Revoca del concordato per illegittimi pagamenti di crediti solo se compiuti in frode ai creditori

Filippo Lamanna
29 Febbraio 2016

I pagamenti eseguiti dall'imprenditore ammesso al concordato preventivo in difetto di autorizzazione del giudice delegato non comportano l'automatica revoca, ai sensi dell'art. 173, ultimo comma, l. fall., dell'ammissione alla procedura, la quale consegue solo all'accertamento, che va compiuto dal giudice del merito, che tali pagamenti sono diretti a frodare le ragioni dei creditori, in quanto pregiudicano le possibilità di adempimento della proposta formulata con la domanda di concordato.
Massima

I pagamenti eseguiti dall'imprenditore ammesso al concordato preventivo in difetto di autorizzazione del giudice delegato non comportano l'automatica revoca, ai sensi dell'art. 173, ultimo comma, l. fall., dell'ammissione alla procedura, la quale consegue solo all'accertamento, che va compiuto dal giudice del merito, che tali pagamenti sono diretti a frodare le ragioni dei creditori, in quanto pregiudicano le possibilità di adempimento della proposta formulata con la domanda di concordato.

Il caso

Con la sentenza 19 febbraio 2016, n. 3324, la Corte di Cassazione, esaminando una fattispecie in cui una società in concordato preventivo con cessione dei beni aveva eseguito, in corso di procedura, vari pagamenti, presumibilmente relativi sia a crediti anteriori che a crediti sorti o maturati in corso di procedura - condotta indistintamente sanzionata dal Tribunale (con provvedimento poi confermato dalla Corte d'appello) con riferimento ai pagamenti globalmente effettuati (senza distinguere cioè tra quelli attinenti a crediti anteriori o successivi) con la revoca del concordato (e contestuale declaratoria di fallimento) -, ha enunciato un principio di diritto formalmente (almeno in parte) attendibile, sebbene sia stato paradossalmente basato - secondo il mio sommesso parere, che esprimo sin d'ora in via anticipata riservandomi di darne giustificazione fra poco - su una motivazione palesemente inconferente.
Il principio di diritto è, come dicevo, almeno parzialmente accettabile, laddove (al netto dell'ultroneo riferimento al difetto di autorizzazione giudiziale dei pagamenti, che, come vedremo, non aveva ragione di essere richiamato) la S. Corte afferma che i pagamenti eseguiti dall'imprenditore ammesso al concordato preventivo non comportano l'automatica revoca, ai sensi dell'art. 173, ultimo comma, l. fall., dell'ammissione alla procedura, la quale può conseguire solo all'accertamento, che va compiuto dal giudice di merito, che tali pagamenti sono diretti a frodare le ragioni dei creditori.
Appare invece e comunque non condivisibile la parte conclusiva dell'enunciato principio, laddove la S. Corte ha voluto specificare che diretti a frodare le ragioni dei creditori sarebbero, tout court, solo i pagamenti che “pregiudicano le possibilità di adempimento della proposta formulata con la domanda di concordato”.
Siccome poi la S. Corte ha cassato l'impugnata pronuncia della Corte di merito non soltanto per avere questa omesso di accertare l'effettiva valenza dei pagamenti quali atti di frode, ma anche per non essersi “preoccupata di verificare la data di insorgenza degli stessi (in buona parte successiva a quella di presentazione della domanda)”, rinviando per il relativo accertamento in fatto alla medesima Corte d'appello in diversa composizione, è lecito arguirne che, per la S. Corte, la sorte del concordato (revoca sì/revoca no) potrebbe differenziarsi anche in ragione dell'inerenza dei pagamenti a crediti anteriori (non prededucibili) o invece a crediti (prededucibili) sorti in funzione o in occasione del concordato. Va purtuttavia segnalato che il principio di diritto non distingue affatto tra l'uno e l'altro tipo di pagamenti e sembra quindi indistintamente applicabile ad entrambi. Il che amplifica ancor di più, se possibile, lo scarto tra l'inconferente motivazione adottata e la soluzione racchiusa nel suddetto principio di diritto.

Le questioni giuridiche e la soluzione

La motivazione sulla cui base la S. Corte è pervenuta ad enunciare il suindicato principio di diritto muove da una singolare ed innovativamente sorprendente interpretazione dell'ultimo comma dell'art. 173 l. fall., che è rimasta fortunatamente e formalmente estranea al principio di diritto enunciato, facendogli solo da sfondo. Secondo la S. Corte, tale comma, nel prevedere la revoca del concordato preventivo per il compimento “di atti non autorizzati o comunque diretti a frodare le ragioni dei creditori (…) ben può essere inteso nel senso che debba ‘comunque' essere accertata la natura fraudolenta dell'atto non autorizzato”.
