Inammissibile il mutamento della proposta concordataria basato sulla ripresa dell’attività d'impresa

Luigi Amerigo Bottai
02 Febbraio 2016

E' inammissibile la proposta di concordato con continuità aziendale formulata dopo la cessazione dell'attività di impresa: la sola modalità concordataria compatibile con la cessazione dell'attività è quella con finalità liquidatoria, ovvero di dismissione del patrimonio aziendale per sopravvenuta incapacità dell'azienda di proseguire l'attività.Configura abuso del mezzo concordatario la scelta di una modalità di concordato non consentita dalla legge e, dunque, come tale giuridicamente non fattibile.
Massima

E' inammissibile la proposta di concordato con continuità aziendale formulata dopo la cessazione dell'attività di impresa: la sola modalità concordataria compatibile con la cessazione dell'attività è quella con finalità liquidatoria, ovvero di dismissione del patrimonio aziendale per sopravvenuta incapacità dell'azienda di proseguire l'attività.

Configura abuso del mezzo concordatario la scelta di una modalità di concordato non consentita dalla legge e, dunque, come tale giuridicamente non fattibile.

Il caso

La vicenda, in sé piuttosto semplice e riducibile a una questione giuridica delimitata, può essere così riassunta: il Tribunale di Arezzo dichiarava inammissibile una domanda di concordato preventivo con continuità aziendale proposta da una s.r.l. dopo la rinuncia in pari data ad altra domanda di concordato, di tipo liquidatorio, per cessazione dell'attività, precedentemente depositata e ammessa (contestualmente veniva altresì dichiarato il fallimento della società). Ciò in virtù della “assoluta e manifesta inattitudine del piano presentato dal debitore a raggiungere gli obiettivi prefissati e, dunque, a realizzare la causa concreta del concordato”. Nella proposta liquidatoria (poi ritirata) si affermava l'impossibilità di proseguire l'attività d'impresa, ormai cessata da due anni, e, pertanto, diveniva contraddittorio fondare la nuova proposta – teoricamente ammissibile dopo la revoca della prima, ribadiva il tribunale – su una auspicata ripresa dell'attività medesima grazie ad un promesso (ma non formalizzato) finanziamento del socio (di soli euro 20.000) in due soluzioni. Ad avviso del primo giudice si configurava, in tal guisa, un indebito utilizzo dello strumento concordatario per protrarre ulteriormente gli effetti protettivi del patrimonio sanciti dall'art. 168 l. fall. nonché i tempi di pagamento dei debiti, in pregiudizio dei creditori.
Il reclamo del debitore era basato, in sintesi, sull'inesistenza di collegamento logico e funzionale tra le due diverse proposte, atteso che il valore del magazzino offerto nella (prima) versione liquidatoria era stato notevolmente ribassato dallo stimatore della procedura e siffatta svalutazione aveva indotto la proponente a cercare di valorizzare i beni in magazzino mediante una scelta imprenditoriale diversa, ossia mettendo al centro del nuovo piano la capacità artistica e personale del socio unico (disegnatore di gioielli). Quanto alla cessazione dell'attività, la debitrice sosteneva invece di averla proseguita nelle more, realizzando flussi di cassa (davvero irrisori, ndr: euro 1.340) dalla vendita di merce in magazzino, in linea con le previsioni del piano.
