tuttavia, che il quadro di riferimento ha assunto negli ultimi tempi caratteri più sfumati tanto da apparire come un mare poco tranquillo, increspato da continui elementi di ambiguità e di dubbio; ciò a motivo di alcune recenti sentenze della Cassazione che, in alcuni passaggi argomentativi, pongono l'interprete di fronte a qualche difficoltà. Così è accaduto con Cass. n. 5641/2018 nel punto in cui ha precisato che l'ambito di applicazione della figura sarebbe quello in cui (par. 4 lett. e) «le conclusioni della CTU risultano, cioè, espresse in termini di insanabile incertezza rispetto all'eventualità di maggior durata della vita e di minori sofferenze, ritenute soltanto possibili alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo. Tale possibilità – i.e. tale incertezza eventistica (la sola che consenta di discorrere legittimamente di chance perduta), sarà risarcibile equitativamente, alla luce delle circostanze del caso, come possibilità perduta (..)». Negli stessi termini si è espressa anche Cass. 11 novembre 2019 n. 28993; non dissimile pare Cass. n. 26851/2023, che alla lettera b) del par. 4.5 ha chiarito che: «il danno da perdita di chance di sopravvivenza sarà invece risarcito, equitativamente, volta che, da un lato, vi sia incertezza sull'efficienza causale della condotta illecita quoad mortem (..)».
Il problema è capire quando si verifichi il caso descritto dalla Corte. Verrebbe da dire che esso si configura solo allorché la scienza non sia in grado di dare risposte o – che poi è la stessa cosa – quando il rapporto sia fondato sul “50/50”, nel senso che le probabilità che l'evento sia dipeso dalla condotta colposa dell'operatore sono pari a quelle che assistono l'ipotesi contraria.
In tutti gli altri casi (al di sopra o al di sotto del 50%), sarà infatti “più probabile che non” - dunque certo - che la morte (rispettivamente) è/non è dipesa dalla condotta del medico (in questi termini anche R. Pucella, Colpa medica, evento di danno incerto e perdita di chances, in Danno e responsabilità, 1/2020, 85).
Se questa fosse davvero l'impostazione fatta propria dalla Cassazione, si dovrebbe dire che la chance non può più trovare applicazione quando il CTU indica la percentuale (di sopravvivenza o comunque di possibilità di conseguimento del risultato utile) in un numero inferiore al 50 (per esempio: 10 o 20 o 30%), essendo necessario un autentico dubbio (il c.d. “fifty/fifty”).
E in questo solco sembrerebbe proprio inserirsi l'ordinanza della Cassazione n. 21045/24 qui in commento, nel punto in cui sottolinea (il grassetto ed il corsivo sono di chi scrive) che «La chance (tanto di carattere patrimoniale quanto non patrimoniale) resta confinata nelle relazioni incerte tra eventi non interdipendenti, in quanto non causalmente collegati da una “legge di connessione”. Per converso, se una tale connessione è possibile (e nel caso di specie era certamente possibile, in astratto, formulare in un senso o nell'altro,un giudizio prognostico sulle aspettative di successo del mandato difensivo sulla base delle leggi e dei principi applicabili al caso, sebbene in termini di mera probabilità) non si ricade più nel campo della chance, ma in quello della relazione causale tra condotta ed evento di danno (inteso come lesione piena ed effettiva dell'interesse avuto di mira)».
La Corte pare confermare che la chance si configura solo quando vi è una vera incertezza, nel senso che non è possibile dire se la condotta (dovuta ma omessa) avrebbe o no consentito di conseguire il risultato.
In altri termini: se “è più probabile che non” che la costituzione tempestiva avrebbe condotto alla vittoria della causa, si avrà nesso (e quindi pieno riconoscimento delle pretese risarcitorie); viceversa, se vi era solo il 20% di possibilità, si dovrà concludere che non c'è alcun collegamento tra inadempimento ed evento di danno (la domanda del cliente contro il professionista dovrà essere rigettata).