Tale interpretazione viene poi sostenuta dai seguenti tre argomenti:
1) se la condotta dell'imprenditore non è più oggi sindacabile sotto il profilo della meritevolezza e se al giudice non compete accertare né la fattibilità economica del piano, né la sua convenienza, “non si comprende allora perché il pagamento compiuto in difetto di autorizzazione dovrebbe costituire ragione di revoca del concordato indipendentemente dall'accertamento del suo disvalore oggettivo (che è ciò che connota l'atto di frode), ovvero della sua concreta idoneità a pregiudicare l'interesse dei creditori, da valutare non già in via immediata, ma in funzione dell'obiettivo finale che il piano presentato dal debitore si prefigge e delle modalità operative attraverso le quali detto obiettivo dovrebbe realizzarsi”;
2) siccome l'esercizio dell'attività di impresa non è più soggetto alla direzione del Giudice delegato, “ciò induce a ritenere che il potere di autorizzazione del giudice (…) inerisca quegli atti che, per la loro rilevanza, potrebbero incidere negativamente sul patrimonio del debitore e/o risultare incompatibili con quelli eventualmente già previsti ai fini della realizzazione del piano, rispetto ai quali si giustifica il permanere dell'esigenza della loro sottoposizione al controllo di legittimità”;
3) alla luce dell'attuale disciplina del concordato preventivo, il criterio della “migliore soddisfazione dei creditori”, cui fanno riferimento gli artt. 182-quinquies e 186-bis l. fall., ha acquisito valenza di regola generale applicabile in via analogica a tutte le tipologie di concordato onde scrutinare la legittimità degli atti compiuti dal debitore ammesso alla procedura, di talchè il pregiudizio che un pagamento può arrecare alla consistenza del patrimonio non è desumibile semplicemente dalla violazione della regola della par condicio, “essendo, per contro, ben possibile che il pagamento di crediti anteriori si risolva in un accrescimento, anziché in una diminuzione, della garanzia patrimoniale offerta ai creditori e tenda dunque all'obiettivo del loro miglior soddisfacimento” (come sarebbe a dirsi, in via esemplificativa, per il pagamento dei crediti di lavoro, che impedisce che sul capitale maturino ulteriormente interessi e rivalutazione monetaria; delle utenze, per il fine di evitare l'interruzione dell'erogazione del servizio; delle prestazioni di manutenzione e spese legali, sostenute per difendere i beni da pretese di terzi che risultano volti, direttamente o indirettamente, a conservare il valore al patrimonio aziendale, in modo da ricavarne un maggior prezzo in sede di liquidazione).
In via meramente incidentale la S. Corte fa cenno anche al pagamento di crediti prededucibili sorti in occasione o in funzione della procedura, ritenendo che anch'esso – se eseguito senza autorizzazione (ancora una volta ipotizzandosi che questa possa o debba essere concessa) – sia insuscettibile di giustificare l'automatica revoca dell'ammissione al concordato. Né, a suo giudizio, in tal caso potrebbe valere a giustificare il divieto di pagamento la tutela della par condicio, semplicemente perché tali crediti (…) “si sottraggono alla regola del concorso”, e neppure “il richiamo a ragioni «di tutela e di controllo del patrimonio concordatario», che hanno portata generale e che pertanto non possono essere invocate per attribuire al pagamento del credito prededucibile una speciale connotazione rispetto ad ogni altro negozio posto in essere dal debitore, sì che la sua valenza di atto di frode possa essere predicata prescindendo da qualsivoglia riscontro della sua attitudine a pregiudicare, in concreto, la consistenza di quel patrimonio”.

Osservazioni

Nell'anticipare il mio pensiero, ho evidenziato il paradossale risultato cui è pervenuta la S. Corte: quello di una soluzione, almeno nei termini in cui è stata formalizzata nel principio di diritto, in parte accettabile, pur se basata su una motivazione incongrua. Reputo infatti incongruo anzitutto interpretare restrittivamente una norma – l'art. 173, ultimo comma, l. fall. – palesemente orientata a sanzionare con la revoca del concordato non solo gli “atti non autorizzati a norma dell'art. 167”, ma anche, in aggiunta ai primi (attraverso la disgiuntiva “o”), quelli “comunque diretti a frodare le ragioni dei creditori”. L'interpretazione prospettata dalla S. Corte lascia invece intendere che la suddetta revoca potrebbe scattare solo in caso di atti non autorizzati che siano anche contemporaneamente diretti a frodare le ragioni dei creditori. Una tale lettura è davvero insostenibile ed indifendibile, e non solo in ragione del chiaro tenore letterale e logico delle suddette espressioni normative, ma anche perché la prima delle due ipotesi in presenza delle quali la norma prevede la sanzione della revoca, quella del compimento di atti non autorizzati, ha come espresso referente nell'art. 173, ultimo comma, ai fini dell'individuazione degli atti soggetti ad autorizzazione, l'art. 167 l. fall., che, essendo palesemente finalizzato a tutelare (come lo è nel preconcordato l'analoga, anche se non identica, disposizione di cui all'art. 161, comma 7), pur in presenza del perdurante potere gestorio/dispositivo del debitore concordatario (a differenza del fallimento, in cui si attua immediatamente l'effetto di spossessamento) l'integrità del patrimonio del debitore destinato ai creditori, sottopone a previa autorizzazione (solo) gli atti di straordinaria amministrazione, vale a dire gli atti dispositivi, di natura quasi sempre negoziale, che possono incidere (sensibilmente) sull'assetto patrimoniale facendone fuoriuscire beni o creando nuove passività, laddove invece il divieto dei pagamenti dei crediti anteriori ha evidentemente tutt'altra ratio, quella pura e semplice della tutela della par condicio (analogamente a ciò che accade nella revocatoria fallimentare ex art. 67 l. fall., in cui sono soggetti a diversa disciplina, soprattutto in punto di prova della scientia decoctionis, da un lato, al primo comma, gli atti dispositivi “anormali”, e, dall'altro, i pagamenti “normali”, stante la diversità di presupposto giustificativo della revocabilità prevista per essi: la tutela dell'integrità patrimoniale nel primo caso, quella della par condicio nell'altro).
