Il concordato preventivo misto tra cessione dei beni e continuità aziendale diretta

10 Febbraio 2016

Il piano di concordato che prevede la continuazione dell'attività di impresa funzionale alla cessione dei beni ai creditori deve ritenersi di tipo misto e, pertanto, per la parte relativa alla continuità aziendale è destinato a trovare applicazione l'art. 186-bis l.fall. (massima Tribunale)Per concordato in continuità aziendale deve intendersi il concordato strutturato sopra un piano aziendale che prevede la prosecuzione dell'attività di impresa e quindi l'assunzione del relativo rischio da parte dei creditori concorsuali mentre il concordato c.d. misto è configurabile allorquando la prosecuzione aziendale è finalizzata alla liquidazione dell'intero patrimonio della debitrice. (massima Appello)
Massima

Il piano di concordato che prevede la continuazione dell'attività di impresa funzionale alla cessione dei beni ai creditori deve ritenersi di tipo misto e, pertanto, per la parte relativa alla continuità aziendale è destinato a trovare applicazione l'art. 186-bis l.fall. (massima Tribunale)

Per concordato in continuità aziendale deve intendersi il concordato strutturato sopra un piano aziendale che prevede la prosecuzione dell'attività di impresa e quindi l'assunzione del relativo rischio da parte dei creditori concorsuali mentre il concordato c.d. misto è configurabile allorquando la prosecuzione aziendale è finalizzata alla liquidazione dell'intero patrimonio della debitrice. (massima Appello)

Il caso

La M.R.E. Srl, società di costruzioni edili, ha presentato dinanzi al Tribunale di Arezzo una domanda di concordato preventivo con la quale ha proposto ai creditori il pagamento in misura pari a quanto si sarebbe realizzato dalla cessione di tutti i beni che sarebbe stata eseguita, in parte, immediatamente e, in parte, all'esito di tre anni di prosecuzione dell'attività aziendale tesa ad ultimare alcuni immobili.
La debitrice ha ritenuto che tale domanda di concordato dovesse essere qualificata come liquidatoria ed ha, pertanto, tenuto conto della relativa disciplina.
Il Tribunale di Arezzo, rilevando una serie di criticità, ha fissato l'udienza ex art. 162, comma 2, l.fall. all'esito della quale ha dichiarato l'inammissibilità della proposta di concordato preventivo perché la domanda di concordato non era stata sottoscritta dal legale rappresentante in carica in violazione degli artt. 161, comma 4, 152 l.fall. e perché il concordato proposto non sarebbe stato liquidatorio, come invece inteso dalla debitrice, bensì misto. Sulla base di tale riqualificazione giuridica del concordato è derivato l'accertamento della omessa applicazione della disciplina dettata dall'art. 186 bis l.fall.. Più in particolare, il Tribunale di Arezzo ha accertato la omessa attestazione da parte del professionista ex art. 161, comma 3, l.fall. del miglior soddisfacimento dei creditori derivante dalla prosecuzione dell'attività di impresa così come espressamente richiesto dall'art. 186 bis, comma 2, lett.b), l.fall..
Avverso detto decreto di inammissibilità è stato proposto reclamo dinanzi alla Corte di Appello di Firenze per i seguenti motivi:
Erronea decisione sulla inammissibilità della domanda per violazione dell'art. 161, comma 4, l.fall. atteso che in sede di udienza ex art. 162 l.fall. la domanda sarebbe stata poi sottoscritta dal legale rappresentante della ricorrente;
Erronea qualificazione del concordato preventivo come misto dovendosi ritenere lo stesso di tipo liquidatorio con conseguente inapplicabilità dei requisiti indicati dall'art. 186 bis l.fall.
La Corte di Appello di Firenze ha rigettato il reclamo condividendo la decisione assunta dal Tribunale di Arezzo.

