Divisione endoesecutiva e questioni processuali alla luce della modifica dell’art. 181 disp. att. c.p.c.

19 Febbraio 2025

Il giudizio di divisione che si innesta nel processo esecutivo avente per oggetto beni indivisi costituisce parentesi di cognizione divenuta pressoché fisiologica. Occorre, quindi, individuare le regole applicabili sia per quanto riguarda l'introduzione del giudizio, sia per quanto concerne il suo svolgimento, alla luce delle novità introdotte dal Correttivo della riforma Cartabia (d.lgs. n. 164/2024).

Inquadramento: il pignoramento di beni indivisi

Quando oggetto del pignoramento non è l'intero diritto reale sul bene, ma una quota (indivisa) dello stesso, si applicano le regole dettate dagli artt. 599, 600 e 601 c.p.c., dedicati all'espropriazione di beni indivisi.

Le norme in questione contemplano sostanzialmente tre modalità espropriative, alle quali corrispondono altrettanti provvedimenti che il giudice dell'esecuzione può assumere all'esito dell'udienza celebrata ai sensi dell'art. 600 c.p.c.:

  • la separazione della quota in natura che, nei limiti del possibile, è preferita dal legislatore, presupponendo pur sempre l'istanza del creditore procedente (o del creditore intervenuto munito di titolo esecutivo) o dei comproprietari. Essa si sostanzia nel distacco – che dev'essere possibile dal punto di vista fisico e giuridico – della parte di bene corrispondente alla quota di cui è titolare il debitore esecutato, di modo che l'azione esecutiva viene a concentrarsi e prosegue in via esclusiva sulla nuova entità fisica così venutasi a formare. In questo caso, il rapporto di contitolarità viene sciolto solo nei confronti del debitore esecutato, permanendo la comunione tra gli altri comproprietari non assoggettati a espropriazione forzata;
  • la vendita della quota indivisa, ammissibile quando, da un lato, non sia possibile procedere alla separazione in natura e, dall'altro lato, non risulti economicamente sconveniente. In questo senso, debbono sussistere elementi che inducono a ritenere che la quota sia collocabile sul mercato a un prezzo pari o superiore al valore che essa ha in relazione a quello attribuito all'intero bene dalla perizia di stima redatta ai sensi dell'art. 568 c.p.c. Con la vendita della quota non si verifica alcuno scioglimento della situazione di contitolarità, che rimane tale, con l'unica differenza che al debitore esecutato subentrerà, nella comunione e nei limiti della quota a lui spettante, il soggetto terzo resosi acquirente della stessa;
  • la divisione che, pur costituendo solo uno dei modi di liquidazione concreta della quota assoggettata a espropriazione forzata, rappresenta, di fatto, lo sviluppo normale e fisiologico della stragrande maggioranza delle procedure esecutive che hanno per oggetto beni indivisi. Alla divisione si ricorre per sciogliere la contitolarità – tra il debitore e altri soggetti estranei al rapporto di credito per il cui soddisfacimento è stato aggredito il bene appartenente pro quota al debitore – dei diritti reali oggetto del pignoramento, onde procedere sulla parte del compendio staggito assegnata in natura al debitore, ovvero sul suo equivalente in denaro. Il giudizio divisionale che si instaura per effetto del provvedimento assunto dal giudice dell'esecuzione può concludersi, alternativamente, con l'assegnazione del bene non comodamente divisibile a uno o più dei comproprietari che ne facciano richiesta ai sensi dell'art. 720 c.c., con la divisione in natura (in quanto possibile) ex art. 1114 c.c. o con la vendita dell'intero bene e la ripartizione del ricavato tra i comproprietari.

Il giudizio di divisione endoesecutiva

Quando il giudice dell'esecuzione dispone che si proceda alla divisione del bene in comunione, si radica un vero e proprio giudizio, qualificabile come una parentesi di cognizione nell'ambito del processo esecutivo, che viene contestualmente sospeso (art. 601 c.p.c.).

