Crisi d'impresa
IlFallimentarista

Il silenzio del collegio sindacale non è garanzia di liceità delle scelte dell’amministratore

Ciro Santoriello
31 Marzo 2025

Secondo la Corte, la cessione di un ramo di azienda senza corrispettivo o con corrispettivo inferiore al valore reale integra il reato di bancarotta fraudolenza patrimoniale, non assumendo alcun rilievo, in senso contrario, la circostanza che il collegio sindacale non abbia formulato alcuna riserva sulla conclusione di tale accordo.

Massima

Integra il reato di bancarotta fraudolenza patrimoniale la cessione di un ramo di azienda senza corrispettivo o con corrispettivo inferiore al valore reale, senza che assuma rilievo, in senso contrario, la circostanza che il collegio sindacale non abbia formulato alcuna riserva sulla conclusione di tale accordo

Il caso

In sede di merito, le amministratici di due società (che per comodità si indicheranno come società X e società Y), una delle quali, la società X, fallita, erano dichiarate responsabili per concorso nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione.

In particolare, l’amministratrice della società X, fallita per prima, procedeva alla cessione di un ramo di azienda in favore della società Y, di cui era amministratrice l’altra imputata, sorella della prima, cessione avente ad oggetto tutti i beni di X, ivi compresi l'avviamento, i macchinari, e un fabbricato per il cui acquisto era stato stipulato un mutuo di 550.000 euro, garantito da ipoteca per un valore di 1.100.000 euro, con un importo ancora da ammortizzare pari a 343.291,74 euro. Il prezzo della cessione era stato pattuito in complessivi 50.000 euro, di cui 20.000 per l'avviamento e 15.000 per il fabbricato; era stato inoltre convenuto che la società Y subentrava in un contratto di fornitura stipulato con lo Stato maggiore dell'Esercito, mentre a carico di  X rimanevano gli ulteriori rapporti, nonché i debiti e i crediti.

In sede di ricorso per cassazione, per quanto di interesse in questa sede, si contestava l’attribuzione di una rilevanza penale alla cessione di azienda, alla luce del prezzo irrisorio concordato. Secondo il ricorso, infatti, i giudici del merito sarebbero incorsi in un errore di diritto, in quanto avrebbero legato il valore della cessione al valore del capitale sociale della società cedente, in tal modo confondendo detto capitale - il quale rimane immutato nel corso della vita della società, salvo aumenti o diminuzioni effettuate con modifica dell'atto costitutivo - con il patrimonio sociale, cioè l'insieme dei rapporti attivi e passivi della società, che può variare nel corso della vita della società in relazione alle vicende economiche della stessa. Ad avviso della difesa, sarebbe stato necessario non già accertare quanto valesse l'immobile sul quale gravava un mutuo ipotecario, ma il valore delle quote sociali, in relazione ai rapporti attivi e passivi facenti capo alla società in quel momento. A conferma di ciò si sottolineava nel gravame come in proposito nulla fosse emerso dalla relazione del curatore fallimentare, né dalla perizia di stima redatta dalla società acquirente e avallata dal collegio sindacale della fallita.

A questo proposito, le difese hanno insistito sulla circostanza che il collegio sindacale, cui compete il controllo e la vigilanza della società, ed è solidalmente responsabile con gli amministratori dei fatti e delle omissioni di costoro, non aveva effettuato alcun rilievo con riguardo alla cessione, il che avrebbe attestato la correttezza della vicenda.

Inoltre, veniva censurata l’affermazione di giudici di merito secondo cui la cessione del ramo d'azienda era giustificata unicamente dalla volontà di evitare che i creditori della società X aggredissero il bene immobile che aveva senz'altro un valore superiore a quello per il quale era stato erogato il mutuo. La Corte non avrebbe considerato che detto immobile era gravato da un mutuo ipotecario e che, in caso di inadempimento, il bene sarebbe rientrato nella proprietà dell'ente erogatore del prestito.

La questione

È noto come da tempo la giurisprudenza di legittimità ritiene integrare il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale la cessione di un ramo di azienda senza corrispettivo o con corrispettivo inferiore al valore reale, senza che assuma rilievo, in senso contrario, il dettato dell'art. 2560, comma 2, cod. civ. in ordine alla responsabilità dell'acquirente rispetto ai pregressi debiti dell'azienda, costituendo tale garanzia un post factum della già consumata distrazione (Cass., sez. V, 14 maggio 2018, n. 34464). In tale circostanza si ritiene essere in presenza di una distrazione: una tale conclusione è coerente con la tesi secondo cui l’evento di estromissione del bene non necessariamente deve tradursi in evento fisico, potendo essere anche soltanto negoziale, anche quando l'operazione negoziale sia effettiva ma abbia comunque carattere pregiudizievole per i creditori - si pensi ad una cessione ad un prezzo inferiore considerevolmente a quello di mercato o ad un soggetto che si sa non sarà in grado di versare il corrispettivo (Cass., sez. V, 27 ottobre 2017, n. 49504).