La chance parrebbe quindi entrare in gioco solo quando vi sia dubbio assoluto, quando cioè, come sottolinea Cass. 21045/2024 in commento, «non è possibile formulare un giudizio prognostico in un senso o nell'altro» (vale a dire: ipotizzando il corretto adempimento dell'obbligazione da parte dell'avvocato, vittoria della causa e soccombenza si pongono come ipotesi alternative supportate, ciascuna, da una percentuale identica del 50%).
Occorre, tuttavia, segnalare che questo punto di approdo (se è corretta la lettura sin qui condotta) non sembra pacifico: si consideri per esempio che la recente Cass. 24 gennaio 2024 n. 2152 (in OneLegale) ha ritenuto di ricondurre entro la fattispecie della perdita di chance un caso in cui il paziente avrebbe avuto il 40% di possibilità di non morire (ove si fosse effettuato tempestivamente un esame diagnostico). A rigore, in una simile ipotesi si sarebbe dovuto concludere che mancava il nesso (era “più probabile che non” - 60% - che Tizio sarebbe deceduto egualmente hic et nunc). Non vi era, insomma, quella “insanabile incertezza” (nei termini più sopra chiariti) che avrebbe potuto “legittimare” il ricorso alla figura in esame.
La giurisprudenza successiva a Cass. 21045/2024: Cass. 5 settembre 2024, n. 23900; Cass. 13 settembre 2024, n. 24670 e Cass. 17 settembre 2024, n. 25023
a) L'avvocato e la perdita di chance
Sempre restando in argomento, compulsando i massimari e leggendo le decisioni più recenti l'impressione, con riguardo al tema della perdita di chance, si fa vaga: le coordinate di riferimento non sembrano trovare una definizione puntuale e adamantina.
Si veda, per esempio, la recentissima Cass. 5 settembre 2024, n. 23900: nel rigettare il ricorso proposto dai clienti dell'avvocato, il Collegio osserva (il grassetto è di chi scrive) che «La violazione dell'obbligo della diligenza del professionista va rapportato all'idoneità dell'attività prestata ad incidere sugli interessi dell'assistito e deve, perciò, dar luogo ad un inadempimento che, secondo una prognosi dei futuri sviluppi difensivi della causa, sia risultata idonea a provocare la perdita di chances di vittoria. La responsabilità del legale non dipende solo dal non corretto adempimento dell'attività professionale, ma esige la riconducibilità dell'evento produttivo del pregiudizio lamentato alla condotta professionale, oltre che l'effettiva sussistenza del danno, dovendosi stabilire se, ove il difensore avesse tenuto il comportamento dovuto, sarebbe stato ottenuto, alla stregua di criteri probabilistici, il riconoscimento delle ragioni del cliente, prova che compete a quest'ultimo».
Il richiamo alla “perdita di chances” sembrerebbe qui improprio perché, in realtà, la Corte intende riferirsi ad un vero e proprio nesso tra condotta negligente e danno, richiedendo appunto la prova (secondo il giudizio controfattuale) in termini di “più probabile che non”.
Si esprimono diversamente, nel segno di una presa di posizione tranchante, Cass. 13 settembre 2024, n. 24670 e Cass. 17 settembre 2024, n. 25023: dopo aver ribadito che, ai fini del risarcimento, il cliente ha l'onere di provare che l'adempimento dell'avvocato gli avrebbe consentito di ottenere il riconoscimento delle proprie ragioni, il Supremo Collegio dichiara senza mezzi termini che in questo ambito la chance non ha rilievo poiché l'ordinamento non tutela l'interesse alla “mera partecipazione” al giudizio laddove non vi siano serie, concrete e ragionevoli possibilità di risultati utili.
Per giungere a tale conclusione la Cassazione richiama anzitutto l'orientamento consolidato secondo cui l'obbligazione del professionista non è di risultato, ma di mezzi (ex plurimis Cass. 3848/1968; Cas. 2230/1973, Cass. n. 7618/1997; Cass. n. 16023/2022; Cass. n. 10289/2015; Cass. n. 30169/2018): il solo fatto che il legale non abbia correttamente svolto l'attività richiesta non è sufficiente a fondare una sua responsabilità; occorre invece verificare se il pregiudizio lamentato sia causalmente riconducibile alla sua condotta.