Ho già avuto modo di evidenziare in altro luogo [cfr. Lamanna, Il divieto generale di pagamento dei crediti anteriori nel concordato preventivo e le sue tassative eccezioni (limitate ai soli casi di continuità aziendale), in IlFallimentarista.it], come la riconduzione dei pagamenti alla disciplina dell'art. 167, con la ivi prevista necessità di autorizzazione giudiziale con riferimento agli atti di straordinaria amministrazione, non sia assolutamente proponibile a causa della sua evidente incongruità. Pretendere di fondare tale assimilazione ai fini di una comune disciplina autorizzatoria sul semplice fatto che gli atti dispositivi di natura straordinaria ed i pagamenti sono entrambi atti di natura latamente patrimoniale, sarebbe come dire che pere e pesche sono frutti identici solo perché i loro nomi cominciano entrambi con la “p”. In realtà con il pagamento il debitore non fa altro che adempiere ad un debito preesistente, un debito cioè già compreso nel patrimonio come posta passiva. Effettuandolo, dunque, egli non provoca alcuna modificazione nella dimensione quantitativa del suo patrimonio, atteso che ad una posta passiva (il pagamento) corrisponde una posta attiva (l'eliminazione della preesistente e corrispondente passività). Tuttavia la legge mira a tutelare (come accade parallelamente nell'ambito della revocatoria fallimentare ex art. 67 l. fall.) non solo l'integrità del patrimonio quando il debitore è insolvente (o in crisi), vietandogli di compiere atti negoziali che possano diminuirlo, ma anche di effettuare pagamenti, che, pur non diminuendo il patrimonio, ed anzi essendo atti “dovuti” di mero adempimento, hanno ciò nonostante l'attitudine a determinare (anche solo in astratto) un trattamento disparitario tra i creditori.
La differenza concettuale, che non è di poco conto, trova poi sfogo in una differenziata disciplina proprio ai fini autorizzatorii. Infatti, mentre gli atti che possono incidere sull'integrità del patrimonio sono soggetti ad autorizzazione nei limiti previsti dall'art. 167 l. fall. (ossia solo se abbiano sensibile influenza sul patrimonio), al contrario per i pagamenti (dei crediti anteriori) non è prevista alcuna autorizzazione (sia che si tratti di pagamenti di piccole somme, sia che si tratti di pagamenti per somme elevatissime), salvo nei casi – specifici e tassativi – introdotti:
a) prima, dagli artt. 18 D.Lgs. n. 270/1999 e 3 D.L. 347/2003, ma solo in materia di amministrazione straordinaria (normale e speciale) (che subordinano appunto la possibilità di effettuare pagamenti di crediti anteriori all'autorizzazione del Giudice delegato);
b) e poi, in epoca più recente, dall'art. 182-quinquies, comma 4, l. fall. [che consente, però nel solo concordato con continuità aziendale, la possibilità di pagare crediti anteriori per prestazioni di beni o servizi, previa autorizzazione del Tribunale e a condizione che un professionista in possesso dei requisiti di cui all'articolo 67, terzo comma, lettera d), l. fall. attesti che tali prestazioni sono essenziali per la prosecuzione dell'attività di impresa e funzionali ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori];
c) nonché, infine, dall'art. 118, comma 3-bis, del codice dei Contratti Pubblici (D.Lgs. 163/2006), come modificato dal Decreto “Destinazione Italia” (D.L. 23 dicembre 2013, n. 145, convertito in L. 21 febbraio 2014, n. 9) (laddove, sempre sul presupposto della continuità, è stato previsto che la stazione appaltante possa esercitare la facoltà di effettuare – secondo le determinazioni del competente tribunale – i pagamenti dovuti per le prestazioni eseguite dai subappaltatori anche per i contratti di appalto in corso nella pendenza di una procedura di concordato preventivo con continuità aziendale).
Al di fuori di tali casi sarebbe vano cercare una norma purchessia che, in materia di concordato preventivo, sottoponga a previa autorizzazione giudiziale un pagamento di crediti anteriori. Per la verità non vi è neppure alcuna norma che espressamente vieti tali pagamenti nel concordato preventivo (come quella dell'art. 44, primo comma, l. fall., che è infatti applicabile solo ai pagamenti endo-procedimentali effettuati dal fallito e vale quindi solo per il fallimento), tanto che la S. Corte ha dovuto estrapolare un divieto di tal sorta per implicito, con interpretazione logico-sistematica (divenuta poi diritto vivente), rinvenendolo tra le pieghe dell'art. 168 l. fall., che da quel momento ha assunto la veste di (unica) norma disciplinante la sorte dei pagamenti concordatari (“l'art. 168, nel porre il divieto di azioni esecutive da parte dei creditori, comporta implicitamente il divieto di pagamento di debiti anteriori, perchè sarebbe incongruo che ciò che il creditore non può ottenere in via di esecuzione forzata, possa conseguire in virtù di spontaneo adempimento, essendo in entrambi i casi violato proprio il principio di parità di trattamento dei creditori”; così Cass. n. 578/2007).