La divisione endoesecutiva si struttura come appendice di cognizione nell'ambito della procedura esecutiva, autonoma perché soggettivamente e oggettivamente distinta dalla stessa e di cui non può essere considerata né una continuazione, né una fase, pur essendovi strettamente collegata, tanto da essere attribuita alla competenza funzionale e inderogabile dello stesso giudice dell'esecuzione (nella sua accezione di magistrato-persona fisica che presiede all'espropriazione forzata in cui si inserisce la parentesi incidentale), il quale diviene giudice istruttore e giudice unico del giudizio divisionale, come prevede l'art. 181 disp. att. c.p.c.

Tale giudizio – che ha per oggetto sia l'accertamento del diritto alla divisione (an dividendum sit) sia la determinazione del diritto stesso (quomodo dividendum sit) – ha lo scopo di consentire di procedere esecutivamente su un bene in proprietà esclusiva, sia esso identificato ancora in natura o liquidato e trasformato nel suo equivalente in denaro: nel primo caso, il bene acquista indubbiamente una maggiore appetibilità sul mercato visto che, se si trattasse di una semplice quota di esso, l'acquirente verserebbe, con le complicazioni che ne conseguono, in una situazione di contitolarità, per il cui scioglimento sarebbe costretto a introdurre un apposito giudizio; nel secondo caso, la liquidazione del bene in sede divisionale è funzionale ad attribuire all'esecutato il denaro ricavato dalla vendita, per la quota di sua spettanza, da distribuire poi ai suoi creditori onde soddisfarli.

Il giudizio di divisione si compone:

  • di una prima fase, di natura dichiarativa e necessaria, avente per oggetto l'accertamento della situazione di contitolarità e del diritto di chiederne lo scioglimento e destinata a concludersi, alternativamente, con l'ordinanza che dispone la divisione o con sentenza che statuisce in maniera espressa su tale diritto (art. 785 c.p.c.);
  • di una seconda fase, di carattere esecutivo, volta a trasformare in porzioni fisicamente individuate le quote ideali di comproprietà sul bene comune, che si conclude con l'ordinanza non impugnabile che dichiara esecutivo il progetto di divisione o, in presenza di contestazione, con sentenza (art. 789 c.p.c.).

In virtù di questa struttura necessariamente bifasica del giudizio divisionale, la riassunzione del processo esecutivo sospeso deve avvenire entro tre mesi dal passaggio in giudicato del provvedimento che conclude la seconda fase (come affermato da Cass. civ., sez. III, 2 luglio 2024, n. 18196); del resto, poiché il bene comune non comodamente divisibile dev'essere venduto nell'ambito del giudizio divisorio e non nel processo esecutivo vero e proprio, non avrebbe alcun senso imporre la riassunzione di quest'ultimo quando la vendita non sia ancora avvenuta, visto che, a quel punto, al giudice dell'esecuzione non resterebbe che adottare un nuovo provvedimento di sospensione, in attesa che, avvenuta la liquidazione del bene e attribuita al comproprietario esecutato la parte del ricavato corrispondente alla sua quota, l'espropriazione possa riprendere per disporne la distribuzione tra i creditori.

L'introduzione del giudizio di divisione endoesecutiva

Per quanto concerne le modalità di introduzione del giudizio di divisione endoesecutiva, occorre fare riferimento al fondamentale arresto con cui la Corte di cassazione, a fronte di un panorama dottrinario e giurisprudenziale assai variegato, ha dettato le linee guida, anche in considerazione delle diverse prassi che erano venute formandosi.

Le soluzioni così individuate vanno valutate alla luce della nuova formulazione dell'art. 181 disp. att. c.p.c., al cui comma 2 è stato ora aggiunto un ulteriore periodo, in forza del quale: «Al procedimento si applicano le disposizioni di cui agli articoli 281-undecies e seguenti del codice».

Con la pronuncia Cass. civ., sez. III, 20 agosto 2018, n. 20817, i giudici di legittimità hanno evidenziato la tendenziale sufficienza dell'ordinanza pronunciata dal giudice dell'esecuzione ai fini della valida celebrazione del giudizio di cognizione in cui la divisione endoesecutiva si sostanzia, senza che occorra, dunque, confezionare un apposito e distinto atto introduttivo.

