Concordato preventivo: prime applicazioni delle nuove disposizioni di cui al d.l. 83/2015

Chiara Ravina
25 Novembre 2015

Deve ritenersi che la nuova disposizione di cui all'art. 161, comma 2, lett. e), l. fall., anche se prevede che “in ogni caso la proposta deve indicare l'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore”, non si risolva nell'introdurre un vincolo contenutistico della proposta che possa qualificarsi in termini di promessa di pagamento di una determinata percentuale del credito (salvo espressa indicazione in tal senso contenuta nella proposta). In un concordato con cessione dei beni l'utilità “assicurata” ai creditori è costituita dai beni messi a disposizione, posto che una cosa è l'utilità ceduta, altra cosa è la misura della soddisfazione da essa ottenibile, rispetto alla quale, in assenza di espressa obbligazione in tal senso, non vi è un impegno da parte del debitore.
Massima

Deve ritenersi che la nuova disposizione di cui all'art. 161, comma 2, lett. e), l. fall., anche se prevede che “in ogni caso la proposta deve indicare l'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore”, non si risolva nell'introdurre un vincolo contenutistico della proposta che possa qualificarsi in termini di promessa di pagamento di una determinata percentuale del credito (salvo espressa indicazione in tal senso contenuta nella proposta).

In un concordato con cessione dei beni l'utilità “assicurata” ai creditori è costituita dai beni messi a disposizione, posto che una cosa è l'utilità ceduta, altra cosa è la misura della soddisfazione da essa ottenibile, rispetto alla quale, in assenza di espressa obbligazione in tal senso, non vi è un impegno da parte del debitore.

La lettura combinata dell'art. 161, comma 2, lett. e), l. fall. e del nuovo art. 160, comma 4, l. fall. - secondo il quale “la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell'ammontare dei crediti chirografari” - comporta che la soglia minima di accesso a qualsivoglia tipologia di concordato, con esclusione di quello in continuità, non sta nella previsione di un pagamento/soddisfazione di almeno il 20% dei creditori chirografari (e privilegiati falcidiati), ma nell'assicurazione di un tale grado di soddisfazione, con la precisazione che il termine “assicurare” , pur non potendo essere inteso nel senso di “garantire”, seppur relativo a valutazioni prognostiche, non si identifica con una mera previsione probabilistica.

Il termine “pagamento” contenuto nel nuovo quarto comma dell'art. 160 l. fall. deve essere inteso nel senso più generale di “soddisfazione”.

La regola generale sulla soglia minima di accesso al concordato di cui all'art. 160, comma 4, l. fall. determina un riflesso anche sulla percentuale minima di accesso alla specifica procedura ex art. 186-bis l. fall. seppur non codificata. Infatti, per coerenza sistematica, la “sia pur minimale consistenza del credito” da proporre ai creditori affinché possa dirsi realizzata la causa in concreto del concordato in continuità deve attestarsi su percentuali di almeno il 5%.

Sembra desumibile dall'art. 163, comma 5, l. fall. che, anche nel concordato in continuità, la proposta, seppure non vincolata dalla soglia legale di accesso, debba comunque essere formulata non in termini di previsione, ma di assicurazione della percentuale di soddisfazione, così come previsto dall'art. 163, comma 5, l. fall. per sancire l'inammissibilità delle proposte concorrenti nel concordato in continuità.

Il limite dell'abuso del diritto induce a ritenere che, in caso di concordato c.d. misto, l'applicabilità della percentuale minima di accesso del 20% di cui all'art. 160, comma 4, l. fall. debba essere verificata in base al criterio della prevalenza, così dovendo ritenersi applicabile ogni qual volta il ricavato dalla liquidazione dei beni estranei al segmento della continuità rappresenti la quota principale dell'attivo concordatario, rispetto ai flussi di cassa destinati in tutto o in parte ala soddisfazione dei creditori.