Sta di fatto che, così desunto in via implicita il divieto di pagamento dei crediti anteriori – soluzione che, stando alla formulazione letterale del dettato normativo, dovrebbe a sua volta determinare la nullità del pagamento soggetto al divieto stesso (e non la sola inopponibilità prevista per gli atti dispositivi non autorizzati ex art. 167 l. fall.) –, esso non è mai superabile mediante un'autorizzazione giudiziale (al di fuori delle tassative eccezioni normative poc'anzi citate), essendo prevista un'autorizzazione, si ripete, solo per gli atti incidenti sensibilmente sull'integrità patrimoniale ex art. 167, ma non per i pagamenti (vietati “in assoluto”, ed implicitamente, dall'art. 168). Quand'anche un'autorizzazione dunque fosse concessa dal Giudice delegato per l'esecuzione di un pagamento, essa sarebbe inutiliter data.
Ed è appena il caso di osservare che tale positivo assetto normativo non potrebbe certo mutare natura e significato sol perché una certa prassi interpretativa ha sinora ritenuto semplicisticamente di poter ricondurre i pagamenti alla disciplina dell'art. 167, onde esigere anche per essi, in mancanza di una norma ad hoc, quell'autorizzazione giudiziale prevista da tale norma per gli atti di straordinaria amministrazione, e questo basandosi sul presupposto, del tutto infondato, che anche i pagamenti al postutto incidono sul patrimonio del debitore; così dimenticando che l'unica ragione per cui i pagamenti sono vietati è la loro capacità di ledere il principio di trattamento paritario fra i creditori, non certo di diminuire la garanzia patrimoniale, sì che sottoporre ad identica disciplina – quanto meno in mancanza di una norma positiva che disponga in tal senso - atti dispositivi e pagamenti è procedimento interpretativo (ammantato di semplicistico “sostanzialismo”) ex se inaccettabilmente sbagliato.
Bisogna piuttosto prendere atto che, alla luce dell'attuale quadro normativo, il silenzio del legislatore sulla non autorizzabilità dei pagamenti in ambito concordatario non è causale, ma dipende da una scelta ben precisa.
D'altronde la differenziata disciplina tra atti dispositivi e pagamenti acquista plastico ed ancor maggiore rilievo proprio alla luce dell'art. 173 l. fall., poiché tale norma, come abbiamo visto, nel sanzionare gli atti non autorizzati, fa espresso e non casuale riferimento al solo art. 167, lasciando intendere, all'evidenza, che la revoca del concordato può derivare esclusivamente dal compimento di atti che sarebbero soggetti a previa autorizzazione giudiziale ai sensi dell'art. 167 e che siano stati ciò nonostante compiuti in difetto di essa, ma non invece dal compimenti di atti ex se non soggetti ad alcuna autorizzazione o non autorizzabili. E tra questi ultimi, appunto, vanno annoverati i pagamenti di crediti anteriori.
Pertanto, a differenza di quel che solitamente si opina, e che per di più è stato posto erroneamente dalla S. Corte a base del suo ragionamento, l'art. 173, ultimo comma, non è affatto invocabile per sanzionare l'esecuzione di pagamenti di crediti anteriori laddove prevede la revoca del concordato preventivo in caso di compimento di atti non autorizzati, giacchè i pagamenti (al di fuori, si ripete, dei casi tassativi di autorizzazione legittimante eccezionalmente previsti da singole norme di legge) non sono mai autorizzabili.
La S. Corte, quindi, nel dover valutare se l'esecuzione di pagamenti nel concordato determini o meno la revoca ex art. 173, ultimo comma, aveva dinanzi a sé, a grandi linee (mi si perdoni la sommarietà della sintesi), tre possibili alternative: 1) o seguire un orientamento più rigido e rigoroso, reputando che, siccome nel concordato i pagamenti dei crediti (quantomeno quelli concorsuali, ossia anteriori) sono vietati in assoluto e non sono mai autorizzabili, il loro compimento determini per ciò stesso la revoca automatica del concordato (e questo in virtù di un'interpretazione non già immediata e diretta dell'art. 173, ma di tipo analogico-sistematico); 2) o seguire tutt'all'opposto un orientamento di massima liberalità, escludendo in radice la stessa possibilità di una revoca in presenza di tali pagamenti, non essendo essi soggetti ad alcuna autorizzazione e non essendo stato previsto espressamente che una revoca del procedimento consegua in via automatica alla loro esecuzione; 3) o infine escludere l'inevitabilità della revoca, ma scegliendo, come la S. Corte ha peraltro fatto in concreto, una soluzione intermedia, assimilando cioè i pagamenti in questione agli atti in frode, e limitando al caso in cui assumano tale connotazione l'eventuale sanzione della revoca del concordato.