La questione giuridica e le relative soluzioni

La questione giuridica di maggiore interesse trattata nei provvedimenti in esame riguarda la qualificazione del concordato preventivo proposto dalla debitrice e, più in particolare, l'indicazione dei caratteri tipici del concordato c.d. “misto”, del concordato in continuità e di quello liquidatorio.
Ed infatti è proprio dalla qualificazione del concordato proposto e quindi della disciplina ad esso applicabile che ha avuto origine una delle cause di inammissibilità della domanda di concordato preventivo proposto nella fattispecie in esame. La ricorrente ha infatti ritenuto si trattasse di un concordato di tipo liquidatorio la cui previsione di prosecuzione dell'attività d'impresa sarebbe stata, in quanto limitata nel tempo, equiparabile ad un esercizio provvisorio; il Tribunale di Arezzo ha invece qualificato il concordato come “misto”, valorizzando il profilo della continuità aziendale nell'ambito di un concordato sostanzialmente liquidatorio.
Il Tribunale di Arezzo ha ritenuto che il concordato misto sia configurabile ogniqualvolta vi sia una prosecuzione dell'attività di impresa funzionale alla cessione dei beni ai creditori e, sulla base di tale interpretazione, ha ritenuto applicabili al caso di specie le disposizioni dettate dall'art. 186 bis l.fall. per la sola parte del piano di concordato nel quale era prevista la continuità aziendale. Tale decisione ha portato il Tribunale ad accertare l'inosservanza dell'art. 186-bis, comma 2, lett. b), l.fall. afferente all'attestazione del professionista sul miglior soddisfacimento dei creditori in forza della prosecuzione dell'attività d'impresa.
In particolare, il Tribunale di Arezzo ha avuto cura di evidenziare che l'attestazione del professionista sul migliore soddisfacimento dei creditori ricopre un ruolo essenziale per assicurare ai creditori che la prosecuzione dell'attività di impresa non comporti un aggravamento della debitoria (peraltro prededucibile) con evidente peggioramento delle prospettive di soddisfacimento. Sulla base di tali considerazioni, il Tribunale ha rilevato che la mancata attestazione del professionista in ordine “al miglior soddisfacimento” così come prevista dall'art. 186-bis, comma 2, lett. b), l.fall. costituisca ex sé motivo di inammissibilità della domanda e non solo per violazione di legge, ma anche perché detta omissione non consentirebbe di ritenere attendibili le stime dei flussi operate dalla debitrice con il business plan.
Tale omissione, secondo il Tribunale di Arezzo, andrebbe ad incidere negativamente sulla fattibilità giuridica del piano di concordato intesa come realizzazione della causa concreta del concordato. Si tratterebbe dunque di un vizio genetico della causa a fronte del quale il giudice sarebbe legittimato ad un controllo di legittimità sostanziale a tutela dell'interesse pubblico.
La Corte di Appello di Firenze ha condiviso la decisione del giudice di primo grado offrendo a sua volta spunti di riflessione sulla individuazione dei requisiti caratterizzanti il concordato in continuità aziendale ed il concordato misto.
La Corte di Appello ha infatti ravvisato la continuità aziendale nel piano triennale in forza del quale la debitrice avrebbe inteso liquidare immediatamente gli immobili già terminati o per i quali si era ritenuta più opportuna la vendita al grezzo, impiegando la liquidità derivante da tali vendite per la copertura dei costi necessari per ultimare la costruzioni di altri immobili.
La Corte di Appello ha poi ritenuto che la qualificazione di concordato misto operata dal Tribunale di Arezzo non debba essere letta in senso tecnico quale tertium genus rispetto al concordato liquidatorio ed a quello in continuità, ma più semplicemente come indicativa di un piano che prevedeva sia la prosecuzione dell'attività di impresa sia la liquidazione dell'intero patrimonio della debitrice.
La Corte ha poi avuto cura di precisare che se, invece, il piano avesse previsto la prosecuzione dell'attività di impresa e la cessione atomistica di una parte del patrimonio, il concordato avrebbe potuto esser qualificato in continuità aziendale, trattandosi di ipotesi specificamente prevista dall'art. 186-bis, comma 1, l.fall. (quella di proseguire l'attività d'impresa e di liquidare beni non funzionali).