Questo (più risalente) inquadramento – osservano gli Ermellini - va oggi coniugato con l'impostazione fatta propria dalle note sentenze di San Martino 2019 (Cass. civ. 11 novembre 2019, nn. 28991 e 28992) che «sia pure con argomentare diverso, non se ne discosta»: il “bene della vita” a cui mira il cliente, ossia «l'interesse primario (..) che vale a connotare causalmente il contratto di patrocinio in giudizio concluso con l'avvocato» è «la vittoria della causa» ovvero, in altri ma sovrapponibili termini, «il riconoscimento delle proprie ragioni nella sede giudiziaria».
Nelle obbligazioni di facere professionale, dunque, l'evento di danno (es. soccombenza in giudizio) consta della lesione di un interesse diverso da quello contrattualmente regolato (il quale ultimo è solo strumentale e consiste nel rispetto delle leges artis) e quindi non è “assorbito”, non è automaticamente insito nell'inadempimento.
Ne consegue – precisano Cass. 13 settembre 2024, n. 24670 e Cass. 17 settembre 2024, n. 25023 - che si potrà configurare un danno risarcibile solo laddove vi sia stata lesione dell'interesse primario, ossia quando si dimostri, in termini di giudizio prognostico, che la condotta diligente del legale avrebbe consentito di raggiungere il vantaggio atteso : «Non è, infatti, la "mera partecipazione ad un giudizio" l' interesse tutelato dall'ordinamento, il quale è, invece, necessariamente finalizzato al "riconoscimento delle proprie ragioni", ossia dei diritti/interessi legittimi per i quali soltanto è garantita dall'ordinamento il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.)».
La Cassazione enuncia quindi il seguente principio di diritto: «non costituisce un interesse giuridicamente tutelabile quello a proporre una impugnazione infondata; ne consegue che la tardiva proposizione, da parte dell'avvocato, di un appello privo di ragionevoli probabilità di accoglimento non costituisce per il cliente un danno risarcibile, e non fa sorgere per l'avvocato un obbligo risarcitorio, nemmeno sotto il profilo della perdita della chance della mera partecipazione al giudizio di impugnazione» (Cass. 13 settembre 2024, n. 24670 e Cass. 17 settembre 2024, n. 25023).
Ad ulteriore giustificazione dei propri assunti la Corte fa riferimento anche all'abuso del diritto rilevando che «per garantire il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale è predisposto un complesso apparato organizzativo (il c.d. “servizio giustizia”), con un costo per la collettività, la cui attivazione, impegnando una risorsa limitata, non può essere rimessa ad iniziative “meramente esplorative”, “dilatorie” o, a maggior ragione, “emulative”, che non potrebbero dunque essere sorrette da un interesse meritevole di tutela». Il Collegio conclude osservando che : «Dunque, la perdita della possibilità di una "mera partecipazione" ad un giudizio, nell' ipotesi di omessa impugnazione del provvedimento giudiziario sfavorevole, non vale ad integrare, di per sé, un danno risarcibile, poiché un tale danno, come detto, è configurabile soltanto ove sussista la lesione di un interesse tutelato dall'ordinamento, che, nel caso, va rinvenuto nell' interesse al "bene della vita" del cliente per il cui soddisfacimento è unicamente diretto l'adempimento dell'obbligazione di diligenza professionale forense e cioè (si ripete) l' interesse a "vincere la causa", a vedersi riconosciute le "proprie ragioni" e, quindi, ad ottenere tutela dei propri diritti/interessi legittimi».
Queste affermazioni – incisive e perentorie - suggeriscono alcune riflessioni.
In primo luogo, la Cassazione sembra inquadrare la chance entro il paradigma “tradizionale”, intendendola cioè come possibilità mera (inferiore al 50%) di conseguire un vantaggio, senza più alludere a quella dimensione di “insanabile incertezza” a cui, come si è detto sopra, fanno riferimento altre decisioni.
In sostanza, per poter predicare una responsabilità dell'avvocato occorre un giudizio controfattuale in termini di “più probabile che non” (non avendo rilievo tutto ciò che si colloca sotto tale soglia).
Questo, forse, è - a parere di chi scrive - il punto più delicato della questione perché la regola enunciata appare, sul piano pratico, di non semplice applicazione.