La valutazione di merito sulla concreta realizzabilità del piano e, dunque, del concretizzarsi dell'effettivo pagamento della percentuale indicata nella proposta, attiene alla fattibilità economica del concordato e, come tale, è rimessa al giudizio dei creditori, con esclusione del sindacato del tribunale, in ossequio alla distinzione tra fattibilità giuridica e fattibilità economica indicata dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite (n. 1521/2013).

Con la domanda di cui all'art. 161, comma 6, l. fall. il debitore non introduce un procedimento concordatario, ma si riserva soltanto la possibilità di farlo in alternativa al deposito della domanda di un accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all'articolo 182-bis l. fall.; il che consente di affermare che la presentazione di una domanda di pre-concordato non configuri il “procedimento introdotto” ai sensi dell'art. 23 del d.l. n. 83/2015.

Il caso

Il decreto del Tribunale di Pistoia oggetto di commento riguarda la proposta di concordato preventivo di una società strutturata secondo lo schema del concordato con continuità aziendale con la liquidazione di alcuni beni non strategici. La particolarità della fattispecie è data dal fatto che il ricorso ex art. 161, comma 6, l. fall. era stato depositato nel regime anteriore all'entrata in vigore del d.l. n. 83/2015, laddove il termine per il deposito della proposta e del piano di concordato venivano a scadenza successivamente all'entrata in vigore della legge di conversione.
Il Tribunale di Pistoia ritiene che la fattispecie in esame debba essere assoggettata al nuovo regime introdotto dal d.l. n. 83 /2015, ivi inclusi i presupposti di ammissibilità previsti agli artt. 160, comma 4 e 161, comma 2, lett. e), l. fall. Nel caso specifico, la proposta viene dichiarata inammissibile in considerazione del mancato soddisfacimento del requisito di cui all'art. 160, comma 4, l. fall., in quanto, secondo il tribunale, la proposta non conteneva l'assicurazione del pagamento della percentuale del 20% prescritta dalla legge.
Preliminarmente alla decisione nel merito, il tribunale svolge una lunga analisi delle principali novità normative in materia di concordato preventivo introdotte dal d.l. n. 83/2015 su cui ci soffermeremo nella presente nota critica.

Le questioni giuridiche e le (“discutibili”) soluzioni del Tribunale

Il decreto del Tribunale di Pistoia oggetto di commento rappresenta il primo arresto (edito) contenente una possibile (e, a nostro avviso, non condivisibile) interpretazione delle novità normative in materia di concordato preventivo introdotte dal d.l. 27 giugno 2015 n. 83 recante “Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria” convertito con modificazioni dalla L. 6 agosto 2015, n. 132 (in SO n. 50, relativo alla G.U. 20/08/2015, n. 192) (di seguito, il “d.l. n. 83/2015”).
Infatti, gran parte del decreto viene dedicata, più che alla soluzione del caso concreto, a “dare conto della nuova normativa che rileva in sede di ammissione della proposta [di concordato ndr], del suo significato letterale e sistematico e dei poteri di indagine che il Tribunale assume nel nuovo contesto”. Come vedremo, dopo una lunga trattazione sul contenuto e sulla portata delle nuove norme, il Tribunale perviene ad una soluzione del caso di specie del tutto incoerente con l'interpretazione delle norme medesime fornita poco sopra.
In particolare, il Tribunale concentra la sua attenzione sull'interpretazione delle disposizioni che seguono: (i) il requisito di ammissibilità della proposta concordataria previsto all'art. 161, comma 2, lett. e), l. fall. ai sensi del quale “in ogni caso, la proposta deve indicare l'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore”; (ii) il requisito di ammissibilità della proposta concordataria per i concordati diversi da quello in continuità ex art. 186-bis l. fall. prevista dall'art. 160, comma 4, l. fall. ai sensi del quale: “In ogni caso la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell'ammontare dei crediti chirografari. La disposizione di cui al presente comma non si applica al concordato con continuità aziendale di cui all'art. 186-bis l. fall.”; (iii) i termini in cui i requisiti di ammissibilità della proposta concordataria previsti, rispettivamente, agli artt. 160, comma 4 e 161, comma 2, lett. e), l. fall. possono essere declinati nell'ambito del concordato con continuità ex art. 186-bis l. fall. e del concordato c.d. misto; (iv) l'ambito del sindacato del Tribunale sulla sussistenza dei requisiti di ammissibilità della proposta concordataria previsti agli artt. 160, comma 4 e 161, comma 2, lett. e), l. fall.; e (v) la disciplina transitoria: al riguardo, il Tribunale si interroga sull'applicabilità o meno delle previsioni di cui al d.l. n. 83/2015 in uno scenario, quale quello della fattispecie oggetto di decisione, in cui il ricorso ex art. 161, comma 6, l. fall. era stato proposto prima dell'entrata in vigore del decreto legge, mentre il piano e la proposta venivano depositati successivamente all'entrata in vigore della legge di conversione.
Veniamo ora a sintetizzare brevemente la posizione del Tribunale su ciascuna delle questioni sopra menzionate sub (i)(iv) e, per ciascuna di esse, a svolgere in calce alcune osservazioni critiche. Quanto alla questione sub (v) ci limitiamo ad evidenziare che almeno su questo punto l'impostazione del Tribunale di Pistoia appare condivisibile. Sulla medesima tematica si è peraltro recentemente pronunciato, in senso divergente, il Tribunale di Trento con decreto 15 ottobre 2015.