Osservazioni

Sulla figura del concordato preventivo c.d. misto e sulla individuazione della linea di confine tra quest'ultimo e le due figure tipiche di concordato (continuità e liquidatorio) il dibattito è molto vivace ed è destinato ad esserlo ancor di più a seguito delle novità introdotte dall'ultima riforma (cfr. d.l. 83/15 conv. con mod. in l. 132/15) che ha accentuato le differenze tra concordato in continuità e concordato liquidatorio soprattutto sotto il profilo dell'ammissibilità sia della domanda di concordato (cfr. art. 160, ult.comma, l.fall.) sia delle proposte concorrenti (cfr. art. 163, comma 6, l.fall.). Nel quadro normativo che si è così delineato, la qualificazione giuridica del concordato assume un ruolo molto importante, assumendo riflessi anche sull'ammissibilità della domanda di concordato e delle proposte concorrenti.
La necessità dunque di tracciare confini ben definiti tra i diversi concordati nasce dall'esigenza di avere delle linee interpretative tese ad offrire al mercato una maggiore certezza sulla disciplina applicabile alla domanda di concordato presentata.
Il nuovo assetto degli interessi voluto dal legislatore fallimentare sembra infatti teso a sollecitare l'emersione anticipata della crisi attraverso una disciplina decisamente più favorevole al concordato in continuità aziendale nel quale non è prevista la limitazione del 20% di pagamento minimo per i chirografari dettata dall'ultimo comma dell'art. 160 l.fall. ed è ridotta dal 40% al 30% la soglia minima di pagamento dei creditori chirografari ai fini dell'ammissibilità delle proposte concorrenti (cfr. art. 163, comma 6, l.fall.). Tale nuovo assetto, considerato che la gran parte dei concordati preventivi presentati dal 2005 ad oggi ha previsto la cessione dei beni, sembra legittimare previsioni negative sul ricorso ai concordati liquidatori; dall'altro lato, invece, non sembrano emergere elementi utili a supportare previsioni di incrementi di concordati in continuità. A ben vedere, infatti, al di là delle intenzioni del legislatore fallimentare, la disciplina novellata del concordato preventivo sembra evidenziare il rischio concreto che anche i pochi concordati in continuità subiranno una forte contrazione. Tale considerazione deriva dalla introduzione di alcune disposizioni che non potranno che essere lette dagli imprenditori come un segnale di distanza e di allontanamento dalla soluzione concordata della crisi. Il riferimento è all'ammissibilità di proposte concorrenti e quindi al rischio concreto di poter perdere l'azienda magari a favore di imprese concorrenti, ma anche al profilo penalistico che invece di essere mitigato nell'ipotesi di soluzione concordata della crisi, sembra essere stato maggiormente valorizzato attribuendo al commissario giudiziale compiti sempre più vicini a quelli propri di un curatore fallimentare piuttosto che a quelli di un organo della procedura avente funzioni essenzialmente informative rispetto ai creditori. Ed è quindi evidente che, a fronte delle considerazioni sopra svolte, la qualificazione giuridica della domanda di concordato, pacificamente di competenza del tribunale, potrà segnare l'ammissibilità o meno della domanda di concordato, ma anche l'ammissibilità o meno di proposte concorrenti, a seconda che la stessa sia qualificata come in continuità, liquidatoria oppure mista.
Per quanto riguarda il concordato con continuità aziendale, la connotazione di maggiore rilevanza è senz'altro costituita dal c.d. rischio di impresa, ossia dalla ricaduta, in capo alla massa dei creditori, degli esiti dell'attività di impresa che il debitore intende proseguire. È infatti un principio oramai largamente condiviso quello di ritenere il rischio d'impresa come elemento connaturale alla prosecuzione dell'attività di impresa. Da ciò deriva che il concordato in continuità è configurabile ogniqualvolta il piano di concordato preveda la prosecuzione dell'attività di impresa con conseguente rischio dei risultati della stessa a carico della massa dei creditori. Rischio di cui i creditori devono essere adeguatamente informati e che deve essere ripagato con il miglior soddisfacimento dei loro crediti. Miglior soddisfacimento che dovrebbe essere indicato dal debitore sulla base di un business plan attestato dal professionista. A fronte della continuità aziendale, la eventuale previsione di cessione di beni c.d. “non funzionali”, in quanto perfettamente in linea con la previsione dettata dall'art. 186-bis l.fall., non costituisce un elemento di segno contrario rispetto alla qualificazione di concordato con continuità aziendale.
La continuità aziendale andrebbe quindi accertata sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo. Si dovrebbe dunque parlare di continuità aziendale solo a fronte della prosecuzione dell'attività di impresa da parte del debitore (c.d. continuità diretta), ma non anche in ipotesi di affitto d'azienda (c.d. continuità indiretta) e successiva cessione, attesa la finalità tipicamente liquidatoria della proposta, oltre al fatto che non vi sarebbe da parte della massa dei creditori la partecipazione ad alcun rischio di impresa, atteso che l'impresa debitrice si limiterebbe a ricevere un canone di affitto che in genere prescinde dall'andamento economico dell'azienda affittata.
Del resto, come già ben evidenziato in dottrina, la disciplina dettata dall'art. 186-bis l.fall. sembra essere riferita esclusivamente alla c.d. continuità diretta, tant'è che mal si presta ad una ipotesi di concordato in continuità indiretta. A tal proposito, si pensi al non senso di un business plan e di una attestazione sul miglior soddisfacimento dei creditori quando la debitrice non gestisce più l'azienda per averla concessa in affitto a terzi, risultando così destinataria del solo pagamento dei canoni senza alcun rischio di impresa; ancora, si pensi al non senso della disciplina di favore relativa alla possibilità di partecipare a procedure di affidamento di contratti pubblici quando la debitrice ha ceduto in affitto l'azienda a terzi; ed ancora, si pensi al non senso della disciplina dettata dall'ultimo comma dell'art. 186-bis l.fall. il quale prevede l'ipotesi della revoca del concordato in caso di cessazione dell'attività di impresa o di attività manifestamente dannosa per i creditori quando la debitrice ha ceduto in affitto l'azienda e quindi la massa dei creditori non è destinata a subire gli effetti eventualmente negativi derivanti dalla gestione dell'azienda.