L'ambito delle liti giudiziarie non sembra infatti comprimibile entro la logica binaria “il cliente avrebbe vinto/ perso” (se il legale avesse agito con diligenza), non restituisce cioè un'immagine in bianco e nero, ma è attraversato da scale di grigi: capita spesso di imbattersi in situazioni “liquide”, in cui è arduo fare previsioni che siano dotate di sufficienti margini di certezza. Tanto che - come acutamente osservava lo stesso Vincenzo Calamandrei (si pensi, per es., al caso del “cavallo mordace”, in Elogio dei giudici, scritto da un avvocato, Ponte alle Grazie, 1995, 20), a volte può succedere che l'esito che pareva scontato si riveli, nella realtà, l'esatto contrario di ciò che ragionevolmente ci si aspettava.
Né convince il richiamo che le ordinanze della Cassazione n. 24670/2024 e n. 25023/2024 fanno all'abuso del diritto; le argomentazioni della Corte sembrerebbero suggerire un'equazione, che può essere descritta in questi termini: «se la vittoria della lite non è “più probabile che non”, allora la partecipazione al giudizio non è interesse tutelato dall'ordinamento perché impegna inutilmente le (limitate) risorse che lo Stato mette a disposizione per garantire la tutela giurisdizionale».
Se è davvero questa la sintesi ricavabile dalla lettura della motivazione di Cass. nn. 24670/2024 e 25023/2024, non si può tacere qualche perplessità.
Il parallelismo tracciato dalla Cassazione si giustifica quando l'azione è manifestamente infondata (si pensi ad es. ad un caso “semplice”, per il quale la risposta, nel senso del rigetto della domanda, discende dalla piana applicazione di una norma del codice civile, che non pone nessun problema interpretativo); ma sembra troppo severo se riferito a tutte quelle ipotesi (non certo rare) “di confine” in cui è difficile prevedere l'esito e per le quali il cliente ben potrebbe avere interesse a difendersi, magari per provocare un ripensamento di un orientamento non più attuale, o per contrastare – con argomenti validi e suggestivi – prese di posizione su questioni controverse ed opinabili.
Dire che, in questi casi (laddove appunto non si possa formulare, a priori, una prognosi favorevole superiore al 50%), la partecipazione al giudizio è addirittura “interesse non tutelato dall'ordinamento” pare eccessivo, anche perché, a seguire tale premessa, si dovrebbe forse considerare nullo (per immeritevolezza della causa?) lo stesso contratto stipulato con l'avvocato.
Ed anzi, un siffatto sviluppo pare piuttosto eccentrico se si considera che proprio la giurisprudenza consolidata individuava come giusto motivo per compensare le spese l'esistenza di indirizzi contrastanti (per es. Cass. civ. 29.11. 2016, n. 24234, in Arch. circ. ass. e resp., 2017, p. 240: «In tema di compensazione delle spese processuali, ricorrono gravi ed eccezionali ragioni, ai sensi dell'art. 92, comma 2, c.p.c. , nella formulazione introdotta dalla L. n. 69 del 2009, “ratione temporis” applicabile, quando la decisione sia stata assunta in base ad atti o argomentazioni esposti solo in sede contenziosa, a fronte della novità o dell'oggettiva incertezza delle questioni di fatto o di diritto rilevanti nel caso specifico, ovvero dell'assenza di un orientamento univoco o consolidato all'epoca della insorgenza della controversia, in presenza di modifiche normative o pronunce della Corte Costituzionale o della Corte di giustizia dell'Unione europea intervenute, dopo l'inizio del giudizio, sulla materia»).
b) Perché la chance non ha rilevanza per Cass. 24670/2024 e 25023/2024?
Nel paragrafo che precede si è espressa qualche perplessità in merito alle argomentazioni svolte dalle ord. n. 24670/2024 e n. 25023/2024, nella parte in cui la Cassazione sembrerebbe considerare “non meritevole di tutela” l'interesse a partecipare al giudizio laddove la vittoria non appaia ex ante “più probabile che non”. E si è detto come, sul piano pratico operativo, la realtà non sempre presenti casi per i quali sia da subito chiara la “prognosi”, il che rende di per sé difficile mettere in pratica i principi di diritto enunciati in punto responsabilità.