Sennonché a questo ultimo fine la S. Corte non aveva affatto la necessità di proporre la qui criticata interpretazione, orientata a restringere il significato dell'ultimo comma dell'art. 173, laddove si prevede la revoca del concordato a seguito di atti non autorizzati, ipotizzando che questi possano far scattare la detta sanzione solo in quanto siano anche di carattere fraudolento; molto più semplicemente – è questo il mio modesto parere – la S. Corte avrebbe potuto e dovuto limitarsi a dire che i pagamenti sono ex se atti non autorizzabili, ma che non dimeno, se compiuti, possono dar luogo a revoca del concordato solo in quanto risultino in concreto annoverabili nella seconda ed autonoma categoria prevista dal citato ultimo comma dell'art. 173, quella degli atti – appunto – “comunque diretti a frodare le ragioni dei creditori”.
Non è di conseguenza sindacabile come tale la scelta dell'ultima fra le tre suindicate soluzioni alternative fatta dalla S. Corte, poiché, a ben vedere, tutte e tre tali soluzioni erano astrattamente proponibili, ed anzi può considerarsi anche meritorio il fine perseguito dalla Cassazione, quello di evitare che un concordato preventivo possa venir meno (come talora in concreto è accaduto) a causa di pagamenti spesso di assai modesta entità ed eseguiti per semplice inconsapevolezza, esito ineluttabile seguendo la prima alternativa interpretativa; come anche potrebbe considerarsi prudente aver evitato la seconda alternativa, stante il rischio di aprire ad una gestione “anarchica” dei pagamenti se essi non potessero mai dar luogo a revoca del concordato ad onta del divieto di compierli (ex art. 168 l. fall.).
Reputo non dimeno doveroso segnalare, come dicevo, la discutibile struttura logico-interpretativa sulla cui base la S. Corte ha prospettato la soluzione sottesa alla terza ipotesi interpretativa. Proprio per tale ragione ho considerato paradossalmente accettabile, nonostante l'errore logico della motivazione su cui è stata basata, la soluzione finale almeno per come è stata enunciata nel principio di diritto stilato dalla S. Corte, laddove essa afferma che solo quando un pagamento di credito anteriore venga compiuto con finalità fraudolenta può dar luogo – come qualunque altro atto fraudolento (in tal senso la categoria è astrattamente inesauribile, e può comprendere sia gli atti dispositivi incidenti sull'integrità patrimoniale, sia i pagamenti quali atti lesivi della par condicio) – alla revoca del concordato, altrimenti non scattando tale sanzione, ma, al più, aggiungo, solo quella della nullità prevista dal divieto dell'art. 168 (per qualsiasi pagamento, in quanto atto ex se non autorizzabile).
Ma al tempo stesso ho segnalato, per coerenza logica:
a) che tale soluzione non implicava affatto un'interpretazione restrittiva dell'art. 173, ultimo comma, laddove tale norma fa dipendere la revoca del concordato dal compimento di atti (dispositivi) non autorizzati ex art. 167 l. fall. (nel senso che, per la S. Corte, essi debbano essere al contempo anche fraudolenti);
b) che quindi non è corretto far dipendere la sanzione della revoca dalla mancanza di autorizzazione dei pagamenti, perché nel concordato preventivo i pagamenti in realtà non sono mai autorizzabili (né quindi soggetti ad autorizzazione);
c) che è comunque non condivisibile la chiosa finale dell'enunciato, secondo cui fraudolenti dovrebbero considerarsi i pagamenti che “pregiudicano le possibilità di adempimento della proposta formulata con la domanda di concordato”, chiosa basata sull'idea, del tutto inappropriata al caso, secondo cui la frode sussisterebbe in ragione di un “disvalore oggettivo”, ovvero della concreta idoneità a pregiudicare l'interesse dei creditori, da valutare non già in via immediata, ma in funzione dell'obiettivo finale che il piano presentato dal debitore si prefigge e delle modalità operative attraverso le quali detto obiettivo dovrebbe realizzarsi.
Con riferimento a quest'ultimo punto, mi pare doveroso rimarcare che la qualificazione data in tal modo agli atti in frode può calzare solo per gli atti fraudolenti di carattere dispositivo/negoziale, non invece per i pagamenti, rispetto ai quali essa è del tutto inconferente, proprio perché questi sono vietati non in quanto idonei a pregiudicare l'integrità del patrimonio, o indirettamente la buona riuscita del piano, ma piuttosto la sola parità di trattamento dei creditori.
Certo la questione potrebbe ridursi in astratto ad un problema di carattere puramente nominalistico: concedo infatti che possa continuare a discettarsi di necessaria sussistenza del requisito del danno ai fini della qualificazione della frode, ma solo se il concetto di danno venga accepito, quanto ai pagamenti, nel suo proprio ambito (lesione della par condicio), mai nel senso di pregiudizio patrimoniale per i creditori.
In altre parole: il pagamento può determinare la revoca del concordato preventivo se esso sia soggettivamente fraudolento, anche quando non determini alcun “danno patrimoniale” agli altri creditori, e può viceversa non determinare la revoca anche quando provochi un danno di tale sorta (si pensi al caso in cui si paghi un chirografo e poi si scopra che non si riusciranno a pagare nemmeno i privilegiati, con evidente danno per gli interessi questi ultimi) se soggettivamente non sia fraudolento.
Resta inteso, peraltro, che il pagamento in tale ultimo caso sarebbe comunque nullo ai sensi dell'art. 168 l. fall. e potrebbe dunque dar luogo a diritto di ripetizione.