Sulla base di tali considerazioni, il riferimento letterale alla cessione o al conferimento dell'azienda in esercizio dettato dall'art. 186-bis, comma 1, l.fall. che potrebbe in astratto far rientrare nel concordato in continuità anche l'ipotesi dell'affitto di azienda con successiva cessione o conferimento, andrebbe superato da una lettura sistematica della disposizione di legge in argomento valorizzando la necessaria sussistenza del requisito soggettivo ed oggettivo. In ipotesi di affitto di azienda si dovrebbe parlare quindi di concordato liquidatorio o al più di concordato misto. Ed infatti, volendo valorizzare il dato letterale dettato dal primo comma dell'art. 186-bis l.fall. relativo alla cessione dell'azienda in esercizio, l'ipotesi dell'affitto dell'azienda si ritiene che possa configurare al più un concordato di tipo misto, in quanto si ha il concorso della prosecuzione aziendale e della cessione dei beni.
Il tribunale dovrebbe qualificare il concordato avendo come punto di riferimento due elementi cardine: rischio di impresa e risanamento. Sicché, solo in presenza di una proposta ed un piano di concordato che prevedano il risanamento dell'impresa attraverso la prosecuzione dell'attività di impresa sarà possibile qualificare il concordato come in continuità aziendale.
Tale tipo di concordato richiede, tra le altre disposizioni, che la debitrice assuma una precisa obbligazione nei confronti dei creditori, indicando esattamente la misura del pagamento oggetto della proposta. La nomina di un liquidatore prevista espressamente per l'ipotesi del concordato liquidatorio dall'art. 182 l.fall. così come la procedura competitiva non dovrebbero trovare applicazione nel concordato in continuità anche se fosse prevista la liquidazione di alcuni beni. Tali considerazioni derivano dalle seguenti valutazioni sulla disciplina relativa al concordato in continuità nella quale
(i) non esiste una norma corrispondente all'art. 182 l.fall.;
(ii) il debitore, anche dopo l'omologazione, non viene spossessato dell'azienda e dei beni che invece continua a gestire;
(iii) il debitore si è obbligato a pagare i creditori in misura predeterminata e fissa ed è obbligato a rispettarla pena la risoluzione del concordato se l'inadempimento potrà essere considerato di non scarsa importanza. Del resto, ai sensi dell'art. 185 l.fall., il commissario giudiziale è chiamato a svolgere le sue funzioni di controllo sulle attività del debitore e, soprattutto, sul rispetto della proposta di concordato omologata.
In tale contesto il profilo di maggiore interesse non appare tanto la nomina o meno del liquidatore giudiziale da parte del tribunale, quanto le modalità che devono essere seguite per la cessione del patrimonio ed in tale direzione appare tranciante la nuova disposizione dettata dall'art. 182, comma 5, l.fall. che estende le disposizione dettate dall'art. 105 e ss. l.fall. a tutte le cessione che possano intervenire nel corso della procedura o nella fase di esecuzione del concordato. Liquidazione dei beni che dovrà essere naturalmente monitorata dal commissario giudiziale.
Nell'attività di qualificazione del concordato proposto, il tribunale dovrebbe limitare il proprio sindacato alla fase di esecuzione del piano di concordato e quindi alla fase post omologazione, atteso che la eventuale prosecuzione dell'attività di impresa nel corso della procedura di concordato rientrerebbe nella gestione ordinaria che, come è noto, rimane nella piena disponibilità del debitore. Del resto la prosecuzione dell'attività di impresa nel corso della procedura potrebbe trovare legittima giustificazione anche nell'ambito di un concordato liquidatorio perché tesa a conservare il valore aziendale. La prosecuzione dell'attività di impresa in corso di procedura resta dunque una facoltà del debitore che può essere impedita dagli organi della procedura solo nell'ipotesi in cui dovesse rilevarsi manifestamente dannosa per i creditori.
Per quanto attiene alla fase post omologazione, appare legittimo ritenere che non ogni volta che c'è prosecuzione dell'attività di impresa deve trovare applicazione l'art. 186-bis l.fall.. Il riferimento è all'ipotesi in cui il piano preveda la cessione dell'azienda sul mercato dopo l'omologazione attraverso l'espletamento di una procedura competitiva. In tale ipotesi è infatti fisiologico il decorso di un arco temporale, non prevedibile e variamente lungo a seconda dell'appetibilità dell'azienda posta sul mercato, nel corso del quale si verifica la prosecuzione dell'attività di impresa da parte della debitrice, ma tale circostanza non dovrebbe assumere rilevanza ai fini della qualificazione del tipo di concordato, avendo essenzialmente carattere conservativo del valore aziendale e soprattutto essendo conseguenza di fattori non controllabili dalla debitrice.
Per quanto riguarda il concordato liquidatorio, la connotazione principale è la cessione dei beni ai creditori ovvero la liquidazione dell'intero patrimonio con la conseguente cessazione dell'attività di impresa.
Tra il concordato in continuità e di quello liquidatorio si pone il concordato c.d. misto che la Corte di Appello di Firenze con il provvedimento in esame ha qualificato come un'espressione non tecnica ma utile per indicare quel piano di concordato che, pur prevedendo la continuazione diretta dell'attività di impresa dopo l'omologazione, è comunque finalizzato alla liquidazione del patrimonio della debitrice e non già al suo risanamento.