In linea astratta, tuttavia, la posizione assunta dalla Cassazione - quando afferma che, ai fini del risarcimento, il cliente deve provare ragionevoli probabilità di vittoria - parrebbe condivisibile, almeno quando si tratti di situazioni non complesse per le quali è agevole formulare una previsione.
In tali ipotesi, se si accerta che l'iniziativa del legale diligente non avrebbe comunque avuto esito favorevole, si dovrebbe infatti ammettere che non c'è nesso tra inadempimento e danno (se con questo secondo lemma si intende il “mancato conseguimento del vantaggio sperato”).
Nel pensiero della Corte riecheggia quanto già affermava la giurisprudenza tradizionale: la preoccupazione è di evitare che l'obbligazione del professionista sia considerata “di risultato”. Ad intenderla così, infatti, al creditore (cliente) basterebbe provare di non aver avuto soddisfazione delle proprie ragioni e toccherebbe allora al debitore dimostrare, per liberarsi, che l'esito “infausto” non è dipeso dal proprio inadempimento.Un regime di tal fatta è considerato dalla Cassazione troppo severo, e ciò, del resto, parrebbe in linea con la tradizione, se si considera che, secondo un noto adagio, “habent sua sidera lites” (dunque è eccessivo pretendere che l'avvocato debba “garantire” il successo della lite).
L'aspetto di particolare interesse, nelle decisioni in esame, attiene però al disconoscimento del rilievo della chance, intesa come mera opportunità (di conseguire un risultato utile), che si colloca al di sotto del 50+1.
Sotto questo profilo, la Cassazione sembra (implicitamente) in linea con l'opinione sostenuta da parte della dottrina (e anche da talune decisioni di merito) secondo cui la possibilità in sé non è un “bene giuridico” (non si può comprare, vendere, donare), di talché la sua “perdita” non è suscettibile di risarcimento (sul punto si veda M. Rossetti, Il danno da lesione della salute, Padova, 2001, 1053; contro l'ammissibilità della chance si esprimono: Trib. Venezia 25 luglio 2007, in Danno e resp., 2008, 51; Trib. Taranto 16 maggio 2021, n. 1289, in Responsabilità medica, 27 maggio 2021, Rilievi critici sul danno da perdita di chance di S. Corso; si veda anche Trib. Rimini 4 novembre 2016, G.U. Dott. La Battaglia in altalex.com, 27 gennaio 2017).
A parere di chi scrive, la posizione espressa dalle ordinanze in esame ha una propria coerenza e rappresenta forse il punto di arrivo di un percorso che tiene conto della necessità di mettere ordine in una materia “difficilmente prendibile”
A ben vedere, infatti, anche quella del 51% (o del 60% o del 70%) è una “possibilità”, la cui caratteristica consiste nell'essere (sufficientemente) elevata da giustificare (secondo una convenzione che la giurisprudenza stessa ha ritenuto di elaborare e porre a fondamento del sistema) l'esistenza del nesso causale. E quest'ultimo o c'è, oppure no: tertium non datur.
Ed allora, se la valutazione del rapporto eziologico riposa (per orientamento consolidato sin da Cass., Sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619) sulla regola del “più probabile che non”, l'idea stessa della chance sembra entrare in conflitto con il sistema. Si faccia il seguente esempio: se il cliente aveva solo il 20% di possibilità di vincere, sarà giocoforza concludere che “era più probabile che non” (80%) che avrebbe perso comunque. E non essendoci appunto alcun collegamento causale tra inadempimento e danno, dovrebbe escludersi il risarcimento.
Il fatto è che, al di là delle enunciazioni astratte, il “bene” che viene in rilievo nelle ipotesi in discussione parrebbe sempre quello: è il mancato raggiungimento del vantaggio sperato (nella fattispecie, la vittoria della lite); quello che cambia non è l'essenza di esso, ma solo l'entità percentuale della possibilità di conseguirlo.
