Tributario

Il difficile bilanciamento tra sistematica e realtà applicativa nel ragionamento della Suprema Corte in tema di operatività dell’art. 21-bis d.lgs. n. 74/2000

18 Febbraio 2025

La Cassazione è tornata a pronunciarsi, con la recentissima sentenza n. 3800/2025, sulla portata applicativa del nuovo art. 21-bis d.lgs. n. 74/2000, introdotto dal d.lgs. n. 87/2024 nell'ambito della riforma fiscale, affermando che la sentenza penale di assoluzione produce effetti nel processo tributario limitatamente alle sanzioni. Il contributo fornisce una prima lettura della sentenza, evidenziandone gli aspetti problematici.

Introduzione

Ad avviso della Suprema Corte (Cass. n. 3800/2025) l'art. 21-bis del d.lgs n. 74/2000, secondo cui «La sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l'imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, ha, in questo, efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi» ha valore limitatamente alle sanzioni. Riguardo all'imposta, invece, la sentenza penale deve essere valutata dal giudice tributario alla stregua degli altri elementi a disposizione. Quindi, senza alcun effetto automatico.

Si tratta di una posizione che restringe grandemente la portata dell'art. 21-bis, limitandone considerevolmente l'effetto, ma che, pur ampiamente argomentata nel corpo della sentenza, non pare condivisibile. Detta soluzione, invero, appare contraddire alcune premesse qualificanti dell'accertamento dell'imposta in seno al processo tributario.

Ma andiamo con ordine.

La portata del nuovo art. 21-bis nella pronuncia della Cassazione

La sentenza contiene, in realtà, diverse conclusioni condivisibili.

Indubbiamente, il pensiero della Corte appare corretto laddove chiarisce che dall'operatività dell'art. 21-bis restano escluse le sentenze di condanna, le sentenze di assoluzione e di proscioglimento con formule differenti da quelle indicate dalla norma (come ad esempio che il fatto non costituisce reato, il fatto non è previsto come reato, la formale improcedibilità), i procedimenti di archiviazione, le sentenze di applicazione della pena (ex art. 444 c.p.p.), le sentenze emesse ad esito del giudizio abbreviato. Si tratta di una precisazione corretta, dal momento che l'art. 21-bis presuppone chiaramente un accertamento compiuto del fatto, ad esito di un dibattimento e, soprattutto, esige una formula assolutoria che specifichi in modo puntuale che “il fatto non sussiste” ovvero che “l'imputato non lo ha commesso”. Solo in questo modo diviene possibile giustificare un'efficacia della sentenza anche sul processo tributario, proprio nella misura in cui questo presuppone accertamenti di realtà storiche compiuti in modo completo ed utili ad essere rilevanti anche in seno ad esso.

Appare altresì corretta la precisazione per cui l'art. 21-bis torna applicabile anche per violazioni commesse prima del 1° settembre 2024. Non è quindi invocabile, del caso, l'art. 5 del d.lgs. n. 87/2024, che rinvia l'applicazione delle previsioni afferenti le sanzioni amministrative. Questo, per l'assorbente ragione, testuale, che l'art. 21-bis è stato introdotto con l'art. 1 del menzionato decreto (e quindi non viene richiamato dall'art. 5), ma anche sul piano sistematico dal momento che si riferisce in ogni caso all'operatività di una misura penale e non amministrativa.

La Corte chiarisce poi un ulteriore importante principio. L'assoluzione in sede penale, che consente di reclamare il giudicato, deve essere pronunciata ai sensi dell'art. 530, comma 1, c.p.p. Occorre, invero, che sia offerta la prova positiva dell'innocenza dell'imputato. Pertanto, l'effetto di giudicato non può essere reclamato quando l'assoluzione è pronunciata in virtù dell'art. 530, comma 2, c.p.p., dove infatti viene solo riconosciuta la prova negativa della responsabilità. In questo secondo caso, a rigore, l'assoluzione non passa per l'accertamento giudiziale che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso, bensì sulla mera presa d'atto dell'impossibilità di provare adeguatamente la responsabilità per insufficienza degli elementi di prova. Di conseguenza, e correttamente, la Corte esclude che in questo caso possa essere invocato il giudicato fuori dalla sede penale.

Vi è poi un chiarimento assi utile per i ricorsi in Cassazione. La Corte chiarisce che per invocare in Cassazione l'art. 21-bis non basta una mera allegazione della sentenza penale, ma occorre indicare con precisione, nel ricorso, gli specifici fatti ed elementi, accertati in sede penale, rispetto ai quali viene ravvisata l'identità con quelli utilizzati nell'accertamento tributario, verso cui si sollecita il giudicato.

Le questioni controverse

Ciò che invece non convince è l'enunciazione del principio di diritto. Qui, come anticipato, la Suprema Corte giunge a ritenere che l'art. 21-bis possa valere solo limitatamente alle sanzioni, mentre per l'imposta la sentenza passata in giudicato può costituire solo uno dei diversi elementi che il giudice tributario è chiamato a valutare. Viene escluso, in questo modo, limitatamente all'imposta, ogni effetto automatico in seno al processo tributario del passaggio in giudicato della sentenza penale.

È però evidente come, in questo modo, si pervenga ad una lettura riduttiva dell'art. 21-bis.

In realtà, quello che la Corte non considera è che nel processo e nel procedimento tributario l'accertamento del fatto ai fini sanzionatori non è mai autonomo rispetto all'imposta. Questo appare tanto più vero se solo si considera che l'accertamento non è mai motivato in punto di sanzioni, dal momento che la responsabilità per sanzioni consegue direttamente e solo dalla commissione del fatto evasivo.

Di conseguenza, se vi è un accertamento che ha stato di giudicato relativamente alle sanzioni, diventa inevitabile sostenere che il medesimo effetto lo debba avere anche per le imposte. Non a caso, l'art. 21-bis, al comma 3, prevede che l'effetto di giudicato vale anche per il contribuente e non solo per chi lo rappresenta (ossia, colui che ha subito il processo penale) sicché è chiaro che la norma intenda far valere detto giudicato anche per le imposte, proprio perché il rappresentato è l'unico chiamato a pagarle.

In conclusione

La soluzione professata dalla Corte circa l'applicazione dell'art. 21-bis quindi non convince. È difficile immaginare che il giudice, chiamato ad accertare un unico fatto ai fini dell'imposta e delle sanzioni, debba impiegare come giudicato l'accertamento penale del fatto limitatamente alle sanzioni e non anche per l'imposta; questo, nonostante che l'accertamento per le sanzioni sia subordinato concettualmente e praticamente a quello dell'imposta. Non solo i fatti sono medesimi, ma quelli rilevanti per le sanzioni dipendono in tutto da quelli rilevanti per l'imposta.

Insomma, per come è congeniata in sede tributaria la responsabilità sanzionatoria, che risulta strettamente dipendente da quelle per imposta, appare assolutamente inconcepibile ipotizzare un differente accertamento sui relativi fatti costitutivi.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.