In effetti, l'art. 181 disp. att. c.p.c. non prescrive il rispetto delle forme ordinarie per l'introduzione del giudizio divisionale, ma attribuisce il potere di procedere d'ufficio alla sua istruzione direttamente al giudice dell'esecuzione, cui viene affidato il compito di sostituirsi al creditore procedente nel chiedere la divisione del bene, facendo propria la volontà già implicitamente espressa nell'atto di pignoramento prima e nell'istanza di vendita poi.

L'introduzione del giudizio di divisione endoesecutiva viene, quindi, a configurarsi come un procedimento complesso a formazione progressiva, che inizia con un primo atto di parte (il pignoramento), ne prevede un secondo necessario sempre di parte (l'istanza di vendita) e si perfeziona con un provvedimento emesso dal giudice dell'esecuzione (l'ordinanza ex art. 600 c.p.c.), previa verifica della sussistenza dei presupposti di legge.

L'ordinanza del giudice dell'esecuzione assume così natura di atto processuale allo stesso tempo esecutivo e sostitutivo della domanda giudiziale e deve contenere tutti gli elementi indispensabili per la rituale introduzione di quest'ultima, anche ai fini della sua trascrizione nei pubblici registri immobiliari, se del caso mediante richiamo per relationem all'atto di pignoramento o ad altri atti del processo esecutivo, vale a dire:

  • i dati identificativi delle parti;
  • i dati identificativi del bene o dei beni immobili da dividere;
  • l'udienza di comparizione;
  • gli avvertimenti prescritti dal n. 7) dell'art. 163, comma 2 c.p.c. e, ora, dall'art. 281-undecies, comma 1 c.p.c.

Il giudice dell'esecuzione dovrà pure indicare il termine – fissato imperativamente dal comma 2 dell'art. 181 disp. att. c.p.c. in sessanta giorni prima dell'udienza di comparizione delle parti – concesso alla parte più diligente per l'integrazione del contraddittorio mediante la notifica dell'ordinanza: termine da qualificarsi come perentorio, in quanto espressamente diretto a consentire di integrare il contraddittorio nei confronti di soggetti qualificati come litisconsorti necessari, con conseguente applicazione dell'art. 102 c.p.c. e, in caso di inosservanza, dell'art. 307, commi 3 e 4 c.p.c.

Il giudizio di divisione endoesecutiva deve quindi reputarsi ritualmente introdotto con la pronuncia dell'ordinanza del giudice dell'esecuzione che lo dispone (se all'udienza ex art. 600 c.p.c. sono presenti tutti gli interessati, per tali dovendosi intendere, oltre al debitore esecutato e al creditore pignorante, tutti i contitolari di diritti reali sul bene la cui quota è stata pignorata, i creditori intervenuti, i creditori iscritti titolari di diritti di garanzia nei confronti del debitore e degli altri comproprietari o contitolari, coloro che hanno acquistato diritti sull'immobile in virtù di atti trascritti prima della trascrizione della domanda di divisione giudiziale ovvero successori a titolo particolare o universale del debitore esecutato o dei comproprietari, creditori di uno dei comproprietari che abbiano tempestivamente trasmesso l'opposizione prevista dall'art. 1113 c.c.) o con la sua notificazione (ai medesimi soggetti, qualora alla predetta udienza non fossero stati tutti presenti).

Ben si comprende, dunque, come il giudice dell'esecuzione, all'udienza fissata ai sensi dell'art. 600 c.p.c., sia in grado di verificare se siano presenti o meno tutti i soggetti interessati solo se la documentazione prodotta dal creditore procedente ai sensi dell'art. 567 c.p.c. (o la certificazione notarile sostitutiva) riguardi, oltre alla quota del debitore oggetto di pignoramento, pure quelle dei comproprietari non esecutati, rivelandosi così oltremodo opportuno che il suo deposito venga effettuato già nell'ambito del processo esecutivo, prima che il giudice disponga l'eventuale divisione.