Per tali ragioni, ogni operazione straordinaria, come per l’appunto la cessione di un ramo di azienda, può assumere rilevanza penale (Cass., sez. V, 16 ottobre 2024, n. 37959; Cass. pen., sez. V, 7 ottobre 2020, n. 27930). E’ stata quindi ritenuta depauperativa l'operazione di scissione di una società, successivamente dichiarata fallita, effettuata a favore di altra società alla quale siano conferiti beni di rilevante valore, qualora tale operazione - astrattamente lecita - sulla base di una valutazione in concreto che tenga conto della effettiva situazione debitoria in cui operi la società poi fallita al momento della scissione, nonché di ulteriori operazioni poste in essere a danno della società poi fallita, si riveli volutamente depauperatoria del patrimonio aziendale e pregiudizievole per i creditori nella prospettiva della procedura concorsuale, non essendo le tutele previste dagli artt. 2506 e seg. c.c. di per sé idonee ad escludere ogni danno o pericolo per le ragioni creditorie; infatti, se è vero che ai creditori sociali è riconosciuto il diritto di rivalersi sui beni conferiti alle società beneficiarie, che rimangono obbligate per i relativi debiti, è vero altresì che un pregiudizio per gli stessi è comunque ravvisabile nella necessità di ricercare detti beni e che, soprattutto, all'esito di tale ricerca i creditori potranno trovarsi nella condizione di dover concorrere con i portatori di crediti nel frattempo maturatisi nei confronti delle società beneficiarie, con la concreta possibilità che tanto riduca le possibilità di un effettivo soddisfacimento delle loro pretese (Cass. pen., sez. V, 30 aprile 2015, n. 18208).

Con riferimento alle ipotesi di cessione di azienda, di frequente si sottolinea come la sussistenza del delitto in parola richieda che la stessa sia avvenuta a fronte di un corrispettivo economico inadeguato, o che il corrispettivo non sia stato versato, o che sia stato corrisposto con una compensazione (totale o parziale) con debiti della società artatamente costruiti, mentre se, a fronte della cessione dell'azienda, alla fallita è stato concretamente versato il giusto corrispettivo, è evidente che non si può ritenere che tale atto l'abbia economicamente depauperata, sostituendosi le somme di denaro ricevute al complesso di beni ceduto (Cass. pen., sez. V, 12 luglio 2018, n. 32049).

Ad analoghe conclusioni si è giunti con riferimento all'affitto di azienda privo di effettiva contropartita e preordinato ad avvantaggiare i soci a scapito dei creditori (Cass. pen., sez. V, 22 dicembre 2022, n. 48872) o per il contratto di locazione di beni aziendali perfezionato nella immediatezza della dichiarazione di fallimento senza la previsione di una clausola risolutiva espressa da fare valere nel caso di imminente instaurarsi della procedura fallimentare (Cass. pen., sez. V, 30 settembre 2022, n. 37062, che richiama anche l’ipotesi in cui la stipula avvenga al preciso scopo di trasferire la disponibilità dei beni societari ad altro soggetto giuridico in previsione del fallimento). 

La decisione della Cassazione

Il ricorso è stato dichiarato infondato.

Secondo la Cassazione, la decisione dei giudici di merito era pienamente condivisibile giacché, pur riconoscendo che la conclusione di un negozio di cessione di azienda non presenta di per sé profili di illiceità ed anzi rientra nelle fisiologiche ed ordinarie opzioni che un imprenditore può adottare nella sua attività, nel caso di specie erano rinvenibili molteplici profili che sottolineavano come la predetta cessione fosse finalizzata a depredare l'impresa poi fallita.

