Le preclusioni istruttorie nel processo del lavoro e i poteri officiosi del giudice

28 Febbraio 2025

I mezzi di ricerca della prova sono nella totale disponibilità delle parti o il giudice può intervenire? E, nel caso, il potere di intervento del giudice può supplire a quello delle parti?

Premessa

Il processo del lavoro è, come quello ordinario, governato dal principio della domanda e il thema decidendum e probandum viene “gestito” dalle parti che allegano, nei propri atti difensivi, i fatti che sono ritenuti fondanti le loro pretese o necessari a paralizzare queste ultime.

I mezzi di ricerca della prova sono anch’essi nella totale disponibilità delle parti? O il giudice può intervenire, seppur nel perimetro indicato dalle parti? E nel processo del lavoro il potere di intervento del giudice può supplire a quello delle parti?

In questo contributo si cercherà di dare risposta a questi interrogativi tenendo conto del “punto di vista” (necessario) della Corte di cassazione.

L'indicazione dei mezzi di prova e dei documenti nel ricorso ex art. 414 c.p.c. Le questioni più dibattute nella giurisprudenza di legittimità.

L'art. 414 c.p.c. prevede che; «La domanda si propone con ricorso, il quale deve contenere:

  1. l'indicazione del giudice;
  2. il nome, il cognome, nonché la residenza o il domicilio eletto dal ricorrente nel comune in cui ha sede il giudice adito, il nome, il cognome e la residenza o il domicilio o la dimora del convenuto; se ricorrente o convenuto è una persona giuridica, un'associazione non riconosciuta o un comitato, il ricorso deve indicare la denominazione o ditta nonché la sede del ricorrente o del convenuto;
  3. la determinazione dell'oggetto della domanda;
  4. l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni;
  5. l'indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione.».

Il ricorso introduttivo di un giudizio del lavoro deve contenere non solo l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni, ma anche l'indicazione “specifica” dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e, in particolare, dei documenti che si offrono in comunicazione. L'assenza dell'indicazione dei mezzi di prova nel libello introduttivo fa conseguire la decadenza della loro indicazione successiva che deve ritenersi, quindi, tardiva.

Al riguardo va ricordato che, come ha da tempo affermato la Corte di cassazione (ex plurimisCass. civ., sez. un., 17 giugno 2004, n. 11353), nel rito del lavoro il ricorrente è tenuto ad indicare in ricorso i mezzi di prova, che devono essere specificati così come prescritto dall'art. 414, n. 5 c.p.c. e che la decadenza dalle prove riguarda non solo il convenuto (art. 416, comma 3, c.p.c.), ma anche l'attore (art. 414, n. 5 c.p.c.), dovendo ambedue le parti - in una situazione di istituzionale parità - esternare, sin dall'inizio, tutto ciò che attiene alla loro difesa e specificare il materiale posto a base delle reciproche istanze. Cosa accade se, invece, il ricorrente omette di indicare il nominativo dei testi da ascoltare?

La Cassazione a Sezioni Unite, con la decisione Cass. civ., sez. un., 13 gennaio 1997, n. 262, ha stabilito che «qualora la parte abbia, con l'atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli di prova testimoniale, specificamente indicando di volersi avvalere del relativo mezzo in ordine alle circostanze di fatto ivi allegate, ma omettendo l'enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, tale omissione non determina decadenza dalla relativa istanza istruttoria, ma concreta una mera irregolarità, che abilita il giudice all'esercizio del potere-dovere di cui all'art. 421, comma 1, c.p.c.; con la conseguenza che, in sede di pronuncia dei provvedimenti istruttori di cui all'art. 420 c.p.c., il pretore, ove ritenga l'esperimento del detto mezzo pertinente e rilevante ai fini del decidere, deve indicare alla parte istante la riscontrata irregolarità, che allo stato non consente l'ammissione della prova, assegnandole un termine per porvi rimedio ed applicando, a tal fine, la particolare disciplina dettata dal quinto comma della norma da ultima citata, col corollario della decadenza nella sola ipotesi di mancata ottemperanza allo spirare di questo termine, espressamente dichiarato perentorio dal medesimo comma.».

In definitiva, ciò che conta è che la parte abbia articolato tempestivamente dei capitoli di prova testimoniale mentre l'omessa indicazione dei nominativi dei testi costituisce una mera irregolarità che può essere sanata nel termine perentorio assegnato dal giudice.

Le parti sono tenute ad indicare, a pena di decadenza, e ad offrire in comunicazione i documenti rilevanti per la causa. Sul punto la Cassazione, con la decisione a Sezioni Unite Cass. civ., sez. un., 20 aprile 2005, n. 8202, ha affermato che «l'omessa indicazione, nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione del documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall'evolversi delle vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo)».