Partendo dall'assunto che l'impresa in crisi o si risana o si liquida, la Corte di Appello ha evidenziato che non vi sono ipotesi alternative a quelle della liquidazione dell'azienda ovvero al suo risanamento. Risanamento o liquidazione che sono stati declinati dal legislatore fallimentare in due distinti tipi di concordato e rispetto ai quali la libertà di forme enfatizzata con l'art. 160 l.fall. non sembra contrapporsi. Ed infatti, mentre tale ultima disposizione normativa sembra indicare le possibili soluzioni tese al raggiungimento dello scopo in concreto del concordato, che resta, a prescindere dal tipo, la ristrutturazione del debito finalizzata alla soddisfazione dei creditori, il tipo di concordato indica la prospettiva: risanamento o liquidazione, prosecuzione dell'attività di impresa o cessazione dell'attività di impresa.
In tale contesto, tratteggiare il perimetro del concordato misto non appare opera agevole considerata la libertà di forme e mezzi dettata dall'art. 160 l.fall. e quindi l'analisi andrebbe effettuata caso per caso, certamente appare però possibile individuare alcuni elementi la cui coesistenza dovrebbe dare luogo ad una qualificazione giuridica della domanda di concordato come mista. Questi elementi non possono che essere da una lato la continuità dell'attività di impresa e dall'altro la liquidazione di tutto il patrimonio.
Se l'impresa in crisi, a seconda delle diverse realtà, o si risana o si liquida, trattandosi di due soluzioni alternative tra loro, sembrerebbe che nel concordato misto debba necessariamente avere prevalenza una delle due soluzioni e questa non potrà che essere quella liquidatoria. Tale considerazione deriva dalla riflessione sulle diverse possibili combinazioni dei due tipi di concordato. Ed infatti, mentre sembra configurabile una proposta di concordato liquidatoria nella quale si preveda anche la prosecuzione dell'attività di impresa per un arco di tempo ben definito (come nella fattispecie in esame), non sembra altrettanto configurabile una ipotesi di concordato di risanamento che preveda la liquidazione dell'intero patrimonio della debitrice.
Da ciò ne consegue che il concordato c.d. misto dovrebbe essere configurabile solo nell'ipotesi in cui la proposta di concordato ed il piano prevedano la liquidazione dell'intero patrimonio della debitrice nonché elementi tipici del concordato con prosecuzione dell'attività di impresa (in tale prospettiva potrebbe essere valutato anche il concordato nel quale si prevede l'affitto e la successiva cessione dell'azienda in esercizio).
In tale ultima cornice sembra rientrare l'ipotesi di concordato preventivo oggetto dei provvedimenti in esame i quali si sono occupati di una fattispecie nella quale la prosecuzione dell'attività di impresa per tre anni si innesta su una proposta di concordato sostanzialmente liquidatoria avendo ad oggetto tutto il patrimonio della debitrice.
Nel piano proposto dalla debitrice sussiste infatti sia il profilo della continuità diretta dell'attività di impresa con conseguente rischio della stessa in capo ai creditori concorsuali, sia la finalità liquidatoria e non di risanamento, atteso che la debitrice non liquida solo alcuni beni ma tutto il proprio patrimonio. Da ciò consegue che non può trovare applicazione esclusiva la disciplina dell'art. 186-bis l.fall., in primo luogo perché non vi è risanamento dell'azienda e comunque perché detta ultima norma ammette la cessione di beni non funzionali all'esercizio dell'impresa e quindi solo di alcuni beni non strategici e giammai di tutto il patrimonio come invece si prevede nel concordato in esame. Né del resto si potrebbe qualificare come liquidatorio, atteso che ai creditori è stato richiesto di partecipare al rischio di impresa derivante dalla prosecuzione aziendale per tre anni proprio allo scopo di ottenere un miglior soddisfacimento.
Per quanto concerne la disciplina applicabile al concordato c.d. misto, appare condivisibile quella giurisprudenza di merito (Tribunale di Roma 22.4.2015, in questa rivista, con nota di Ravina) che richiama i precedenti giurisprudenziali in tema di contratto misto e quindi alla disciplina unitaria del contratto prevalente, ovvero, in caso di incompatibilità, al criterio dell'integrazione delle discipline relative alle diverse cause negoziali che si incontrano nel contratto misto.
Ed è proprio in stretta osservanza di tale ultimo principio che al concordato misto si ritengono applicabili entrambe le discipline dettate per i due concordati tipici, ossia l'art. 186-bis l.fall. e l'art. 182 l.fall. in quanto compatibili.
Con riferimento invece alla nuova disciplina dettata in tema di ammissibilità (cfr. art. 160, ult. comma, l.fall.), seguendo una interpretazione letterale della norma novellata, sembrerebbe che detta disposizione non sia applicabile a tutte le ipotesi in cui il concordato preveda la prosecuzione dell'attività di impresa. Sicché, a rigore, detto limite di ammissibilità non dovrebbe riguardare i concordati in cui sia prevista la continuità aziendale e, pertanto, non solo quelli in continuità diretta ma anche quelli misti che, seppure con finalità liquidatorie, prevedano la prosecuzione dell'attività di impresa.
Per quanto attiene al limite dettato dall'art. 163, comma 4, l.fall. sembrerebbe che il concordato misto sia sottoposto alla stessa disciplina applicabile al concordato in continuità, atteso che il discrimine tra il limite minimo di pagamento dei creditori chirografari offerto dal debitore con il concordato liquidatorio (40%) e quello in continuità (30%) è costituito proprio dalla previsione della prosecuzione dell'attività di impresa, ipotesi che ricorre nel concordato misto.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