(i) Il requisito di ammissibilità della proposta concordataria ex art. 161, comma 2, lett. e), l. fall.: l'indicazione dell'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il debitore si obbliga ad assicurare a ciascun creditore.
Secondo il Tribunale di Pistoia, il requisito in parola si riferirebbe a null'altro di più che all'obbligo del proponente il concordato di mettere a disposizione dei creditori il proprio patrimonio (che costituirebbe, pertanto, l'“utilità economicamente valutabile” cui la norma si riferisce), senza che la norma possa essere interpretata nel senso della natura vincolante ed obbligatoria della percentuale di soddisfacimento dei creditori promessa nella proposta (per la tesi della natura obbligatoria della percentuale cfr., F. LAMANNA, La legge fallimentare dopo la miniriforma del D.l. n. 83/2015, Milano, 2015, 23 et seq.).
In altri termini, stando al Tribunale, nulla sarebbe cambiato rispetto al previgente sistema ed andrebbe, anzi, confermato quell'orientamento espresso in alcuni arresti della Suprema Corte – peraltro, già allora, non da tutti condiviso (cfr. contra, Tribunale Milano, decreto 10 maggio 2012) - secondo cui nei concordati con cessione dei beni (modellati sullo schema della c.d. cessio bonorum) la misura di soddisfacimento dei creditori indicata nella proposta non sarebbe obbligatoria per il proponente; quest'ultimo, pertanto, potrebbe fruire del beneficio dell'esdebitazione totale ex art. 184 l. fall., anche laddove il soddisfacimento offerto in concreto ai creditori dovesse essere inferiore a quello indicato nella proposta concordataria (su cui – ci permettiamo di rilevare - i creditori hanno espresso il proprio consenso).
Del resto – dice il Tribunale – non può essere eliminata l'alea connessa all'esito satisfattivo derivante dalla cessione di un patrimonio nel suo complesso.
Al riguardo, il Tribunale si spinge addirittura ad affermare che, nella riforma del 2015, non vi sarebbe traccia alcuna di un intento del legislatore nel senso della obbligatorietà della percentuale di soddisfacimento proposta ai creditori. Inoltre, per corroborare la propria tesi, il Tribunale rileva come “neppure nel sistema concordatario risalente vi era traccia di un impegno vincolante da parte del debitore a corrispondere la percentuale minima normativamente prevista (40%) tanto che l'allora vigente art. 186 comma 2 l. fall. prevedeva che il concordato non si risolveva se fosse stata ricavata una percentuale inferiore al 40%”.
Orbene, a nostro modesto avviso, l'interpretazione offerta dal Tribunale di Pistoia non è condivisibile e va fermamente negata, in quanto non solo fornisce una lettura della normativa contraddittoria - che non risulta in linea né con il dato letterale, né con l'intento del legislatore espresso nella Relazione accompagnatoria al d.l. n. 83/2015 – ma, soprattutto, ha una portata sostanzialmente demolitiva delle novità introdotte dal legislatore della riforma.
In altri termini, se l'orientamento espresso dal tribunale in questione dovesse affermarsi tra gli interpreti, si finirebbe per vanificare l'intento legislativo di questa riforma, consistente, inter alia, nell'incentivare condotte virtuose del debitore, che massimizzino la recovery per il ceto creditorio ed impediscano la presentazione di proposte di concordato che lascino del tutto incerta ed aleatoria la misura del soddisfacimento del ceto creditorio.
Ciò detto, veniamo ad evidenziare in dettaglio i profili di incoerenza dell'interpretazione offerta dal Tribunale.
In primo luogo, prendendo le mosse dal dato letterale, non si può ignorare l'utilizzo da parte del legislatore, dei termini “specificamente”; “obbliga ad assicurare”; “ciascun creditore”. Se, infatti, fosse vero che l' ”utilità” cui la norma si riferisce è genericamente il patrimonio del debitore, allora non si spiegherebbe come tale utilità possa essere “specificamente” indicata nella proposta. Anche il riferimento a “ciascun creditore” porta ad escludere che l' ”utilità” possa identificarsi genericamente con il patrimonio del debitore, il quale tutt'al più viene “ceduto” agli organi della procedura ed al liquidatore (e, quindi, alla massa) per i relativi adempimenti di liquidazione (sullo schema del concordato con cessio bonorum) ma certamente non a “ciascuno” dei creditori.
