È di generale evidenza l'insuccesso del concordato fallimentare riformato nei procedimenti fallimentari di cd. nuovo rito. Varie sono le possibili cause e tra queste, forse, anche il diverso ruolo che può assumere il fallito per trasformare le proposte “ostili” dei terzi in proposte “di collaborazione”.
Nell'ambito di un Seminario recentemente tenutosi a Capri - su iniziativa dell'Istituto dei Curatori Fallimentari - una specifica sessione di lavoro è stata dedicata al tema riguardante l'oggettivo insuccesso registrato, almeno sino ad oggi, nell'applicazione del concordato fallimentare (riformato) al “nuovo” fallimento: l'utilizzo dell'attributo “nuovo” è importante perché, com'è ben noto all'esperienza dei tribunali di grandi dimensioni (o forse meglio dei fallimenti con rilevanti attivi), il concordato fallimentare riformato ha invece dato grande prova di sé con riguardo ai fallimenti assoggettati al vecchio regime, in particolare ove muniti di un rilevante attivo proveniente da revocatorie fallimentari (ed in ispecie bancarie).
Una prima, forse banale, risposta al perché di questo insuccesso può forse essere rinvenuta proprio nella sostanziale “scomparsa” (o, comunque, nell'obiettiva ininfluenza) della revocatoria fallimentare nei nuovi fallimenti, che evidentemente fa perdere consistenza – e dunque appetibilità – alla prospettiva di acquisirne l'attivo.
Una seconda ragione parrebbe potersi individuare nell'evidente, sempre più incisivo, favore legislativo verso soluzioni della crisi preventive rispetto alla dichiarazione di fallimento: ciò ha prodotto come conseguenza l'assoggettamento a fallimento, pressoché esclusivamente, di imprenditori che al momento della dichiarazione non hanno ormai più alcun attivo da valorizzare, perché, se l'avessero avuto, esso sarebbe stato sfruttato per una soluzione alternativa/preventiva.
Resta però il fatto che il legislatore del 2006 aveva previsto un ben diverso futuro per il concordato fallimentare, tanto da aver dedicato ad esso una disciplina significativamente rinnovata e costruita in forma “parallela” a quella del concordato preventivo, certamente l'istituto di maggior successo applicativo.
Nel corso dei lavori surrichiamati è stato ipotizzato che, probabilmente, gli imprenditori in crisi ed i professionisti che li assistono non siano riusciti a valorizzare adeguatamente i vantaggi che il concordato fallimentare può presentare rispetto al concordato preventivo, soprattutto con riguardo alla più ampia possibilità di falcidia dei crediti privilegiati in generale (e di quelli fiscali in particolare) ed in virtù della possibile limitazione di responsabilità, da parte del terzo proponente il concordato fallimentare, contemplata dall'art. 124, ultimo comma.
Forse, però, una simile ipotesi di lavoro non considera quelli che restano gli obiettivi limiti di operatività dell'istituto, pur nella sua nuova veste, riguardo alla sua operatività nel nuovo fallimento.
Non si afferma nulla di nuovo se si ricorda che, con scelta meditata, il legislatore del 2006, nell'eliminare il monopolio del fallito con riguardo alla formulazione della proposta di concordato fallimentare, ha imposto una finestra temporale al fallito (e alle società da lui partecipate o a lui collegate) per la formulazione della proposta: finestra che si apre un anno dopo la dichiarazione di fallimento e si chiude due anni dopo il deposito del decreto dichiarativo dell'esecutività dello stato passivo. Il tutto, a voler segnalare: da un lato, che la mancata tempestiva emersione della crisi (e la sua soluzione con strumenti alternativi al fallimento) potrebbe consentire ai terzi di acquisire l'attivo con una proposta di concordato fallimentare “ostile”; dall'altro lato che, a differenza che in passato, non sarebbe più possibile ritardare strumentalmente la liquidazione fallimentare con proposte concordatarie dilatorie.
Ciò non di meno il nuovo concordato fallimentare, nei fallimenti post riforma, è ipotesi rara, se non eccezionale.
Le ragioni di tale risultato possono forse essere individuate in una serie di fattori che, in concreto, neutralizzano i possibili vantaggi che il concordato fallimentare può offrire.
Prima di tutto va considerato un elemento già sopra ricordato: i nuovi fallimenti, per lo più, presentano attivi estremamente limitati e, peraltro, quasi sempre di rapida “deperibilità”, sicché un concordato ha di norma possibilità di successo solo se proposto immediatamente dopo la dichiarazione di fallimento.
In tale situazione non si deve trascurare la portata effettiva (che, in sede di valutazione teorica, potrebbe sfuggire, ma assume peso significativo sul piano operativo) dell'art. 124, ultimo comma, circa la limitazione di responsabilità del proponente: per come essa è strutturata (riferita, cioè ad uno stato passivo già dichiarato esecutivo, sia pure provvisoriamente) può essere operativa in linea di massima entro centoventi giorni dalla dichiarazione di fallimento, secondo la previsione dell'art. 16, n. 4 (anche se il termine, nella realtà operativa, è di norma ben più lungo). Con la conseguenza che, ove il terzo azzardasse un'immediata proposta concordataria “al buio”, si esporrebbe al rischio di dover rispondere, senza limitazioni di sorta, di debiti (soprattutto tributari) non correttamente considerati.
In realtà, dunque, il nuovo istituto potrebbe funzionare correttamente solo in un contesto di “collaborazione” tra il terzo proponente ed il “fallito”.
Il tema, a questo punto, inevitabilmente si dovrebbe espandere in forma non coerente al presente contesto: poiché si richiederebbe una seria meditazione sul concetto di “fallito” che il legislatore ha inteso adottare, utilizzando un'espressione evidentemente “arcaica”, siccome più adeguata ad un contesto, quale quello del 1942, in cui fallivano le persone fisiche molto più che le gli imprenditori collettivi.
La valutazione organica di tutti gli elementi sin qui appena accennati porta a quello che forse è il vero nocciolo del problema.
Il nuovo concordato fallimentare, rapportato al nuovo fallimento, parrebbe infatti poter funzionare soltanto se proposto in un momento immediatamente successivo alla dichiarazione, ma, nel contempo, a condizione che il proponente abbia già piena contezza della situazione patrimoniale attiva e passiva dell'imprenditore (e, dunque, pressoché mai come concordato “ostile”, ma solo come concordato “in collaborazione” con chi rappresenta l'imprenditore assoggettato a fallimento).
Se così è, però, è legittimo porsi una serie di domande, che chiudono questa breve riflessione, e la risposta alle quali può forse risolvere alcuni dei più significativi dubbi che angustiano gli interpreti e gli operatori: qual è oggi l'estensione effettiva del concetto di “fallito”, nell'accezione dell'art. 124? In caso di fallimento di S.p.A. e/o di S.r.l., il “fallito” coincide con gli amministratori e/o con i soci operativi? Entro quali limiti un terzo interessato ad operazioni concordatarie può collaborare con il fallito (o con i rappresentanti della società fallita) per l'acquisizione dell'attivo fallimentare e per la più ampia esdebitazione possibile, senza esporsi al rischio di incorrere nella contestazione di concorso in reati fallimentari di diverso genere, anche gravi?