In particolare, in tal senso deponevano la mancanza di valide ragioni economico-imprenditoriali a giustificazione della cessione, il mancato rinvenimento del corrispettivo pattuito e comunque della sua destinazione, il trasferimento del capitale sociale della fallita ad una società estera dopo appena due giorni, la mancanza di alcuna posta attiva residua, l'irrisorietà del prezzo convenuto per la cessione del ramo d'azienda, desunta dalla circostanza che il capitale sociale della società fallita X era pari a 1.000.000 euro proprio grazie alla rivalutazione degli immobili di sua proprietà, tra i quali evidentemente era compreso il fabbricato per il cui acquisto era stato contratto un mutuo pari a 550.000 euro, parzialmente estinto (residuando la somma di 343.291,74 euro), assistito da ipoteca iscritta per il valore di 1.100.000 euro, elementi questi che attestavano l'effettivo valore dell'immobile. Per tali ragioni non condivisibili sono state considerate le affermazioni della difesa secondo cui la sentenza impugnata avrebbe operato un inappropriato e sostanzialmente irrilevante raffronto tra il patrimonio sociale della cedente e della cessionaria del ramo di azienda, essendosi piuttosto evidenziato l'incidenza dell'effettivo valore del bene in relazione al capitale sociale per desumerne, insieme con gli ulteriori elementi indicati, l'irrisorietà del prezzo convenuto per la cessione del ramo d'azienda.

Inoltre, i giudici di merito avevano ritenuto integrata la fattispecie della bancarotta per distrazione in ragione della mancata dimostrazione della destinazione del corrispettivo convenuto, il cui pagamento la difesa aveva documentato. In tal modo, hanno fatto puntuale applicazione dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta, la prova della distrazione può essere desunta dalla mancata dimostrazione, da parte dell'amministratore, della destinazione al soddisfacimento delle esigenze della società dei beni risultanti dagli ultimi documenti attendibili (Cass., sez. V, 17 gennaio 2020, n. 17228), e, più in generale dalla mancata dimostrazione della destinazione dei beni suddetti. In proposito si ricorda che la responsabilità dell'imprenditore per la conservazione della garanzia patrimoniale verso i creditori e l'obbligo di verità, penalmente sanzionato, gravante sul fallito interpellato dal curatore circa la destinazione dei beni dell'impresa, giustificano l'apparente inversione dell'onere della prova a carico dell'amministratore della società fallita, in caso di mancato rinvenimento di beni aziendali o del loro ricavato, non essendo a tal fine sufficiente la generica asserzione per cui gli stessi sarebbero stati assorbiti dai costi gestionali, ove non documentati né precisati nel loro dettagliato ammontare.

Nel caso di specie, l'amministratrice della società fallita non si era mai sottoposta ad esame, né aveva prodotto alcuna documentazione in ordine alla destinazione delle somme percepite a seguito della cessione del ramo d'azienda, essendo generica e non supportata da nessun elemento l'affermazione in ordine alla utilizzazione di tali somme per il pagamento dei creditori privilegiati della fallita. Ovviamente, a nulla rilevava la, ritenuta dalla difesa, insussistenza di un nesso di causalità tra le condotte delle ricorrenti e la causazione del fallimento, posto che è ormai pacifico che, ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, non è necessaria l'esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, essendo sufficiente che l'agente abbia cagionato il depauperamento dell'impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività, sicché, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, i fatti di distrazione assumono rilievo in qualsiasi momento siano stati commessi e, quindi, anche se la condotta si è realizzata quando ancora l'impresa non versava in condizioni di insolvenza (Cass., sez. un., 31 marzo 2016, n. 22474). D'altronde, avendo il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale natura di reato di pericolo concreto, rileva ai fini della sua sussistenza ogni condotta concretamente idonea a pregiudicare la garanzia dei creditori (Cass., sez. V, 14 settembre 2017, n. 50081), purché si riscontri un depauperamento dell'impresa e un effettivo pericolo per la conservazione dell'integrità del patrimonio della stessa da valutare nella prospettiva dell'esito concorsuale e sulla base dell'idoneità del fatto distrattivo ad incidere sulla garanzia dei creditori alla luce delle specifiche condizioni dell'impresa, e altresì che tale effettivo pericolo non sia stato neutralizzato da una successiva attività "riparatoria" di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell'impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento (Cass., sez. V,  23 giugno 2017, n. 38396).

Nel caso di cui alla sentenza in commento, il depauperamento della società fallita derivava dalla cessione del ramo d'azienda, con la quale la società si è privata di tutti i beni, divenendo sostanzialmente una "scatola vuota". Il carattere fraudolento di tale operazione è stato rinvenuto nella concatenazione delle operazioni poste in essere dalla fallita, la quale, due giorni dopo aver ceduto macchinari e immobili, ha alienato il capitale sociale ad una società straniera, in assenza di alcuna giustificazione.