Dirimente, poi, risulta l'espresso riferimento ad un “obbligo di assicurare” in capo al proponente, laddove il termine “assicurare” nella lingua italiana è sinonimo di “promettere” e “garantire”. Non solo: la sintassi dell'espressione contenuta nella norma in esame rende evidente che l' “obbligo” si riferisce chiaramente all' “assicurare” una certa e specifica “utilità”; il che impedisce di ritenere che l' “utilità” possa identificarsi con il patrimonio in generale, essendo piuttosto ovvio che in un concordato il patrimonio del debitore venga messo a disposizione dei creditori; anche perché, in mancanza, non si vede come potrebbe prodursi l'effetto esdebitatorio sotteso all'art. 184 l. fall.
Ma veniamo all'affermazione del Tribunale secondo cui non vi sarebbe traccia, nella riforma del 2015, di un intento del legislatore di imporre al debitore la formulazione di una promessa, con indicazione esplicita e specifica della percentuale di pagamento offerta. Tale affermazione lascia sinceramente perplessi, in quanto nella Relazione di accompagnamento al d.l. n. 83/2015 si dà espressamente atto che la modifica dell'art. 161 l. fall. ha come finalità quella di “evitare che possano essere presentate proposte per l'ammissione alla procedura di concordato preventivo che lascino del tutto indeterminato e aleatorio il conseguimento di un'utilità specifica per i creditori”. E qual è l'utilità che il creditore ottiene da un concordato? Evidentemente il pagamento del suo credito in una certa percentuale ovvero altra utilità diversa dal denaro (ad es. la datio in solutum di un bene, e finanche la prosecuzione di contratti in corso) che sia misurabile in termini percentuali, come il pagamento.
Quanto all'obiezione del Tribunale - secondo cui l'interpretazione che qui si sostiene finirebbe per portare all' “estinzione” del concordato per cessione dei beni in quanto l'alea connessa alla liquidazione è ineliminabile – ad essa si può replicare sotto un duplice profilo: da un lato, il debitore rimane comunque tutelato dai principi civilistici in materia di “non scarsa importanza dell'inadempimento” ex art. 1455 c.c., nel senso che non ogni scostamento tra percentuale promessa e percentuale effettivamente pagata legittima la risoluzione per inadempimento del concordato, ma solo quello che supera il limite della non scarsa importanza (al riguardo si consideri come la giurisprudenza milanese abbia affermato a più riprese che è rilevante ai fini risolutori l'inadempimento in cui lo scostamento rispetto alla percentuale promessa supera il 25%); dall'altro lato, non si vede perché il concordato preventivo debba essere la soluzione di crisi aziendali di ogni e qualsivoglia gravità e non soltanto di quelle in cui il valore dell'azienda sia ancora tale da consentire al proponente di mantenere la promessa fatta ai creditori in termini di soddisfacimento. Purtroppo, negli ultimi anni e, in particolare, successivamente all'entrata in vigore del Decreto Sviluppo del 2012 che ha introdotto l'istituto del c.d. concordato in bianco, la prassi ci ha ormai abituati a concordati preventivi di natura liquidatoria in cui le percentuali offerte ai creditori sulla carta si discostano in maniera notevole da quelle effettivamente pagate; spesso le prime vengono “sovrastimate” in sede di proposta al fine di ottenere l'approvazione dei creditori, con la “consapevolezza” e “tranquillità” che quand'anche la percentuale indicata non dovesse realizzarsi in concreto, comunque non verrebbe meno l'effetto esdebitatorio per l'intero ai sensi dell'art. 184 l. fall.
Il predetto assetto – che il Tribunale di Pistoia pare voler “difendere” in tutti i modi - contrasta palesemente anche con il dato normativo della cessio bonorum civilistica, laddove l'art. 1984 c.c. prevede espressamente come normale che in caso di cessione di tutti i beni ai creditori, l'effetto esdebitatorio sia limitato solo alla percentuale concretamente pagata (“Se non vi è patto contrario, il debitore è liberato verso i creditori solo dal giorno in cui essi ricevono la parte loro spettante sul ricavato della liquidazione, e nei limiti di quanto hanno ricevuto”) (cfr. F. LAMANNA, L'inammissibilità di una promessa di pagamento nel concordato preventivo entro un “range” tra un minimo e un massimo, in questo portale).
