Il mancato reperimento, dopo la dichiarazione di fallimento, di beni del debitore fallito che prima risultavano nella sua disponibilità pone il problema di individuare i criteri sulla cui base dedurre se egli abbia o meno posto in essere il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione.
La bancarotta fraudolenta per distrazione (art. 216 l.fall.) è qualificata dalla violazione del vincolo legale che, ex art. 2740 c.c., limita la libertà dell'imprenditore di disporre dei suoi beni per fini diversi da quelli propri dell'azienda, sottraendoli ai creditori.
Con specifico riferimento alle tecniche di accertamento di tale delitto, possono distinguersi due situazioni: una prima, in cui vi sia prova certa e “diretta” della sottrazione del bene individuato; una seconda, in cui l'assenza di una prova “diretta” della sottrazione è affiancata dalla prova dell'esistenza di un ammanco, il cosiddetto ingiustificato “disavanzo”.
La seconda situazione, peraltro la più ricorrente nella pratica, merita alcune riflessioni, trattandosi di accertamento indotto da un indizio.
A tal proposito la giurisprudenza è ferma nel sostenere che il solo divario tra attivo e passivo costituisce elemento di sospetto che non autorizza il giudice ad affermare la responsabilità dell'imputato, in assenza di altri elementi di prova concordanti. Diversamente opinando, infatti, tale reato sarebbe ravvisabile in ogni ipotesi di fallimento (Cass. Pen. 42382/2004).
Dopo aver chiarito che la semplice destinazione ignota di alcuni cespiti non è sufficiente ad affermare la responsabilità in sede penale, la giurisprudenza ha specificato quando, al contrario, il Giudice può ritenere accertata la condotta in discussione. Svariate pronunce della Cassazione (ex plurimis Cass. Pen. 39942/2008) affermano, infatti, che la distrazione deve essere identificata nella sottrazione di beni specifici e che l'eccedenza passiva deve essere conseguenza del venir meno di determinati beni, dei quali sia nota l'esistenza in un momento precedente alla formazione del deficit. In altre parole, quando sia provato che l'imprenditore ha avuto a disposizione determinati beni, ove non abbia saputo render conto del loro mancato reperimento o non abbia saputo giustificarne la destinazione per le effettive necessità dell'impresa, si deve dedurre che li ha dolosamente distratti, posto che il fallito ha l'obbligo giuridico di fornire la dimostrazione della destinazione data ai beni acquisiti al suo patrimonio, con la conseguenza che dalla mancata dimostrazione può essere legittimamente desunta la prova della distrazione o dell'occultamento.
Tale conclusione va coordinata con un altro fondamentale concetto: l'accertamento della previa disponibilità, da parte dell'imputato, dei beni non rinvenuti in seno all'impresa non deve essere condizionato dalla presunzione di attendibilità del corredo documentale dell'impresa, che non obbedisce, per quel che concerne il delitto di bancarotta per distrazione, alla qualificazione in termini di prova ex art. 2710 c.c. Ai sensi dell'art. 192 c.p.p., infatti, la risultanza deve essere valutata con ricerca della relativa intrinseca attendibilità, secondo i consueti parametri di scrutinio, di cui deve essere fornita motivazione (Cass. Pen. 7588/2011).
A cura di Jessica Bertolina