La Corte di Cassazione ha dovuto affrontare più volte il tema della produzione in giudizio dell'accordo o contratto collettivo quando la parte chiede, ad esempio, il pagamento di differenze retributive o, comunque, l'applicabilità di un determinato accordo.

Sul punto la Corte di Cassazione, con la decisione Cass. civ., sez. VI, 14 marzo 2017, n. 6610, ha affermato che «nell'ipotesi in cui vi sia eventualmente contestazione soltanto in ordine all'applicabilità di un determinato contratto collettivo, sussiste per il giudice il potere - dovere, ai sensi dell'art. 421 c.p.c., di acquisire d'ufficio il contratto collettivo che si assuma applicato (come nella specie avvenuto sulla base delle stesse deduzioni del datore di lavoro convenuto) - v., tra le altre, Cass. civ., sez. lav., 25 febbraio 2004, n. 3774; Cass. civ., sez. lav., 12 aprile 2000, n. 4714 - essendo, peraltro, tale acquisizione indispensabile ai fini di decidere sul merito della causa».

In altre pronunce della Suprema Corte è stato stabilito che «I mezzi di prova ed i documenti che, a pena di decadenza (Cass. civ., sez. un., 20 aprile 2005, n. 8202), il ricorrente-attore in giudizio deve indicare nel ricorso e depositare insieme ad esso sono quelli aventi ad oggetto i fatti posti a base della domanda. All'art. 414, n. 5 c.p.c. e art. 415 c.p.c., cit. non è invece riconducibile il contratto o accordo collettivo, quando esso debba costituire criterio di giudizio. Anche prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 40/2006 che, modificando nell'art. 2 l'art. 360, n. 3 c.p.c., ha inserito il contratto collettivo nazionale fra le norme di diritto, onerando il ricorrente per Cassazione di depositarne il testo (art. 4, d.lgs. n. 40/2006, convertito in art. 369, comma 1, n. 4, c.p.c.), il codice di rito risolveva il problema della conoscibilità della regola di giudizio affidando al giudice, senza preclusioni, il potere di chiedere alle associazioni sindacali il testo dei contratti o accordi collettivi di lavoro, anche aziendali, da applicare nella causa (art. 425, comma 4, c.p.c.). Questi, dunque, pur se non formalmente inseriti fra le norme di diritto, rimanevano, sul piano dell'acquisizione al processo, distinti dai semplici fatti di causa.» (vedasi, tra le tante, Cass. civ., sez. lav., 17 settembre 2008, n. 23745).

Deve ritenersi, quindi, che, nel rito del lavoro, il ricorrente che invoca l'applicazione delle norme di un contratto collettivo post corporativo è tenuto a produrlo in giudizio, ma l'inosservanza di tale onere probatorio può giustificare il rigetto della domanda soltanto se siano contestati l'esistenza o il contenuto del contratto medesimo, e non già allorché la contestazione si limiti alla sua applicabilità al rapporto dedotto in giudizio; in tale ultima evenienza il giudice può sempre acquisire altrimenti la conoscenza di tale contratto, avvalendosi dei suoi poteri discrezionali in considerazione della disponibilità delle prove in generale attribuitagli nel rito del lavoro dall'art. 421 c.p.c. (cfr, Cass. civ., sez. lav., 10 ottobre 1991, n. 10628); anche successivamente la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di precisare che alla parte che invoca in giudizio l'applicazione di un contratto collettivo post  corporativo incombe l'onere di produrlo, con la conseguenza che, in caso di mancata produzione di esso e di contestazione della controparte in ordine all'esistenza e al contenuto dell'invocato contratto, il giudice deve rigettare la domanda nel merito, trovandosi nell'impossibilità di determinare l'an e il quantum della pretesa fatta valere, nel mentre, qualora la controparte non abbia contestato l'esistenza e il contenuto del contratto invocato, ma si sia limitata a contestarne l'applicabilità, sussiste, per il giudice, il potere - dovere, ai sensi dell'art. 421 c.p.c., di acquisire d'ufficio, attraverso consulenza tecnica, il contratto collettivo di cui l'attore, pur eventualmente non indicando gli estremi, abbia tuttavia fornito idonei elementi di identificazione (cfr, Cass. civ., sez. lav., 12 aprile 2000, n. 4714; Cass. civ., sez. lav., 25 febbraio 2004, n. 3774).

I poteri officiosi del giudice del lavoro.