In sostanza la reclamante lamentava che il giudizio del tribunale si fosse esteso ad una prognosi di fattibilità del piano non ammissibile, perché spettante solo ai creditori.
La Corte d'appello fiorentina conferma il provvedimento del tribunale, soffermandosi a confutare gli argomenti addotti dal reclamante e chiarendo i principi di seguito illustrati.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Il Giudice di seconde cure esordisce ricordando la definizione di concordato in continuità, il quale “presuppone che l'attività di impresa sia proseguita e, dunque, che non sia cessata”, come recita la stessa disposizione dell'art. 186-bis, 1° comma, primo periodo. Qualora l'attività sia cessata l'unica modalità concordataria proponibile “è quella con finalità liquidatoria, ovvero di dismissione del patrimonio aziendale per sopravvenuta incapacità dell'azienda di proseguire l'attività”. Ne discende come sia ipotizzabile unicamente il passaggio da una proposta con continuità, non più perseguibile, ad una liquidatoria, previa cessazione dell'attività: in proposito il Collegio fiorentino ritiene, tuttavia, “ipotesi diversa quella di modifica della proposta di cui all'ultimo comma dell'art. 186-bis l. fall.” (che invece, ad avviso di chi scrive, sembra la medesima fattispecie ipotizzata come possibile).
La sentenza ravvisa un “mero escamotage” nella stessa motivazione del reclamo, laddove, a seguito dell'abbattimento dei 2/3 del valore del magazzino ad opera del consulente del commissario, la debitrice – anziché contraddire con dovizia di argomenti la perizia del c.g. – ha tentato di recuperare “l'intero valore (preteso) del magazzino reimmettendolo nella fase produttiva e commerciale e così proponendo un piano di rientro che non deve scontare la verifica del patrimonio aziendale”. E correttamente rileva come siffatto meccanismo di “illegittimo superamento dell'ostacolo alla validità del piano liquidatorio è impedito, come si è detto (…), dall'intervenuta cessazione dell'attività d'impresa” da oltre un biennio, che non consente di ripresentare una proposta concordataria con continuazione della medesima attività.
Altro effetto di detto tentativo di concatenazione delle proposte è la dilatazione contra legem dei tempi di pagamento dei crediti, in particolare di quelli assistiti da privilegio – complessivamente (sommando i tempi delle due proposte di c.p.) oltre l'anno previsto dal 2° comma, lett. c), dell'art. 186-bis –, con correlata sospensione delle azioni esecutive.
Considerando, infine, le assunzioni della prima proposta (una crisi di liquidità insostenibile e l'impossibilità di proseguire l'attività a causa di “carenze strutturali dell'organizzazione imprenditoriale per assenza di un'efficiente rete commerciale”), l'attività aziendale in discorso avrebbe dovuto essere ripresa e non continuata; e la confessata mancanza di liquidità non sarebbe stata certo ovviata con la promessa di un modesto finanziamento del socio (per soli euro 20.000), per giunta in due rate distanziate nel tempo, non formalizzato, né garantito e neppure postergato.
In conclusione, per la Corte d'appello, i rilievi dei primi giudici non infrangevano il divieto di valutazione della fattibilità economica del nuovo piano in continuità, ma concretizzavano “la serie di considerazioni volte a soppesare la serietà della proposta nel contesto di una valutazione della sussistenza di una ipotesi di abuso del mezzo concordatario di cui si è detto”.