Va, inoltre, chiarito che la presenza di tutti gli interessati all'udienza richiede la loro effettiva partecipazione, non essendo sufficiente la (mera ed eventuale) costituzione in giudizio nel processo esecutivo: d'altra parte, a ciò tende la prescrizione dettata dall'art. 180, comma 2, disp. att. c.p.c., dove prevede che, con la notifica di un apposito avviso, debbono essere invitati a comparire davanti al giudice dell'esecuzione per sentire dare i provvedimenti indicati nell'art. 600 c.p.c.

Alla pronuncia o alla notifica dell'ordinanza che dispone l'introduzione del giudizio divisionale farà seguito l'iscrizione a ruolo della causa (quale ordinario giudizio di cognizione), fermo restando che, come chiarito dalla Corte di cassazione, si tratta di un adempimento di carattere amministrativo, che non influisce sul radicamento e l'instaurazione del giudizio, da collocarsi in corrispondenza della pronuncia o della notifica dell'ordinanza medesima.

I giudici di legittimità hanno pure affermato che, nel caso in cui il giudice dell'esecuzione, sempre con l'ordinanza resa ai sensi dell'art. 600 c.p.c., oneri una parte della notifica e dell'iscrizione a ruolo di un separato atto di citazione (da reputarsi di per sé sovrabbondante e inutilmente ridondante), una tale prescrizione dev'essere comunque osservata, salvo che il provvedimento sia stato tempestivamente opposto da chi abbia interesse a dolersene, dimostrando di avere subito una concreta lesione del diritto di difesa.

Visto che ora, a seguito della modifica dell'art. 181 disp. att. c.p.c., il giudizio di divisione endoesecutiva segue le regole del procedimento semplificato di cognizione, è giocoforza ritenere che tale (eventuale) atto dovrà rivestire le forme del ricorso, da notificarsi unitamente all'ordinanza (che farà le veci del decreto di fissazione dell'udienza di comparizione cui si riferisce l'art. 281-undecies, comma 2 c.p.c.).

Lo svolgimento del giudizio di divisione endoesecutiva

La sentenza del 2018 (Cass. civ., sez. III, 20 agosto 2018, n. 20817) ha approfonditamente analizzato le modalità di introduzione del giudizio di divisione endoesecutiva, mentre non ha affrontato il tema relativo al rito da seguire, ovvero se, in alternativa alle norme dettate dagli artt. 163 e ss. c.p.c. per il procedimento di cognizione davanti al Tribunale, vi fosse spazio per ipotizzare lo svolgimento del giudizio nelle forme del procedimento sommario di cognizione disciplinato dagli (ora abrogati) artt. 702-bis e 702-ter c.p.c.

I dubbi sono stati sciolti dal legislatore con la già menzionata modifica – a opera dell'art. 4, comma 4, lett. g), d.lgs. 164/2024del comma 2 dell'art. 181 disp. att. c.p.c., che ora prescrive l'applicazione delle disposizioni disciplinanti il procedimento semplificato di cognizione.

La scelta appare senza dubbio appropriata, non solo perché, in effetti, tale rito meglio si presta a governare un giudizio che, il più delle volte, non richiede attività istruttorie particolarmente complesse, ma soprattutto perché è l'unico che consente un ordinato svolgimento del processo.

L'art. 181 disp. att. c.p.c., infatti, era (ed è) rimasto immutato nella parte in cui prevede che l'ordinanza del giudice dell'esecuzione debba essere notificata almeno sessanta giorni prima dell'udienza fissata per la comparizione delle parti; tuttavia, se, prima della riforma di cui al d.lgs. 149/2022, ciò determinava soltanto una compressione del termine a comparire previsto dall'art. 163-bis c.p.c., senza incidere sulle altre attività difensive delle parti, visto che i termini per il deposito delle memorie contemplate dal previgente art. 183, comma 6, c.p.c., iniziavano a decorrere dopo la celebrazione dell'udienza di prima comparizione delle parti, ora non è più così, dal momento che le memorie integrative debbono essere depositate prima dello svolgimento di detta udienza, con le cadenze dettate dall'art. 171-ter c.p.c., sicché non vi sarebbe materialmente lo spazio per darvi corso.