In giurisprudenza: Trib. Monza, 13 febbraio 2015; Trib. Busto Arsizio, 1 ottobre 2014; Trib. Bari 4 maggio 2015; Trib. Arezzo, 27 febbraio 2015; Trib. Bergamo, 10 aprile 2014; Trib. Mantova 10 aprile 2014; Trib. Roma, 22 aprile 2015, cit.; Cass. Civ. n. 22828 dell 12.12.2012; Cass. Civ. S.U. n.11656 del 12.5.2008.
In dottrina: F. Lamanna, Che cos'è e quando è configurabile il cd. concordato “misto”?, su IlFallimetarista.it; C. Ravina, Concordato preventivo misto e nomina del liquidatore giudiziale, su IlFallimetarista.it; F. Di Marzio, Affitto d'azienda e concordato in continuità aziendale, su IlFallimetarista.it; R. Amatore, Concordato con continuità aziendale e affitto d'azienda, su IlFallimentarista.it; G.B. Nardecchia, Cessione dei beni e liquidazione: la ricerca di un difficile equilibrio tra autonomia privata e controllo giurisdizionale, in Fall. 2012, 92 e segg.; M. Fabiani, Fallimento e concordato preventivo, vol. II - Il Concordato preventivo, commento sub art. 2221 cod. civ. (a cura di Scialoja – Branca – Galgano), Bologna, 2014, 720 e segg.

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