Osservazioni: A) Sull'utilizzo della figura dell'abuso nel c.p.

Le conclusioni del giudice d'appello fiorentino, al pari di quelle del tribunale di Arezzo in primo grado, sono assolutamente ineccepibili (l'inammissibilità del concordato), salvo forse che per una questione nominalistica: ossia per il ricorso, da parte dei giudici, alla figura dell'abuso del diritto – i.e. dello strumento concordatario -, laddove sarebbe stato forse più lineare attribuire la sanzione dell'inammissibilità della seconda proposta al difetto di un presupposto essenziale e, in concreto, al combinato disposto degli artt. 160-162, cpv., e 186-bis l. fall. sub specie di manifesta non fattibilità sia dal punto di vista giuridico che economico, in conformità ai canoni interpretativi delineati nella nota pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione n. 1521/2013. La fattispecie oggetto di decisione verteva, infatti, sulla pretesa del debitore di riattivare un'attività commerciale cessata di fatto da due anni e di trasformare un concordato preventivo di tipo liquidatorio, già aperto dal tribunale, in un concordato con continuità aziendale (previa revoca del precedente) sia pur i) in difetto di un'organizzazione imprenditoriale efficiente, per ammissione della stessa società proponente, ii) di sicuri e sufficienti finanziamenti – l'impegno del socio, oltre ad essere irrisorio, non risultava vincolante – e iii) nell'intento di neutralizzare una svalutazione del magazzino, non confutata con (idonea) controperizia.
Ora, la conclamata assenza degli elementi costitutivi per l'esercizio di un'impresa (art. 2082 c.c.) – organizzazione aziendale, risorse per l'avvio e base minima di clientela – preclude qualsiasi tentativo di imporre ai creditori una procrastinata sospensione dei loro diritti (art. 2910 c.c.) ovvero un allungamento dei tempi di recupero delle loro pretese non legittimato dalla legge fallimentare, perché basato non su un piano seriamente attestato, ma sulla mera speranza di realizzare un attivo da distribuire (“velleitaria” è l'aggettivo usato dalla Corte d'appello).
Le condizioni minime di ammissibilità sono previste, invero, dagli artt. 160-161 e 186-bis l. fall. e obbligano il tribunale, che ha il dovere di esercitare il controllo di legittimità sostanziale sul giudizio di fattibilità della proposta – come statuisce il Supremo Collegio nella citata sentenza e già prima in Cass. 15.9.2011, n. 18864 –, a dichiarare l'inammissibilità della proposta di concordato, a termini dell'art. 162, “ove constati l'assenza dei presupposti di cui all'articolo 160, commi 1 e 2, e articolo 161” (dal 2012 occorre altresì l'analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell'attività e le modalità di copertura del fabbisogno ex art. 186-bis; ora si aggiunge anche la verifica della soglia minima di pagamento del 20% ai chirografi ex art. 160, 4° comma, per effetto del D.L. n. 83/2015, conv. con modif. nella L. n. 132/2015), “in essi compresi quindi anche quelli concernenti la veridicità dei dati indicati e la fattibilità del piano”. Fattibilità che, seppure debba essere attestata dal professionista indipendente - le cui funzioni sono “assimilate” dalla giurisprudenza a quelle di un ausiliario del giudice in virtù delle prerogative attribuitegli, fra l'altro, dagli artt. 182-quinquies e 186-bis -, si traduce in una “prognosi circa la possibilità di realizzazione della proposta nei termini prospettati”. Il che implica, con riferimento alla fattibilità economica - la quale presenta ovviamente fisiologici margini di opinabilità e possibilità di errore, a rischio esclusivo dei creditori interessati -, che il giudice (peritus peritorum) soltanto nei casi di manifesta inattuabilità della proposta, “verificata l'assoluta impossibilità di realizzazione, diviene legittimato ad assumere una decisione contrastante con le indicazioni del professionista attestatore” (Cass. S.U. n. 1521/13 e successive conformi). Ciò in quanto sussistono “evidenti manifestazioni di riflessi pubblicistici” della procedura, che si compendiano nell'esigenza di tener conto anche degli interessi di soggetti ipoteticamente non aderenti alla proposta, attuati mediante la fissazione di una serie di regole processuali inderogabili, nonché con il potenziamento dei margini di intervento del giudice in chiave di garanzia (v. punto 12.2 della sent. n. 1521/13). Il tutto con la finalità esplicita di riscontrare l'esistenza della “causa concreta del procedimento di concordato”, tramite l'accertamento delle modalità con le quali le parti dovrebbero realizzare la composizione dei rispettivi interessi.