Pertanto, salvo ipotizzare un'artificiosa dilatazione del termine di comparizione stabilito dall'art. 181 disp. att. c.p.c. (che configura norma speciale rispetto sia all'art. 163-bis c.p.c., sia all'art. 281-undecies c.p.c.), l'opzione per l'applicabilità del procedimento semplificato di cognizione era l'unica in grado di non determinare una lesione del diritto di difesa.

In questo modo, peraltro, il giudizio di divisione endoesecutiva potrà svolgersi in modo più celere, assecondandosi così la necessità di una sua definizione più rapida, cui resta condizionato l'ulteriore corso della procedura esecutiva.

D'altra parte, non vi erano particolari ragioni per non operare una simile modifica.

Secondo quanto stabilito dall'art. 281-decies c.p.c., infatti, il giudizio dev'essere introdotto nelle forme del procedimento semplificato quando i fatti di causa non sono controversi, oppure quando la domanda è fondata su prova documentale o è di pronta soluzione o richiede un'istruzione non complessa (comma 1), ma la parte ha comunque facoltà di proporre la domanda nelle medesime forme quando la causa dev'essere decisa dal tribunale in composizione monocratica (comma 2).

Sotto questo profilo, è certo che il giudizio di divisione endoesecutiva è attribuito alla competenza funzionale del giudice dell'esecuzione (che, ai fini dell'istruzione, muta temporaneamente veste), ossia di un organo giurisdizionale monocratico; inoltre, conservando natura necessariamente bifasica, il giudizio si compone di due sottofasi, delle quali la prima – avente per oggetto l'accertamento del diritto soggettivo di chiedere e ottenere lo scioglimento della situazione di contitolarità – ha carattere meramente eventuale e, implicando questioni di natura prevalentemente documentale, non richiede di norma particolari approfondimenti istruttori, al pari della seconda che, afferendo all'individuazione delle singole quote, può beneficiare delle risultanze già acquisite nel processo esecutivo e, in particolare, della relazione predisposta dall'esperto ai sensi dell'art. 568 c.p.c.

Inoltre, il nuovo comma 3 dell'art. 281-decies c.p.c., anch'esso introdotto a opera del d.lgs. 164/2024, stabilisce che il giudizio può essere promosso nelle forme del procedimento semplificato, con i medesimi limiti e alle stesse condizioni stabiliti dai commi precedenti, anche quando si tratti di una causa di opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi (oltre che di opposizione a decreto ingiuntivo), sebbene limitatamente al caso in cui l'opposizione sia stata proposta prima dell'avvio del processo esecutivo (essendo richiamato, con riguardo sia all'art. 615 c.p.c. che all'art. 617 c.p.c., il solo comma 1).

Ora, sebbene i giudizi oppositivi menzionati non possano definirsi parentesi cognitive all'interno del processo esecutivo, a differenza di quanto è a dirsi per quelli proposti ai sensi del comma 2 dei medesimi artt. 615 e 617 c.p.c., proprio perché radicati prima della sua instaurazione (motivo per cui si suole parlare di opposizioni preesecutive), è evidente il favor mostrato dal legislatore per il più ampio e diffuso utilizzo del procedimento semplificato di cognizione anche in ambito esecutivo.

Peraltro, la modalità di introduzione del giudizio di divisione endoesecutiva delineata dalla Corte di cassazione con la sentenza del 2018 (Cass. civ., sez. III, 20 agosto 2018, n. 20817) si avvicina di più a quella del procedimento semplificato (con riguardo al quale è prescritta la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di comparizione emesso dal giudice, ossia di un atto – sia pure complesso – assai simile all'ordinanza prevista dall'art. 181 disp. att. c.p.c., che dovrà contenere gli avvertimenti normalmente presenti nel ricorso introduttivo e indicati nel comma 1 dell'art. 281-undecies c.p.c.), che non a quella dell'ordinario processo di cognizione (caratterizzata dalla notifica dell'atto di citazione, esclusivamente riconducibile alla parte attrice).

Né vi sono altre ragioni che ostassero all'estensione del procedimento semplificato di cognizione al giudizio di divisione endoesecutiva.

