Circonvenzione di incapace nel rapporto tra avvocato e cliente
10 Marzo 2025
Massima La sottoscrizione di un "patto di quota lite" con compenso sproporzionato per eccesso rispetto ai valori tariffari di riferimento integra l'atto ad effetto dannoso del delitto di cui all'art. 643 c.p., in quanto il divieto di tale accordo tra avvocato e cliente, oltre a preservare la dignità della professione forense, mira a tutelare l'interesse di quest'ultimo all'interno di un peculiare rapporto di opera intellettuale. Il caso La vicenda traeva origine dalla sottoscrizione di un patto di quota lite in forza del quale il professionista avrebbe percepito un compenso pari al 15% dell'importo eventualmente liquidato a titolo di risarcimento del danno, poi concretizzatosi in € 167.500,00. Tale pattuizione si poneva in aperto contrasto con i principi sanciti all'interno del Codice deontologico forense (di seguito, CDF) e, soprattutto, appariva sproporzionata rispetto ai parametri tariffari, tenuto conto del valore e della complessità della lite. Per tali condotte veniva contestato all'avvocato il delitto di circonvenzione di persone incapaci di cui all'art. 643 c.p., per aver sfruttato la condizione di vulnerabilità psicologica del cliente attraverso condotte di pressione, convincendolo così a riconoscere un compenso del tutto sproporzionato rispetto all'attività professionale da svolgersi. In primo grado, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano condannava l'imputato ritenendo configurata la suddetta fattispecie aggravata dall'abuso di prestazione d'opera e dall'ingente danno patrimoniale subito dalla persona offesa. La Corte d'appello di Milano riformava parzialmente la pronuncia, limitandosi a riconoscere il beneficio della non menzione della condanna in ragione della condizione di incensuratezza dell'imputato. Avverso tale decisione veniva proposto ricorso per cassazione lamentando la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine all'art. 643 c.p., all'ingiustizia del profitto conseguito, nonché in relazione alla riconoscibilità dello stato di deficienza psichica e all'elemento soggettivo del reato ascritto. La questione Il ricorrente censurava in primo luogo il travisamento della prova in merito al riconosciuto abuso dello stato di incapacità, in ragione dell'assenza della componente rappresentata dall'induzione alla sottoscrizione dell'accordo. Ciò in quanto - secondo la difesa - la Corte d'appello avrebbe fondato la propria decisione sull'erroneo presupposto di uno squilibrio contrattuale dettato dalla sola qualifica professionale dell'imputato e in assenza di condotte concretamente manipolative. Il secondo motivo concerneva il profilo dell'ingiustizia del profitto. Invero, secondo il ricorrente, la maggiorazione del compenso a titolo di palmario era da ritenersi coerente con i dettami affermati dal CDF, in considerazione della natura di quota “aggiuntiva” del palmario rispetto al compenso che, al contrario, era stato predeterminato in misura certa. Infine, veniva censurata la decisione della Corte d'appello nella parte in cui riconosceva la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato in capo all'imputato. In tal senso, nei motivi di ricorso si sosteneva che il professionista avrebbe acquisito contezza delle effettive condizioni psicologiche della persona offesa solamente da circostanze sopravvenute alla sottoscrizione dell'accordo. Le soluzioni giuridiche Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché fondato sugli stessi motivi sviluppati nell'atto di appello, senza un effettivo confronto con la motivazione della sentenza impugnata. A fronte di una “doppia conforme”, la Corte ha avuto modo di consolidare il principio per cui il giudice di appello non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni avanzate dalle parti, essendo sufficiente una valutazione globale dalla quale si desuma l'attenzione riposta dal giudicante nelle risultanze processuali decisive (Cass. pen., sez. II, 18 settembre 2019, n. 46261, Rv. 277593). Nondimeno la sentenza approfondisce i caratteri essenziali del delitto di circonvenzione di persone incapaci, delineandone i profili più significativi alla luce del caso concreto. In particolare, la S.C. ribadisce come la sussistenza del delitto dipenda dalla combinazione di tre elementi fondamentali: la condizione di vulnerabilità del soggetto passivo, la condotta induttiva dell'agente e l'effetto pregiudizievole dell'atto compiuto. La condizione di fragilità della persona offesa, che può consistere in una minorata capacità di autodeterminazione di carattere permanente o temporaneo, è stata valutata nel caso di specie attraverso elementi concreti, quali le condizioni psicologiche della vittima e la difficoltà nella gestione consapevole delle proprie scelte patrimoniali. Accanto a ciò, la Corte ha altresì evidenziato che l'induzione al compimento dell'atto pregiudizievole non richiede necessariamente l'uso di artifici o raggiri, ma si può configurare anche attraverso una pressione morale o psicologica che condizioni la volontà del soggetto passivo. È stato sottolineato, in questo senso, come il professionista abbia progressivamente condotto il proprio assistito alla pattuizione di un compenso sproporzionato rispetto all'attività professionale da svolgersi, facendo leva sulla vulnerabilità della persona offesa che – di fatto – impediva alla