Nessun valore, in senso contrario, può essere riconosciuto alla circostanza che tali operazioni fossero state avallate dal collegio sindacale. Secondo la Cassazione, se è vero che i componenti del collegio sindacale sono titolari di una posizione di garanzia, nello svolgimento dei poteri di controllo e vigilanza sull'osservanza della legge e dello statuto da parte degli amministratori, sull'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato e sull'andamento generale dell'attività sociale, non solo rispetto ad ogni illecito idoneo a depauperare il patrimonio della società, ma anche a tutte le condotte di reato, inerenti all'oggetto sociale, suscettibili di determinare un indebito arricchimento dell'ente (Cass., sez. V, 3 novembre 2020, n. 13382), tuttavia, la mancanza di rilievi da parte di detto collegio non consente di per sé sola di desumere la liceità di un'operazione posta in essere dalla società.

Considerazioni conclusive

La sentenza della Cassazione in commento affronta un tema, quello della possibile rilevanza penale di operazioni di cessione finalizzate a depauperare il patrimonio di società poi fallite, su cui, come si è visto sopra, la giurisprudenza ha ormai acquisito una posizione consolidata.

Tuttavia, il tema in discorso può essere affrontato in un'ottica più generale ovvero su quali basi riconoscere la rilevanza penale di scelte imprenditoriali in sé – ovvero considerate sotto il solo profilo della loro materialità - prive di connotazioni di illiceità. Assai di frequente, infatti, la qualifica di distrazione, con conseguente sussistenza del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, viene attribuita a condotte ed opzioni dell'imprenditore che, di regola, sono assolutamente lecite ed anzi rientrano pacificamente nello spettro di scelte che i vertici di un'azienda possono senz'altro porre in essere: si pensi, per l'appunto, alla scelta di ristrutturare l'azienda mediante la cessione di rami della stessa o a una scissione della medesima, decisioni che, isolatamente considerate, non presentano alcun profilo di rilevanza penale.

In tali circostanze, secondo la giurisprudenza, l'accertamento dell'elemento oggettivo della concreta pericolosità del fatto distrattivo e del dolo generico deve valorizzare la ricerca di "indici di fraudolenza",  specie laddove vi sia un significativo distacco temporale fra comportamento delittuoso e dichiarazione di fallimento (Cass., sez. V, 29 ottobre 2024, n. 39730), accertamento che invece non è necessario in caso di sistematica distrazione dei beni annotati in bilancio e non rinvenuti, ovvero del corrispettivo derivante dalla alienazione, trattandosi di condotta del tutto idonea, secondo massime di consolidata esperienza commerciale, a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell'integrità del patrimonio dell'impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei creditori, e, dall'altro, all'accertamento in capo all'agente della consapevolezza e volontà della condotta in concreto pericolosa (Cass., sez. V, 20 febbraio 2023, n. 7222). Tali indici sono rinvenibili, ad esempio, nella disamina della condotta alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria dell'azienda, nel contesto in cui l'impresa ha operato, avuto riguardo a cointeressenze dell'amministratore rispetto ad altre imprese coinvolte, nella irriducibile estraneità del fatto generatore dello squilibrio tra attività e passività rispetto a canoni di ragionevolezza imprenditoriale, necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell'integrità del patrimonio dell'impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei creditori, e, dall'altro, all'accertamento in capo all'agente della consapevolezza e volontà della condotta in concreto pericolosa (Cass. pen., sez. V, 31 maggio 2024, n. 21860. In dottrina, Fassi, La valutazione della natura e degli elementi costitutivi della bancarotta fraudolenta patrimoniale e la ricerca degli "indici di fraudolenza" della condotta nel caso concreto, in Cass. Pen., 2017, 4330; Brembati, La bancarotta fraudolenta patrimoniale tra principi costituzionali e “indici di fraudolenza”, in Le Società, 2018, 641).

Nel caso deciso dalla pronuncia in commento, tali indici di fraudolenza sono stati rinvenuti nelle circostanze che si sono menzionate in precedenza ed è proprio in ragione del fatto che i giudici abbiano ritenuto la rilevanza penale della condotta di cessione (anche e soprattutto) sulla base di quanto si è verificato dopo la conclusione del relativo negozio giuridico che è da ritenersi irrilevante la circostanza che sulla cessione il collegio sindacale non avesse formulato alcuna osservazione. Come già detto, la scelta di procedere alla cessione dell'azienda non presenta mai, di per sé, profili censurabili salvo la ricorrenza di particolari circostanze e scelte dell'imprenditore che quando – come nel caso di specie – sono successive alla conclusione del negozio giuridico non possono essere tenute in considerazione dal collegio sindacale quando va a valutare la ragionevolezza dell'operazione di scissione.

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