Veniamo ora all'argomentazione del Tribunale di Pistoia secondo cui neppure nel sistema concordatario risalente la percentuale del 40% era vincolante, come dimostrerebbe il fatto che, ai sensi dell'art. 186, comma 2, l. fall., il concordato non si risolveva quand'anche dalla liquidazione dei beni si fosse ricavata una percentuale inferiore.
Tale argomentazione merita alcune precisazioni. In primo luogo, la previsione di esenzione dalla risoluzione riguardava il “concordato mediante cessione dei beni di cui all'art. 160, comma 2, n. 2) l. fall.” ovverosia quel concordato in cui il debitore offriva ai creditori per il pagamento la cessione di tutti i suoi beni “sempreché la valutazione di tali beni faccia fondatamente ritenere che i creditori possano essere soddisfatti almeno nella misura indicata nel n. 1)” (ovverosia del 40%); l'esenzione quindi non si applicava all'altra tipologia di concordato prevista all'art. 160, comma 2, n. 1), l. fall. in cui il debitore offriva “serie garanzie reali o personali di pagare almeno il quaranta per cento dell'ammontare dei crediti chirografari entro sei mesi dalla data di omologazione del concordato”.
Orbene, già nel vigore del sistema concordatario risalente autorevole dottrina evidenziava come il concordato con cessione – nato per tutelare quell'imprenditore che non era in grado di procurarsi garanzie da terzi e che pertanto poteva offrire in garanzia solo il suo stesso patrimonio – aveva fornito ai callidi profittatori delle proprie e delle altrui disgrazie un comodo espediente per evitare il fallimento, dietro il pagamento di una modesta, se non addirittura inesistente percentuale, giovandosi dell'improvvida norma che vieta la risoluzione del concordato mediante cessione” (così, A. BONSIGNORI, Dell'ammissione alla procedura di concordato preventivo, commento sub art. 160 l. fall., in Commentario alla legge fallimentare (a cura di) F. BRICOLA – F. GALGANO – G. SANTINI, Bologna, 1979, p. 60).
Infatti, già allora la dottrina aveva enucleato ipotesi in cui l'esenzione da risoluzione non era operativa, tra queste l'ipotesi di incapienza parziale o totale dei privilegiati (cfr. A. BONSIGNORI, op. cit. p. 528 et seq.: “Al riguardo il problema principale, è quello dei limiti a questa esenzione [ex art. 186, comma 2, l. fall., ndr], limiti derivanti dal cattivo esito pratico della norma, che ha dato luogo ad abusi, quasi mai repressi nel controllo di convenienza, spesso assai superficiale, effettuato dall'autorità giurisdizionale, preoccupata soltanto di evitare il fallimento”).
In ogni caso poi, è dirimente osservare che l'art. 186, comma 2, l. fall. del sistema risalente è stato abrogato e, pertanto, ad oggi non può che applicarsi al concordato preventivo il regime risolutivo civilistico, secondo cui l'inadempimento dà diritto di chiedere la risoluzione nella misura in cui l'inadempimento sia di non scarsa importanza ex art. 1455 c.c.
Alla luce di quanto precede, è evidente che l'esenzione da risoluzione per il mancato raggiungimento della percentuale del 40% prevista dall'art. 186, comma 2, l. fall. nel sistema risalente, non può essere un argomento a favore dell''interpretazione dell'attuale art. 161, comma 2, lett. e), l. fall. data dal Tribunale, se non in senso opposto ad essa (ben potendo all'evidenza affermarsi che, eliminata tale esenzione, anche il concordato per cessione dei beni non possa che essere soggetto a risoluzione le volte in cui la percentuale promessa sub specie di utilità/pagamento sia rimasta insoddisfatta in misura tale da configurare inadempimento di non scarsa importanza). Sta di fatto che l'eliminazione di quella esenzione, che riguardava solo la fattispecie concordataria per cessione dei beni, ha ormai parificato la cessio bonorum a qualunque altra forma di concordato, a partire da quella, classica, del concordato promissorio per garanzia, conseguendone che tutte non possono che avere ad oggetto una promessa satisfattiva da adempiere in una precisa misura, che costituisce a sua volta parametro per valutare poi la rilevanza dell'inadempimento ai fini della risoluzione.