stessa di comprendere l'effettiva portata economica dell'accordo. Emblematica è la circostanza, attentamente valutata dalla Corte d'appello e ribadita in sede di legittimità, secondo cui il legale avrebbe indotto il cliente a conferirgli una procura speciale per la ricezione delle somme liquidate a titolo di risarcimento. Tale elemento, in combinazione con la sproporzione evidente del compenso pattuito, ha costituito un indizio significativo della finalità decettiva perseguita dall'imputato a discapito del proprio assistito. Analizzando il complesso delle azioni compiute dall'imputato, la Corte d'appello ha applicato un principio di diritto recentemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità: per valutare l'esistenza dell'elemento induttivo nel reato di circonvenzione di incapace, non si considerano unicamente i comportamenti posti in essere contestualmente al compimento dell'atto pregiudizievole, ma è necessario esaminare anche le circostanze successive, che possono rivelarsi un riflesso di un precedente sfruttamento dello stato di vulnerabilità della vittima (Cass. pen., sez. II, 14 giugno 2024, n. 32547, Rv. 286886 ). Dopo aver riportato gli elementi sottesi alla consapevolezza da parte dell'imputato delle condizioni di degrado cognitivo della persona offesa (circostanza desumibile dagli incontri che avvenivano presso il proprio studio e dalla conoscenza delle lesioni riportate a causa del sinistro per cui è stato conferito mandato) e alle relative condotte di sfruttamento, i giudici di legittimità hanno poi valorizzato la stipula del patto di quota lite ai fini della configurazione dell'atto giuridico dannoso richiesto dalla fattispecie di cui all'art. 643 c.p. La pattuizione del compenso, secondo la Corte, essendo diretta conseguenza della pressione esercitata dal professionista sul cliente e della incapacità di quest'ultimo di comprendere il contenuto dell'accordo, presentava una evidente natura illecita. Illiceità dettata anche dalla struttura stessa del patto che, oltre a presentare un profilo di imprevedibilità nella quantificazione, appariva sproporzionato rispetto al tariffario professionale tenuto conto del valore della controversia e, soprattutto, considerando l'avvenuta corresponsione del compenso al ricorrente da parte della compagnia assicurativa del soggetto responsabile delle gravi lesioni cagionate alla persona offesa. Entrando nel merito del patto di quota lite, peraltro, la Corte ha ribadito che il divieto di tale accordo, sancito all'interno del CDF, trova il suo fondamento proprio nell'esigenza di tutelare sia l'interesse del cliente che la dignità della professione forense, precludendo la possibilità per il professionista di partecipare agli interessi economici finali ed esterni alla sua prestazione. La ratio risiede infatti nel ridimensionamento della commistione di interessi tra cliente e avvocato, per cui si ritiene violato il relativo divieto non soltanto nell'ipotesi in cui il compenso sia commisurato a una parte dei beni o crediti oggetto di controversia, ma anche in caso di compenso correlato al risultato pratico dell'attività svolta. Una simile pattuizione si scontra anche con la prescrizione dell'art. 45 CDF che, per come intesa dalle Sezioni Unite, mira a prevenire il rischio di abusi commessi a danno del cliente attraverso la conclusione di accordi presentanti una netta sproporzione tra compenso professionale e attività profusa nell'espletamento dell'incarico. La giurisprudenza di legittimità, d'altra parte, non preclude la possibilità di pattuire tariffe speculative nel rapporto con il cliente purché il compenso supplementare – c.d. “palmario” – sia oggetto di accordo e, dunque, attribuito in piena coscienza all'avvocato in caso di esito favorevole della lite, in ragione dell'importanza e della difficoltà della prestazione professionale. Osservazioni La sentenza in commento si inserisce nel solco della giurisprudenza di legittimità che individua l'approfittamento dello stato di deficienza psichica della vittima, rilevante a norma dell'art. 643 c.p., anche nella stipula di un contratto a prestazioni corrispettive, qualora vi sia uno squilibrio evidente tra le obbligazioni assunte dalle parti con un concreto pregiudizio per il soggetto vulnerabile. Nel caso di specie, tale squilibrio coincideva con la violazione del divieto del patto di quota lite, riconosciuto all'interno del CDF come presidio di garanzia della posizione economica del cliente. Simili pattuizioni possono infatti assumere rilievo deontologico in relazione ai principi di correttezza professionale, tra cui il dovere di lealtà e probità (art. 9 CDF), al divieto di concordare compensi legati all'esito della lite (art. 25, comma 2, CDF) e all'obbligo di evitare richieste economiche sproporzionate rispetto all'attività svolta (art. 29, comma 4, CDF). Oltre alla dimensione deontologica, la pronuncia evidenzia anche le possibili implicazioni penalistiche del patto di quota lite. Infatti, quest'ultimo, se caratterizzato da una sproporzione tra il compenso richiesto e l'attività svolta e, soprattutto, se stipulato con un soggetto in condizione di vulnerabilità psichica, può rappresentare un elemento determinante nella configurabilità del reato di circonvenzione di incapace, essendo considerato a tutti gli effetti un atto giuridico dannoso nei termini dettati dalla fattispecie delittuosa. |