Non si tratta, quindi, di un bilanciamento di interessi operato discrezionalmente dal tribunale, bensì dell'attuazione del diritto (dei creditori)-dovere (del giudice) di impedire che il debitore possa presentare domande di concordato, con o senza riserva, con una mera ed evidente finalità dilatoria. In simili casi, afferma ancora di recente la Corte di legittimità nella sua più alta composizione (cfr. Cass. S.U. 15.5.2015, n. 9935, commentata per questa Rivista da F. Lamanna, La retromarcia delle SS.UU. sull'ipotizzata abrogazione del principio di prevenzione/prevalenza del concordato preventivo rispetto al fallimento: come non detto, il principio ancora esiste), “quando cioè lo scopo del debitore non è quello di regolare la crisi dell'impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma quello di differire la dichiarazione di fallimento, la proposta di concordato si deve considerare inammissibile, secondo i principi affermati da questa Corte in tema di abuso del processo, che ricorre quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l'ordinamento li ha predisposti (Cass. S.U. 15 novembre 2007, n. 23726; Cass. 2 ottobre 2013, n. 22502; Cass. 22 gennaio 2014, n. 1271)” (cui adde Cass. 24.10.2012, n. 18190).
Una parte della dottrina ha peraltro rilevato, sul punto, come “il perimetro della nozione di abuso, per sua stessa coerenza, è tutt'altro che sicuro” e che, dunque, l'utilizzo dell'argomento giurisprudenziale dell'abuso del diritto - criterio che non assurge direttamente a principio generale dell'ordinamento e necessita per la sua configurazione della clausola generale della buona fede in senso oggettivo - sia sovente ultroneo allorché esistano le norme e/o gli strumenti “per dichiarare inammissibile o revocare non omologare un concordato per suoi difetti intrinseci”, con il rischio, per la fondamentale esigenza di certezza del diritto (e per le chance di sopravvivenza delle imprese meritevoli), che le corti trovino più comodo percorrere la scorciatoia dell'abuso del diritto, anziché identificare le disposizioni legislative adeguate per pervenire alla soluzione (M. Fabiani, Di un'ordinata decisione della Cassazione sui rapporti fra concordato preventivo e procedimento per dichiarazione di fallimento con l'ambiguo addendo dell'abuso del diritto, Foro it., 2015, I, 2338; molteplici, in giur., le decisioni che evocano l'abuso dello strumento concordatario: v. Trib. Milano, 12.6.2014; Trib. Roma, 17.7.2014; Trib. Napoli Nord, 25.2.2015, solo per citare le più recenti).
Nel caso in commento non appariva del tutto fuori luogo la figura dell'abuso, stando alla definizione di essa offerta dalla Cassazione nella sentenza appena riportata; non poteva però reputarsi sicuro l'obiettivo del debitore di perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l'ordinamento ha predisposto lo strumento processuale adottato (in tema cfr. diffusamente G. D'Attorre, L'abuso del concordato preventivo, Giur. comm., 2013, II, 1059; e R. Bonsignori-P. Rainelli, Abuso del diritto nel concordato preventivo con riserva, Giur. comm., 2014, 474, per i quali ultimi il carattere abusivo di una proposta va ravvisato nella compressione illegittima degli interessi dei creditori “in quanto meramente dilatoria e non genuinamente strumentale alla predisposizione di un piano”, ma l'affermazione suona più come una tautologia; in questa Rivista sono numerosi i contributi pubblicati sull'argomento che ragioni di spazio non consentono di menzionare).
Era invece palese l'insussistenza delle basilari condizioni di ammissibilità del concordato. Perché allora addebitare intenzioni riprovevoli ad un soggetto quando il suo comportamento è sussumibile in precise norme di legge? Era infatti disponibile l'intero assetto normativo violato dalla società proponente un secondo concordato, in pretesa continuità, dopo la rinuncia al primo (liquidatorio), dal momento che gli artt. 160-162 e 186-bis l. fall. e l'art. 2082 c.c. negano ingresso a domande concordatarie imperniate sulla prosecuzione dell'attività di imprese non più in esercizio da anni e ormai disgregate, nonché su piani e proposte manifestamente non fattibili né giuridicamente, né economicamente (in difetto, ad es., dell'analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi e delle modalità di copertura dei primi, ex art. 186-bis) per le ragioni dianzi esposte e riassumibili nella mancanza dei requisiti dell'organizzazione imprenditoriale efficiente (confessata dalla medesima società), dei sicuri e sufficienti finanziamenti (la mera promessa del socio di apportare ventimila euro in due tempi non era vincolante) e nell'intento di neutralizzare una svalutazione del magazzino, non confutata con idonea controperizia (che rappresenta una grave lacuna del piano).
Come è stato acutamente osservato “l'argomento dell'abuso rientra, sia pure in senso lato, nel genere dei ragionamenti per analogia, che operano riconducendo i casi sotto disposizioni che a prima vista non li concernono. Quel che in esso c'è di specificamente diverso è che mentre con l'analogia, invocando l'identità di ratio si applica una disposizione ad un caso (formalmente e strutturalmente, ma non teleologicamente) diverso, che non è regolato, con l'abuso, invocando l'identità di ratio, si applica una disposizione ad un caso (formalmente e strutturalmente, ma non teleologicamente) diverso, che è regolato. Regolato da una diversa disposizione, che grazie all'argomento dell'abuso viene disapplicata. L'atto dichiarato abusivo ha infatti la sua (diversa) regola, e l'argomento dell'abuso serve appunto a sottrarlo a quella altrimenti normale” (A. Gentili, Abuso del diritto e uso dell'argomentazione, Resp. Civ. e Prev., 2010, 354 ss., il quale conclude affermando che “La morale è spesso un'opinione. La logica un argomento”).