(ii) Il requisito di ammissibilità della proposta concordataria diversa dal concordato in continuità previsto dall'art. 160, comma 4, l. fall.: in ogni caso la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell'ammontare dei crediti chirografari.
Il Tribunale di Pistoia sostiene che la lettura combinata dell'art. 160, comma 2, lett. e) e del nuovo art. 160, comma 4, l. fall. – secondo il quale per essere ammissibile “la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell'ammontare dei crediti chirografari” - debba intendersi non nel senso che la soglia minima di accesso ai concordati (diversi da quello in continuità) sia la promessa/garanzia di pagamento di almeno il 20% dell'ammontare dei crediti chirografari, bensì che, ai fini dell'ammissibilità di questi concordati, il debitore debba proporre “fondatamente” il pagamento di almeno il 20% dell'ammontare dei crediti chirografari, senza però che il termine “assicurare” debba essere inteso come sinonimo di “garantire”, ma neppure che esso si identifichi con una mera previsione probabilistica. Inoltre il termine “pagamento” dovrebbe essere inteso nel senso più generale di “soddisfazione”. In conclusione – dice il Tribunale – la disposizione contenuta nel quarto comma dell'art. 160 l. fall. deve essere letta nel senso che in ogni caso il debitore debba proporre “fondatamente” il pagamento di almeno il 20%.
Orbene, ci pare che il Tribunale renda confusa – e svuoti di significato - una disciplina il cui dettato normativo è, invece, piuttosto chiaro.
Infatti se – come dice il Tribunale - il termine “assicurare” non può essere inteso come “garantire” – affermazione non condivisibile in quanto è il dizionario a qualificare i due verbi come sinonimi – e, dunque, non sussiste un obbligo del debitore in tal senso, ma neppure il debitore deve limitarsi a fare una previsione di mera probabilità sugli esiti della liquidazione, allora come si può qualificare giuridicamente il termine “assicurare”? La soluzione interpretativa del Tribunale – per cui il debitore dovrebbe proporre “fondatamente” il pagamento di almeno il 20% - non ha in realtà alcun fondamento (ci si perdoni il bisticcio) né nel tenore letterale della norma, né nell'intento del legislatore. Rileviamo come, invece, essa pare riprendere letteralmente la formulazione del vecchio concordato con cessione di cui all'art. 160, comma 2, n. 2), l. fall. (“sempre che la valutazione di tali beni faccia fondatamente ritenere che i creditori possano essere soddisfatti almeno nella misura indicata al n. 1”), in cui il mancato raggiungimento della percentuale non comportava la risoluzione per inadempimento ex art. 186, comma 2, l. fall.