E si potrebbe forse sostenere che lo stesso art. 1223 cc. vieta di far rifluire la perdita di chance nel “danno emergente”, impedisce cioè di considerarla come un “valore” di cui il soggetto è titolare: una simile operazione finisce infatti col vanificare la previsione di legge, perché riconosce dignità risarcitoria a ciò che la norma stessa, per definizione, ritiene irrilevante (essendo la “mera possibilità”, inferiore al 50+1, il “negativo” del lucro cessante, che invece consiste nel venire meno del risultato, quale effetto “certo” provocato dall'inadempimento).
Un secondo barrage parrebbe discendere dalla “ricostruzione” operata dalle note sentenze di San Martino bis (Cass. civ. 11 novembre 2019, n. 28991 e n. 28992): nel rapporto contrattuale tra cliente e avvocato (o tra medico e paziente) il danno evento consiste nella lesione dell'interesse cd. presupposto, che non è dedotto in obbligazione, ma è esterno ad essa (vincere la causa, ottenere un miglioramento della salute). Se non c'è nesso tra condotta (inadempimento) ed evento di danno (lesione dell'interesse presupposto), il debitore è liberato. Il che vuol dire che non c'è posto per la chance (intesa come mera possibilità, inferiore al 50%).
Invero, se si accerta che il cliente avrebbe comunque perso la causa, non c'è nesso tra inadempimento ed evento di danno; non potrà quindi configurarsi nessuna responsabilità a carico del professionista.
È ovvio, infatti, che quello stesso inadempimento, che, per un verso, vede il debitore completamente “liberato”, non può contemporaneamente e all'opposto, essere fonte di un debito risarcitorio (sotto forma di perdita di chance). È una questione strutturale, di incompatibilità logica, che ha a che fare con la natura stessa del rapporto, per come configurato dalla Cassazione.
Alla fine, viene da pensare che sia forse questo il filo conduttore che si cela dietro alla “posizione di chiusura” espressa dalle ordinanze n. 24670/2024 e 25023/2024.
L'unico spazio che, forse, potrebbe occupare la chance senza entrare in conflitto con la regola della preponderanza dell'evidenza è quello della “insanabile incertezza”, intesa come 50/50, allorquando non è assolutamente dato sapere se l'esito sarebbe stato positivo o negativo. Qui non sarebbe predicabile alcun rapporto causale (non si può sostenere né che la condotta ha cagionato quell'evento, né il contrario): in tali ipotesi - che potremmo definire “grigie” o “di confine” - il riconoscimento di un ristoro darebbe voce ad una “equilibrata risposta di giustizia”.
La chance, così intesa, si rivelerebbe come una soluzione “equa” per le situazioni assolutamente fluide (il c.d. fifty /fifty di cui si è fatto cenno più sopra), come quella in cui si trovi il cliente che, a causa della negligenza del legale, non ha avuto modo di presentare argomenti e svolgere tesi difensive per mettere in discussione un orientamento risalente, opinabile e teoricamente non inattaccabile (si supponga che avesse il 50% di possibilità di successo).
Ma, a parere di chi scrive, un simile esito richiederebbe pur sempre di essere giustificato sul piano dogmatico; e per fare ciò occorrerebbe superare un ostacolo di carattere processuale che riguarda la prova. La regola vuole infatti che l'attore dimostri che avrebbe conseguito il risultato (o detto altrimenti, che la condotta inadempiente gli ha prodotto un danno): di fronte alla assoluta incertezza (50/50) si dovrebbe dire che il cliente non ha assolto l'onere, e la domanda andrebbe rigettata. Non potrebbe dunque esserci spazio per il risarcimento della chance. A meno di sostenere (ricadendo nelle stesse “forzature” criticate dalla dottrina sopra richiamata) che il creditore ha perso in realtà un “bene” (la chance del 50%), che aveva un suo valore. Si tratterebbe, insomma, di una sorta di “compromesso”, di uno strumento giurisprudenziale tutto teso a mitigare la rigidità della regola dell'all or nothing, come già ebbe ad affermare nella sua lucida ed acuta motivazione la decisione di Cass. n. 5641/2018.