Si realizza in tal modo un sostanziale e non casuale parallelismo con la norma che, sotto il diverso profilo penale, sanziona giustappunto i pagamenti in quanto atti vietati (e non autorizzabili), perché lesivi, appunto, ed in quanto lesivi, della par condicio.
Mi riferisco all'art. 216, terzo comma, l. fall., che contempla il reato di bancarotta preferenziale, la quale scatta non semplicemente in presenza di un pagamento fatto in violazione del paritario trattamento, ma solo se vi sia stato un dolo specifico nel perseguimento della preferenzialità (favorire uno dei creditori a scapito degli altri).
Allo stesso modo, infatti, la revoca del concordato preventivo è sanzione che può derivare da pagamenti preferenziali solo se di carattere soggettivamente fraudolento, ossia se intenzionalmente finalizzati a frodare le ragioni dei creditori attraverso la violazione della par condicio.
E sorprende che in quest'ambito la S. Corte si sia discostata senza maggior approfondimento dall'opposta valorizzazione del profilo soggettivo della frode che essa è andata invece enfaticamente affermando in numerose altre pronunce proprio in tema di qualificazione degli atti di frode ex art. 173, pronunce nelle quali ha sostenuto che essi, per essere individuati come tali, devono avere sul piano oggettivo valenza decettiva, ossia pregiudicare il consenso informato dei creditori (Cass. 15 ottobre 2013, n. 23387; 5 agosto 2011, n. 17038) e, sul piano soggettivo, essere stati assunto con dolo, inteso come volontarietà del fatto (così ancora Cass. n. 23387/2013 e 17038/2011 e da ultimo Cass. 22 febbraio 2016, n. 3409).
Potendo la S. Corte, per evitare, come voleva, l'automatismo della revoca del concordato in presenza di pagamenti illegittimi in quanto generalmente vietati, limitarsi a considerare i pagamenti tra gli atti rilevanti a quel fine solo se fraudolenti, non avrebbe avuto motivo neppure di confondere ancor di più la sostanziale coerenza dell'attuale quadro normativo proponendo i tre astrusi argomenti sopra sintetizzati.
Certo non il primo, che, basandosi sulla inattualità del sindacato circa la meritevolezza del debitore, e sulla insindacabilità della convenienza e della tenuta economica del piano da parte del Tribunale, risulta all'evidenza invocato del tutto a sproposito, giacchè, se, come la Corte opina, i pagamenti determinano la revoca del concordato non solo in quanto fraudolenti, ma anche ed ancor prima in quanto non autorizzati, allora il difetto di tale ultimo requisito, rilevando nella sua oggettività, rende del tutto inconferente sia discutere del profilo economico, che di quello della meritevolezza. In ogni caso, come ho cercato di chiarire, è davvero un fuor d'opera confondere la ratio che è alla base del divieto dei pagamenti (lesione della par condicio) con quella che è alla base del divieto di compiere atti di straordinaria amministrazione senza previa autorizzazione (lesione dell'integrità patrimoniale).
Inconferente, per la medesima ragione, è anche il secondo argomento che fa leva sulla scomparsa del potere direttivo del Giudice delegato sull'esercizio dell'impresa, sì che, venuto meno tale potere, l'autorizzazione sarebbe giustificabile solo per gli atti che, per la loro rilevanza, potrebbero incidere negativamente sul patrimonio del debitore e/o risultare incompatibili con quelli previsti ai fini della realizzazione del piano. Infatti, a prescindere dal valore che poteva avere prima o adesso tale ipotetico potere direttivo del Giudice delegato, da un lato proprio il previsto controllo sul carattere fraudolento degli atti suscettibili di dar luogo a revoca, e finanche in occasione del giudizio di omologa, conferma semmai il perdurare di un forte compito di eterotutela da parte del Tribunale; e, dall'altro, ancora una volta non è lecito rapportare il divieto dei pagamenti ad una ratio (lesione dell'integrità patrimoniale), che può riguardare solo gli atti di straordinaria amministrazione, laddove poi il rilievo secondo cui la legge considera soggetti ad autorizzazione solo gli atti in grado di incidere sensibilmente sul patrimonio è la mera registrazione di quanto dispone l'art. 167, rimasto peraltro immutato anche dopo le recenti riforme.
Inconferente, infine, è anche il terzo argomento, che fa leva sul criterio della “migliore soddisfazione dei creditori”, poiché il controllo sul carattere fraudolento di un atto si colloca in un'area, come già detto, del tutto diversa da quella ove assume rilievo la miglior soddisfazione, ossia il profilo della convenienza economica, trattandosi solo di valutare se il pagamento eventualmente compiuto abbia o meno una finalità fraudolenta a prescindere dalla sua utilità o dannosità in concreto. Ciò perché, come si è fin qui detto e ripetuto, il divieto che riguarda i pagamenti non tutela l'integrità del patrimonio contro atti di disposizione, ma solo la parità di trattamento fra i creditori, e quindi non esige un controllo in termini di convenienza/pregiudizio patrimoniale.