Peccato che – come abbiamo già osservato – tali norme siano state abrogate e quindi tentare di farle “rivivere”, con un'interpretazione del dato normativo palesemente “forzata” e retroguardista non ci pare una soluzione valida; tanto più che, come già accennato in precedenza, già nel sistema risalente l'esenzione da risoluzione ex art. 186, comma 2, l. fall. per il concordato con cessione era oggetto di aspre critiche da parte della dottrina più avveduta, in quanto foriera di abusi da parte di chi cercava un comodo espediente per evitare il fallimento a discapito dei creditori. Insomma, esattamente la stessa situazione che il legislatore attuale della riforma ha cercato in tutti i modi di evitare, modificando la disciplina del concordato preventivo nell'ottica di incentivare il debitore a condotte virtuose che massimizzino la percentuale di recovery dei creditori.
In questo contesto è semplicemente irragionevole interpretare il “deve assicurare” della proposta di cui all'art. 160, comma 4, l. fall. in una maniera diversa da un “obbligo giuridico”, posto che questo è il significato che emerge chiaramente sia dal tenore letterale della norma medesima, sia dalle intenzioni del legislatore della riforma.
Al riguardo, ci pare che la lettura combinata degli artt. 160, comma 4 e 161, comma 2, lett. e), l. fall. non possa ragionevolmente avere altro significato che:
(a) la proposta di concordato con cessione dei beni è inammissibile se non contiene un impegno vincolante del debitore di pagamento (e quindi di soddisfacimento in denaro) del 20% (almeno) dell'ammontare dei crediti chirografari;
(b) in qualunque tipo di concordato (con cessione dei beni ovvero in continuità) il debitore si obbliga ad assicurare ai creditori un certo esito, ovverosia quell'utilità specifica a cui fa riferimento l'art. 161, comma 2, lett. e), l. fall. (che può essere il pagamento o altra utilità, purché misurabile in termini percentuali).
Ciò significa che, in mancanza dell'esito promesso, il concordato – vuoi con cessione di beni, vuoi in continuità – potrà essere risolto per inadempimento (fermo restando il limite della non scarsa importanza dell'inadempimento di cui all'art. 1455 c.c.).
Nel caso del concordato con cessione (non in continuità), l'esito promesso dovrà comprendere (almeno) il pagamento del 20% dell'ammontare dei crediti chirografari; ciò ai fini dell'ammissibilità della proposta stessa. Se poi l'utilità promessa dovesse essere superiore e/o ulteriore rispetto al pagamento del 20% e non dovesse essere adempiuta in misura “importante”, il concordato potrebbe essere risolto; ciò quand'anche – si badi - il 20% venisse pagato.
Infine, ad ulteriore conferma dell'incongruenza della posizione del Tribunale di Pistoia va evidenziato come i giudici pistoiesi, dopo aver affermato per varie pagine della sentenza che la percentuale del 20% non è oggetto di un obbligo giuridico del proponente, dichiarano inammissibile la proposta di concordato presentata dal debitore in quanto essa “non rispetta il requisito di cui al primo periodo del comma IV dell'art. 160, non contenendo l'assicurazione del pagamento della percentuale” (grassetto aggiunto).