B) Sulla cessazione dell'attività d'impresa

Su una seconda questione la sentenza in commento offre uno spunto di approfondimento: la società debitrice aveva rinunciato alla proposta di concordato liquidatorio già ammessa dal tribunale (a causa della sottovalutazione del magazzino operata dal commissario, che avrebbe quasi azzerato la percentuale destinata ai chirografi) per ripresentare contestualmente una nuova proposta di tipo ristrutturatorio, fondata sulla ripresa dell'attività aziendale (ma non congruamente documentata nei suoi presupposti essenziali). Siffatta modifica, sebbene possa configurarsi quale mutatio libelli sotto il profilo “processuale”, è stata dichiarata inammissibile per difetto dei presupposti fattuali, in quanto l'attività d'impresa risultava ampiamente cessata e priva dell'organizzazione e delle risorse indispensabili.
Su tale aspetto giova soffermarsi brevemente poiché si rivela non infrequente nella pratica: quando può dirsi cessata l'attività d'impresa di una società di capitali, al fine di qualificare il tipo di concordato che la stessa proponga e individuare le norme applicabili? La giurisprudenza di merito fornisce risposte piuttosto univoche: per Trib. Busto Arsizio, 1.10.2014 “non si potrebbe mai configurare un concordato preventivo in continuità nel caso in cui l'attività d'impresa fosse di fatto cessata già alla presentazione della domanda o nelle more dell'omologazione, secondo quanto precisato dall'art. 186-bis, ultimo comma, l.f.”.
Trib. Cuneo, 29.10.2013 enuncia come lo spartiacque tra concordato liquidatorio e concordato con continuità aziendale, secondo il disegno introdotto dal d.l. n. 83/12, conv. in legge n. 134/12, sia di tipo oggettivo e non soggettivo, rilevando precipuamente che l'azienda sia in esercizio tanto al momento dell'ammissione al concordato, quanto all'atto del suo successivo trasferimento. Mentre Trib. Ravenna, 19.8.2014, opina che “nel concordato con continuità aziendale l'eventuale cessazione dell'attività di impresa determini un nuovo caso di revoca ex art. 173 l.f. della procedura”, fatta salva l'ipotesi della modifica del piano e della proposta.
Tuttavia merita segnalazione la posizione di Trib. Roma, 27.1.2015 (c.p. NIE spa, n. 100/14, ined.), secondo cui il tribunale deve verificare se la proposta di concordato che si autodefinisca liquidatoria abbia ad oggetto gli assets dell'impresa atomisticamente considerati ovvero il complesso dei beni (o parte significativa di essi), materiali e immateriali, destinati all'esercizio dell'azienda, ivi inclusi i rapporti di lavoro, in presenza di una organizzazione quantomeno latente. In tal senso, affermano i giudici romani, la proposta concordataria va qualificata in continuità indiretta, per via dello stipulando contratto di affitto d'azienda (di cui si chiedeva l'autorizzazione ex art. 161, comma 7) e della previsione di vendita certa all'affittuario post omologa.
La circostanza che l'azienda sia apparentemente cessata (nella specie, l'azienda giornalistica non editava più il quotidiano da molti mesi) deve indurre il giudice – al fine di stabilire la disciplina applicabile - ad analizzare gli elementi che consentano di “avvalorare la permanenza di una situazione aziendale sia pure in forte stato di crisi” pur sempre recuperabile, ovvero, all'opposto, di constatarne lo smantellamento definitivo. E rammenta come “i casi di società senza impresa sono di incerta configurabilità”, perché “l'imprenditore si mantiene tale nonostante il definitivo abbandono dell'attività caratteristica e dunque la liquidazione si presenta, ancora e a tutti gli effetti, attività d'impresa sia pure funzionale alla liquidazione del patrimonio sociale”. Benché al momento della presentazione della domanda l'insieme dei beni organizzati non sia più produttivo, perché l'attività è cessata, ciò non esclude che l'azienda presenti ancora una residua potenzialità e che possa essere attuata una vicenda circolatoria di essa o di suoi rami (cfr. Cass. n. 14647/2002 e Cass. n. 4700/2003; in dottrina, per una compiuta illustrazione del concetto di valore organizzativo delle imprese insolventi, si v. A. Rossi, Il valore dell'organizzazione nell'esercizio provvisorio dell'impresa, Milano, 2013).
Nel caso oggi in commento, si ripete, l'azienda risultava “ferma” da tempo, incapace di prosecuzione; e proprio la richiesta di un concordato liquidatorio (già ammesso e poi rinunciato lo stesso giorno della presentazione della nuova proposta “in pretesa continuità”, senza affitto) dimostrava inequivocabilmente che la seconda domanda - la quale presupponeva una situazione tutta ancora da verificare - altro non era che un espediente volto solo a protrarre gli effetti protettivi di cui all'art. 168 l. fall., non certo che l'impresa fosse realmente in esercizio in funzione dell'applicazione delle tutele previste dall'art. 186-bis l. fall.
In conclusione, se pure giuridicamente la cessazione di un'impresa in capo a una società non può dirsi formalizzata se non con la cancellazione del soggetto dal Registro delle imprese (a seguito di liquidazione), a differenza di quanto avviene per gli imprenditori individuali (art. 2196, cpv., c.c.), per i quali l'iscrizione del “fatto” della cessazione, pur obbligatoria, non ha efficacia costitutiva (sul punto si rinvia, per tutti, a V. Buonocore, Imprenditore, voce Enc. Dir., Milano, 1970), si deve convenire con la massima del decreto in commento, secondo cui la sola modalità concordataria compatibile con la cessazione (di fatto) dell'attività è quella con finalità liquidatoria, ovvero di dismissione del patrimonio aziendale per sopravvenuta incapacità dell'azienda di proseguire l'attività.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Per chiarezza espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti, i principali contributi dottrinari e le disposizioni normative interessate direttamente nell'esposizione delle questioni e nelle osservazioni.

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