Puramente ultronei sono da considerare in via conseguenziale anche gli esempi addotti dalla S. Corte come ipotetici casi di pagamenti utili o comunque non pregiudizievoli, trattandosi non solo di esempi fuori contesto (visto che la valutazione di fraudolenza dei pagamenti non può attenere al profilo dell' utilità patrimoniale), ma che potrebbero finanche autorizzare conclusioni assurde e contra legem (come l'esempio riferito al pagamento anticipato dei crediti anteriori dei lavoratori subordinati, il quale sarebbe in asserto sempre utile consentendo di risparmiare su interessi e rivalutazione; puntello, questo, su cui potrebbe fondarsi la legittimità dei pagamenti di qualunque credito prelazionario, con totale sovvertimento dei principi della concorsualità).
In ultima analisi, mi pare che la S. Corte avrebbe potuto e dovuto basare la soluzione finale sul semplice rilievo secondo cui i pagamenti, che sono ex se atti non autorizzabili, non siano suscettibili di dar luogo alla revoca del concordato preventivo prevista in conseguenza del compimento di atti dispositivi soggetti ad autorizzazione ex art. 167 e non autorizzati, ma solo alla revoca prevista in conseguenza del compimento di atti fraudolenti, se e quando assumano in concreto tale carattere, da accertare di volta in volta sotto il profilo soggettivistico del dolo.
Quanto ai pagamenti (di crediti anteriori) eccezionalmente soggetti ad autorizzazione, l'unica eccezione prevista dalla disciplina del concordato preventivo a tale regola è quella del già citato art. 182-quinquies, comma 4, per i pagamenti di crediti anteriori relativi a prestazioni essenziali, se ritualmente autorizzati ai sensi di tale norma. La quale non può però affatto giustificare, solo in virtù della sua esistenza, la possibilità di estendere in via interpretativa il regime autorizzatorio in essa previsto anche al di fuori del concordato con continuità aziendale (in asserto qualunque sia la tipologia di concordato), come pretenderebbe la S. Corte, e ciò per la sola eventuale ricorrenza del requisito della funzionalità dei pagamenti alla migliore soddisfazione dei creditori. Anche tale estensione sarebbe infatti frutto di un'interpretazione palesemente contra legem, stante il tenore restrittivo ed eccezionale della norma suddetta.
Semmai è a dirsi che anche per i pagamenti cui si riferisce l'art. 182-quinquies, ancorchè soggetti alla suddetta speciale autorizzazione, quando essa manchi, non sia applicabile la sanzione della revoca del concordato ex art. 173, ultimo comma, riguardante gli atti non autorizzati. Questi, infatti, sono solo gli atti soggetti ad autorizzazione ex art. 167, e fra essi non rientrano mai i pagamenti, come ho già avuto modo di precisare. Resta invece ferma anche per tali pagamenti – se non autorizzati – la possibilità di applicare la revoca del concordato quando si configurino (soggettivamente) come una frode ai creditori.
Quanto ai pagamenti dei crediti prededucibili, su di essi, come si diceva, la S. Corte ha speso ancor più rare parole. Par di capire che, secondo la S. Corte, anch'essi – se eseguiti senza autorizzazione (ancora una volta ipotizzandosi che questa possa o debba essere concessa) – siano insuscettibili di giustificare un'automatica revoca dell'ammissione al concordato. Né però, a suo giudizio, in tal caso potrebbe valere a giustificare il divieto la tutela della par condicio, semplicemente perché tali crediti … si sottraggono alla regola del concorso, e neppure “il richiamo a ragioni «di tutela e di controllo del patrimonio concordatario», che hanno portata generale e che pertanto non possono essere invocate per attribuire al pagamento del credito prededucibile una speciale connotazione rispetto ad ogni altro negozio posto in essere dal debitore, sì che la sua valenza di atto di frode possa essere predicata prescindendo da qualsivoglia riscontro della sua attitudine a pregiudicare, in concreto, la consistenza di quel patrimonio”.
Le espressioni, alquanto opache, lasciano il dubbio sul se, per la S. Corte, il pagamento dei crediti sorti in occasione o in funzione della procedura sia sempre legittimo, o se occorra comunque l'autorizzazione giudiziale per legittimarlo, ed inoltre se, ove valga la seconda ipotesi, possa conseguirne – e a quali condizioni – la revoca del concordato ove l'autorizzazione sia mancata.
Forse il riferimento alla necessità di un accertamento sulla sussistenza in concreto di un pregiudizio quale connotazione oggettiva della frode potrebbe indurre a pensare che, per la S. Corte, valga la non automaticità della revoca del concordato anche in questa seconda ipotesi (autorizzazione mancata). Ma gli elementi argomentativi forniti sono troppo scarsi ed evanescenti per trarne un convincimento inequivoco.
Sta di fatto che, per i crediti prededucibili sorti in funzione o in occasione del concordato preventivo, potrebbe ritenersi applicabile la disciplina di cui all'art. 111-bis l. fall., caso in riferimento al quale per l'esecuzione dei pagamenti è stata espressamente prevista dalla legge una forma di autorizzazione ad hoc (da parte del comitato dei creditori o del Giudice delegato, ma evidentemente essendo compatibile con il concordato, nella fase anteriore all'omologa, solo un'autorizzazione conferita dal Giudice delegato), in particolare quando si tratti di pagamento di crediti prededucibili liquidi, esigibili e non contestati per collocazione ed ammontare, ed al contempo l'attivo sia presumibilmente sufficiente a soddisfarli integralmente.