Non il fatto che gli artt. 785 e 789 c.p.c. contemplino un duplice momento decisorio, il primo relativo al diritto di procedere a divisione (ossia all'effettiva praticabilità di quest'ultima), il secondo conducente alla conclusione del procedimento (con la dichiarazione di esecutività del progetto di divisione), dal momento che la semplificazione che caratterizza il rito disciplinato dagli artt. 281-decies e ss. c.p.c. riguarda esclusivamente le forme attraverso le quali il processo si svolge, ma non il contenuto dell'accertamento posto alla base della decisione; un tanto vale a maggior ragione ora che l'art. 281-terdecies c.p.c. prevede, quale provvedimento conclusivo del giudizio, la sentenza, anziché l'ordinanza (com'era a dirsi per il rito sommario di cognizione, ai sensi dell'abrogato art. 702-ter c.p.c.), sicché debbono intendersi superati i dubbi circa la possibilità di pronunciare sentenze non definitive (qual è quella considerata, in alternativa all'ordinanza e in quanto vengano sollevate contestazioni, dall'art. 785 c.p.c.) che erano stati adombrati sotto la vigenza del rito sommario, prima che fosse sostituito da quello semplificato.

Non il fatto che, a seguito della costituzione delle parti, possano emergere questioni che richiedono complessi accertamenti di carattere istruttorio, vuoi perché una simile eventualità non è, di per sé, necessariamente incompatibile con lo svolgimento del giudizio nelle forme del procedimento semplificato (visto che l'art. 281-duodecies, comma 5 c.p.c. contempla espressamente la possibilità che il giudice ammetta mezzi di prova e proceda alla loro assunzione), vuoi perché resta sempre salva la possibilità di disporre il mutamento del rito (visto che, tra le norme alle quali rinvia l'art. 181 disp. att. c.p.c., rientra anche l'art. 281-duodecies c.p.c.).

Essendo l'atto introduttivo costituito dall'ordinanza del giudice dell'esecuzione notificata a tutti coloro che debbono partecipare al giudizio, è plausibile che vi possa essere un maggiore ricorso alla facoltà, da un lato, di proporre domande ed eccezioni che sono conseguenza della domanda e delle eccezioni proposte dalle altre parti (come prevede il nuovo comma 3 dell'art. 281-duodecies c.p.c.) e, dall'altro lato, di chiedere la concessione di un termine perentorionon superiore a venti giorniper precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni, per indicare mezzi di prova e produrre documenti, nonché un ulteriore terminenon superiore a dieci giorniper replicare e dedurre prova contraria, dal momento che, di fatto, solo dopo il deposito delle comparse di costituzione (che, a termini dell'art. 281-undecies c.p.c., dovrà avvenire non oltre dieci giorni prima dell'udienza) le parti potranno avere contezza delle rispettive allegazioni, deduzioni, eccezioni e domande e saranno, quindi, nella condizione di valutare la necessità di esplicare ulteriori attività difensive.

Per quanto riguarda lo svolgimento del giudizio di divisione endoesecutiva successivamente alla costituzione delle parti e alla regolare instaurazione del contraddittorio processuale, nulla muta sostanzialmente rispetto al passato.

In assenza di contestazioni sul diritto di procedere allo scioglimento della comunione il giudice disporrà la divisione con ordinanza, altrimenti pronuncerà sentenza (art. 785 c.p.c.), provvedendo affinché venga dato corso alla divisione in natura (qualora l'immobile sia comodamente divisibile, mediante attribuzione al debitore di una porzione del bene su cui si concentrerà il pignoramento), all'assegnazione del bene a uno dei comproprietari (dietro pagamento di un conguaglio), alla vendita dell'intero; in quest'ultimo caso, andrà emessa un'ordinanza avente i contenuti previsti dall'art. 569 c.p.c. (come prescrive espressamente l'art. 788 c.p.c.) e le relative operazioni saranno delegate a un professionista ai sensi dell'art. 591-bis c.p.c.

Allo stesso modo, se non sorgono contestazioni sul progetto di distribuzione formato all'esito delle operazioni divisionali, il giudice lo dichiarerà esecutivo con ordinanza, altrimenti provvederà con sentenza (art. 789 c.p.c.).

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