Occorre premettere che la giurisprudenza della Suprema Corte, successivamente alla costituzionalizzazione del principio del giusto processo (avvenuta con l. cost. n. 2/1999), ha collegato a tale principio anche la disciplina dell'esercizio dei poteri d'ufficio del giudice di cui agli artt. 421 e 437 c.p.c., ossia che:

  1. nel rito del lavoro, ai sensi di quanto disposto dagli artt. 421 e 437 c.p.c., l'esercizio del potere d'ufficio del giudice, pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa, non è meramente discrezionale, ma si presenta come un potere-dovere, sicché il giudice del lavoro non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio fondata sull'onere della prova, avendo l'obbligo - in ossequio a quanto prescritto dall'art. 134 c.p.c.. e al disposto di cui all'art. 111, comma 1 Cost., sul «giusto processo regolato dalla legge» - di esplicitare le ragioni per le quali reputi di far ricorso all'uso dei poteri istruttori o, nonostante, la specifica richiesta di una delle parti, ritenga, invece, di non farvi ricorso (vedi, per tutte: Cass. civ., sez. un., 17 giugno 2004, n. 11353);
  2. nel rito del lavoro il giudice, ove si verta in situazione di semiplena probatio, ha il potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti, dovendo, quindi, motivare sulla mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi là dove sollecitato dalla parte ad integrare la lacuna istruttoria (Cass. civ., sez. lav., 10 dicembre 2008, n. 29006);
  3. nel rito del lavoro, il verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti non osta all'ammissione d'ufficio delle prove, trattandosi di potere diretto a vincere i dubbi residuati dalle risultanze istruttorie, ritualmente acquisite agli atti del giudizio di primo grado. Ne consegue che, essendo la "prova nuova" disposta d'ufficio funzionale al solo indispensabile approfondimento degli elementi già obiettivamente presenti nel processo, non si pone una questione di preclusione o decadenza processale a carico della parte (Cass. civ., sez. lav., 5 dicembre 2012, n. 18924).

E' pacifico che l'individuazione dell'esistenza di quella zona grigia tra prova mancata e prova fornita in modo completo, integrante una situazione di cosiddetta semiplena probatio, sia rimessa al prudente e discrezionale apprezzamento del giudice di merito e sia sindacabile in sede di legittimità solo sotto il profilo dell'adeguatezza e logicità della motivazione che lo sorregge (vedi, per tutte: Cass. civ., sez. III, 11 giugno 1999, n. 5752).

L'apprezzamento della semiplena probatio deve tener conto della necessità di assicurare un'effettiva tutela del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost., nell'ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all'art. 111, comma 2 Cost., letti in coerenza con l'art. 6, CEDU - secondo il costante insegnamento della Corte costituzionale (vedi, per tutte: Corte cost., 23 luglio 2010, n. 281) - determina l'attribuzione di una maggiore rilevanza allo scopo stesso del processo - rappresentato dalla tendenziale finalizzazione ad una decisione di merito (Cass. civ., sez. un., 11 luglio 2011, n. 17144; Cass. civ., sez. lav., 17 maggio 2012, n. 7755) che non solo impone di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte o che risultino ispirate ad un eccessivo formalismo tale da ostacolare il raggiungimento del suddetto scopo (Cass. civ., sez. III, 11 febbraio 2009, n. 3362; Cass. civ., sez. III, 9 aprile 2004, n. 10963), ma porta anche a considerare del tutto residuale l'ipotesi di «assoluta mancanza di prove», specialmente nel rito del lavoro.

Ciò in considerazione non solo dell'accresciuta rilevanza del principio di acquisizione probatoria, ma specialmente - con riferimento al rito del lavoro - alla rilevanza da attribuire all'esercizio dei poteri d'ufficio del giudice di cui agli artt. 421 e 437 c.p.c., il quale rappresenta una tipica manifestazione del contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale, che caratterizza il suddetto rito (vedasi anche Cass. civ., sez. lav., 24 ottobre 2007, n. 22305).

Ne consegue che, dovendo i principi generali sul riparto dell'onere probatorio (di cui all'art. 2697 c.c.) essere, in ogni caso, coordinati anche con tale aumentata rilevanza dell'esercizio dei poteri officiosi in argomento, ciò si traduce in una maggiore pregnanza del dovere del giudice di pronunciare nel merito della causa sulla base del materiale probatorio ritualmente acquisito con una valutazione non limitata all'esame isolato dei singoli elementi, ma globale nel quadro di una indagine unitaria ed organica che può essere oggetto di vaglio, in sede di legittimità, di regola per vizi di motivazione e, ricorrendone gli estremi, anche per scorretta applicazione delle norme riguardanti l'acquisizione della prova (Cass. civ., sez. III, 26 aprile 2010, n. 9917; Cass. civ., sez. lav., 25 febbraio 2011, n. 4652).

Conclusioni.

La peculiarità del processo del lavoro impone un necessario contemperamento tra il principio della domanda e della disponibilità della prova con quello di garantire un processo del lavoro che sia tendenzialmente destinato a chiudersi con una decisione di merito e, quindi, con la necessità che si addivenga, ove possibile, alla verità materiale e non soltanto processuale.

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