Inadempimento del contratto professionale e pagamento del compenso
Con la decisione n. 21045/2024 la Cassazione respinge il motivo di ricorso con cui la signora M. C. aveva lamentato la contraddittorietà della sentenza di merito laddove, pur a fronte del non corretto espletamento dell'incarico, aveva ritenuto di accogliere la domanda riconvenzionale di pagamento del compenso proposta dal legale.
La Corte rileva che, in primo luogo, la pronuncia gravata non contiene una chiara presa di posizione sulla effettiva sussistenza del dedotto inadempimento; in ogni caso, quand'anche fosse possibile trarre da essa un simile accertamento, la condanna al pagamento degli onorari resterebbe corretta in iure.
Ciò perché la cliente non ha chiesto la risoluzione del contratto.
Osserva in proposito il Collegio che : «Il diritto ai compensi professionali trova infatti titolo nel contratto di prestazione d'opera professionale, il quale non viene automaticamente meno in conseguenza dell'inadempimento o dell'inesatto adempimento dell'obbligo assunto dall'avvocato, a tal fine richiedendosi la risoluzione del contratto, che è pronuncia costitutiva, non dichiarativa, subordinata alla domanda della parte ed alla valutazione giudiziale della gravità dell'inadempimento (artt. 1453,1455 c.c.), salvo il rimedio preventivo dell'eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.)».
Vale la pena segnalare che la questione non sembra pacifica: se si guarda, anzitutto, alla giurisprudenza di merito, si trovano decisioni che fanno rientrare il compenso pagato all'interno della voce “risarcimento del danno” e riconoscono quindi il diritto alla sua restituzione (anche in assenza della domanda di risoluzione).
In tal senso, per esempio, si sono espressi il Tribunale di Bergamo, 13 luglio 2017, n. 1934 (in Responsabilitá medica, con nota di G. Petillo), e la stessa Corte di appello di Milano, 9 febbraio 2015, n. 643, secondo cui «nel caso di contratto d'opera professionale i danni cagionati dalla prestazione dannosa comprendono anche gli esborsi per acconti e corrispettivi richiesti dal professionista (..), il cui pagamento diviene privo di causa in ragione della difformità di esecuzione dell'opera professionale rispetto alle regole della materia e nella considerazione dell'inutilità dell'opera e anzi della sua contrarietà all'interesse del cliente».
In dottrina (D. Maffeis, Responsabilitá medica e restituzione del compenso: precisazioni in tema di restituzioni contrattuali, ilcaso.it, 29/2005), con specifico riferimento al caso dell'odontoiatra, si è evidenziato che «una prestazione che danneggia i denti, invece che curarli, non ha alcun valore di mercato. Sicché il solvens di una prestazione siffatta non ha diritto di ottenere alcunché».
Ma la stessa Cassazione, in altra recente pronuncia, 29/12/2023 n. 36497 (in OneLegale), sembra muoversi in direzione contraria rispetto a Cass. n. 21045/2024: il paziente/cliente aveva promosso un'azione di risarcimento per inadempimento professionale nei confronti della struttura che aveva erogato le cure dentarie (senza chiedere la risoluzione del contratto); il Giudice di merito aveva escluso che la clinica potesse essere condannata alla restituzione di quanto ricevuto e ciò in ragione del fatto che «il corrispettivo già versato sulla base di un contratto inadempiuto non poteva essere ricondotto alla nozione di danno emergente».
Il Supremo Collegio non condivide tale esito e rileva che «deve ritenersi che, quando però il creditore non abbia più interesse alla prestazione e/o la prestazione non sia più possibile, subentra l'obbligo risarcitorio, cioè l'adempimento è sostituito dall'obbligazione risarcitoria, la cui caratteristica precipua risiede nel carattere succedaneo della prestazione mancata o inesattamente attuata; adempimento e risarcimento condividono la comune finalità di attuazione del contratto, sia pure in forme diverse; in altri termini l'art. 1453 c.c., quando individua i rimedi spettanti al contraente fedele – adempimento invito debitore e/o risoluzione – indicando l'adempimento implica che in esso si comprenda il risarcimento e che, spettando alla parte che ha subito l'inadempimento, l'integrale risarcimento del danno per aver fatto affidamento sulla corretta esecuzione della prestazione (secondo il principio dell'id quod interest), detto danno, dovendo reintegrare il patrimonio del leso mediante l'attribuzione di un equivalente pecuniario, deve comprendere anche le eventuali spese per procurarsi aliunde la prestazione ineseguita e che il compenso pagato inutilmente al professionista al fine di ottenerla possa costituire un parametro di valutazione di cui il giudice debba tener conto al fine di liquidare il danno nella sua integralità».