Sennonché tale disciplina mi pare difficilmente esportabile, quantomeno nella sua interezza, nell'ambito del concordato preventivo, perché, a parte ogni altra considerazione di carattere formale (ad esempio sulla compatibilità con tale procedura della non contestazione del credito, rispetto a cui è prevista come alternativa la necessità di verifica del passivo, che però nel concordato preventivo non è contemplata), costituisce comunque non secondario inconveniente il fatto che nel concordato preventivo il debitore conserva sempre il potere di gestione ordinaria dell'impresa, sì che mi parrebbe quanto meno contrastante con l'essenza e la funzionalità di tale gestione ordinaria una norma sul pagamento dei crediti prededucibili che, presupponendo sempre e comunque un'autorizzazione preventiva, finirebbe per ostacolare appunto l'esercizio dell'impresa in concordato anche quando i pagamenti attenessero ad atti di gestione corrente, che, per le imprese più grandi, si contano finanche a migliaia, quotidianamente.
Non è un caso, a tale ultimo proposito, che, in materia di preconcordato, l'art. 161, comma 7, l. fall., laddove stabilisce che dopo il deposito del ricorso e fino al decreto di cui all'articolo 163 il debitore può compiere autonomamente gli atti di ordinaria amministrazione, dovendo munirsi di autorizzazione del Tribunale solo per gli atti urgenti di straordinaria amministrazione, e che i crediti di terzi eventualmente sorti per effetto degli atti legalmente compiuti dal debitore sono prededucibili ai sensi dell'articolo 111, sia stato sinora prevalentemente interpretato nel senso di ritenere che il pagamento non necessiti mai di un'aggiuntiva ed autonoma autorizzazione se attenga ad un atto di gestione ordinaria endo-procedimentale o anche ad un atto di straordinaria amministrazione che sia stato già autorizzato. Tale interpretazione riserva cioè al pagamento – (ma, si badi, solo) in quanto riferibile ad un credito prededucibile sorto in corso di preconcordato – un trattamento diverso da quello previsto nell'art. 111-bis, trattandolo al pari dell'atto dispositivo da cui trae origine e causa: trattamento (chiaramente non esportabile nell'ambito del pagamento dei crediti anteriori) secondo cui, se è legittimo l'atto dispositivo (perché atto di gestione ordinaria o atto di straordinaria amministrazione previamente autorizzato), è legittimo anche il pagamento che da esso tragga causa e che ad esso si riferisca.
Della ragionevolezza di tale soluzione, del resto, si rinviene anche una sintomatica conferma in ambito revocatorio, laddove è prevista dall'art. 67, terzo comma, lettera e), seconda ipotesi, proiettandosi con efficacia postuma in caso di esito infausto della procedura concordataria e di eventuale fallimento successivo, la non revocabilità dei pagamenti effettuati legittimamente dopo il deposito del ricorso [ma è sintomatico che analoga non revocabilità sia stata prevista alla lettera a), più in generale, anche per i pagamenti compiuti in relazione all'esercizio ordinario dell'impresa in bonis, ben potendosi comprendere in tale novero anche quelli prededucibili compiuti durante il preconcordato in relazione alla gestione corrente).
Su tale aspetto credo che abbia ragione la S. Corte nel non ritenere applicabile ai pagamenti di crediti prededucibili il divieto di cui all'art. 168, ma non già semplicemente in quanto essi sono pagamenti relativi a crediti prededucibili (e quindi fuori concorso, che è affermazione puramente circolare), ma piuttosto – con più appropriato riferimento alla cronologia della genesi – in quanto riferibili a crediti (prededucibili) sorti nel corso della gestione durante la procedura.
Il divieto di cui all'art. 168 mi pare invece possa restare applicabile per i pagamenti di crediti prededucibili anteriori (sorti cioè in funzione della procedura prima del suo inizio). L'art. 161, comma 7, è infatti chiarissimo nel disciplinare solo gli atti, e al tempo stesso il beneficio della prededuzione dei pagamenti che ad essi attengano, compiuti “dopo il deposito del ricorso e fino al decreto di cui all'articolo 163”, lasciando fuori gli atti anteriori ed i pagamenti ad essi relativi, che, benchè muniti di eventuale prededuzione, dovranno dunque soggiacere agli ordinari tempi e al rito dei riparti.
A maggior ragione tale complessiva disciplina dovrebbe valere a concordato già ammesso.
Alla luce delle precedenti considerazioni, mi pare di poter concludere che, anche con riguardo ai pagamenti dei crediti prededucibili, possa applicarsi la sanzione della revoca del concordato preventivo ex art. 173, ultimo comma (dopo che il concordato sia stato ammesso) o della improcedibilità della domanda (in caso di preconcordato ex art. 161, comma 6), solo quando essi, benchè eseguiti illegittimamente (perché riferibili ad atti di straordinaria amministrazione non autorizzati, o perché eseguiti fuori riparto benchè riferibili a crediti prededucibili anteriori), abbiano natura soggettivamente fraudolenta, stante la già detta mancanza, valevole anche per tali pagamenti, di una regola sanzionatoria che scatti automaticamente in conseguenza del loro compimento (tanto meno in rapporto ad una mancanza di autorizzazione).

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