Va tuttavia osservato che nei casi esaminati dalle decisioni qui brevemente richiamate l'attività del professionista si era rivelata o del tutto ininfluente (con conseguente necessità per il paziente di sottoporsi ad altro intervento risolutivo) oppure addirittura pregiudizievole (lesiva della salute).
Seguire la via del risarcimento del danno, nel caso esaminato da Cass. n. 21045/2024, non sembrerebbe, almeno prima facie, soluzione proficua per il cliente: si potrebbe infatti sostenere che la tardività della costituzione nel giudizio di sfratto è stata del tutto irrilevante, non ha prodotto cioè alcun pregiudizio perché se anche l'avvocato avesse osservato i termini, non sarebbe cambiato nulla. E questo porterebbe addirittura a pensare che il compenso sia comunque dovuto, perché l'errore commesso è, appunto, “neutro”. Si potrebbe però replicare che il problema si colloca a monte: a rigore, il legale avrebbe dovuto avvertire la signora M.C. della inutilità della difesa perché era praticamente certo, ab initio, che la controparte avrebbe vinto, non essendo configurabili validi argomenti per resistere alla pretesa. In questa lettura sarebbe allora configurabile un diritto al ristoro del pregiudizio patito per un «compenso pagato inutilmente al professionista» (secondo quanto afferma Cass. n. 36497/2023 sopra citata).
Ma quid iuris quando l'informativa è stata data e l'assistito ha comunque voluto affrontare il rischio e difendersi?
Ritenere necessaria, come fa Cass. n. 21045/2024, la proposizione della domanda di risoluzione introduce (forse) una semplificazione perché in questo modo la restituzione del compenso viene ad essere “agganciata” alla “gravità” dell'inadempimento ex art. 1453 cc., la quale dovrebbe misurarsi avendo riguardo all'interesse del creditore, a mente dell'art. 1455 cc. («Il contratto non si può risolvere se l'inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza avuto riguardo all'interesse dell'altra»).
Ed allora se il cliente (doverosamente messo al corrente delle dubbie possibilità di avere soddisfazione delle proprie ragioni) voleva comunque “tentare”, vuoi perché confidava nella sorte, vuoi perché riteneva comunque necessario giocarsi anche le più piccole possibilità di successo, si potrebbe ritenere che l'inadempimento è “grave” e, dunque, giustifica la risoluzione del contratto e la restituzione del compenso.
In conclusione
All'esito della rassegna sin qui condotta, si ha l'impressione che la Cassazione abbia chiaramente ribadito che l'obbligazione dell'avvocato è “di mezzi”. Il legale può essere considerato responsabile solo se il cliente fornisce la prova del nesso tra inadempimento ed evento di danno, ossia tra la non corretta esecuzione della prestazione ed il mancato conseguimento del risultato (deve cioè dimostrare che, se il debitore-professionista fosse stato diligente, egli avrebbe vinto la causa ed ottenuto soddisfazione delle proprie ragioni).
Nelle ultime decisioni la Suprema Corte ha altresì escluso la rilevanza della chance (almeno con riguardo alla responsabilità dell'avvocato), negando che essa costituisca interesse meritevole di tutela; non è chiaro, tuttavia, se tale indicazione sia “settoriale” o se invece sottenda una più ampia presa di posizione, valevole in termini generali.
Venendo poi alla questione del diritto al compenso, si registra un contrasto in seno alla stessa giurisprudenza, sembrando prevalente l'indirizzo che richiede, da parte del cliente, la proposizione della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento.
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Sommario
Il caso deciso da Cass. 27 luglio 2024, n. 21045
La giurisprudenza successiva a Cass. 21045/2024: Cass. 5 settembre 2024, n. 23900; Cass. 13 settembre 2024, n. 24670 e Cass. 17 settembre 2024, n. 25023