(iii) Il requisito di ammissibilità ex art. 160, comma 4, l. fall. declinato nel concordato con continuità aziendale ovvero nel concordato c.d. misto.
Secondo il Tribunale, anche nel concordato in continuità la proposta, seppure non vincolata dalla soglia legale di accesso, deve comunque essere formulata non in termini di previsione, ma di assicurazione della percentuale di soddisfazione; percentuale che, in ogni caso non potrebbe essere irrisoria; che per il tribunale significa non inferiore al 5% dell'ammontare dei crediti chirografari.
A fondamento di tale argomentazione il tribunale richiama l'art. 163, comma 5, l. fall. che fissa nel pagamento del 30% dell'ammontare dei crediti chirografari la soglia di sbarramento per la presentazione di proposte concorrenti nel concordato con continuità.
In realtà, a nostro modo di vedere, non è necessario fare leva sul disposto dell'art. 163, comma 5, l. fall. per argomentare che anche nel concordato con continuità la percentuale di soddisfazione promessa è vincolante.
Al riguardo, è sufficiente fare riferimento all'art. 161, comma 2, lett. e), l. fall. che impone l'obbligo di garantire un'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile in ogni tipologia di concordato. Inoltre, più in generale, è noto che già nella disciplina previgente, la percentuale di soddisfacimento dei creditori indicata nella proposta è sempre stata ritenuta obbligatoria se riferita a concordati con continuità aziendale diretta (cfr. ex multis Tribunale Monza 13 febbraio 2015 in ilcaso.it: “Il concordato con continuità aziendale è generalmente catalogabile come concordato con garanzia, con obbligo del debitore di assicurare ai creditori una percentuale certa di soddisfazione dei loro crediti e con il potere di controllo del commissario sul pagamento nei termini della percentuale concordataria”).
Il Tribunale si sofferma, poi, sulla figura del concordato definito “misto”; ovverosia quel concordato in cui, accanto alla continuità aziendale, è prevista la liquidazione di una parte dei beni ritenuti non “strategici” per la prosecuzione dell'attività.
Al riguardo, il Tribunale di Pistoia sostiene che per questi tipi di concordati la soglia minima del pagamento di almeno il 20% dei creditori chirografari prevista per i concordati liquidatori sarebbe applicabile laddove – in base al criterio di prevalenza – l'attivo concordatario utilizzato per soddisfare i creditori derivi in prevalenza dalla liquidazione dei cespiti più che dai flussi della continuità aziendale. Ciò al fine di evitare possibili aggiramenti e abusi della soglia minima del 20% che si realizzerebbero con la presentazione di concordati “nominalmente” in continuità ma di fatto liquidatori nei contenuti.
Anche sotto questo profilo, non ci troviamo d'accordo con il criterio proposto dal Tribunale.
Preliminarmente va evidenziato che la categoria del concordato c.d. misto è già di per sé discutibile, se riferita alle fattispecie di concordato con continuità in cui si liquidano anche beni aziendali. E ciò in quanto l'eventualità che, nell'ambito del concordato con continuità, vengano liquidati beni non strategici è espressamente prevista dall'art. 186-bis l. fall. (“Il piano può prevedere anche la liquidazione di beni non funzionali all'esercizio dell'impresa”). Il che conduce, logicamente, a ritenere che tale tipologia di concordato sia un concordato con continuità a tutti gli effetti e che non esista il concordato misto come tertium genus - in aggiunta al concordato non in continuità ed al concordato con continuità – quantomeno in questi termini (cfr. sul punto F. LAMANNA, Che cos'è e quando è configurabile il concordato c.d. “misto”? in IlFallimentarista.it; secondo l'Autore la definizione meramente descrittiva di concordato c.d. misto potrebbe essere applicata tutt'al più ai c.d. concordati con continuità indiretta, caratterizzati da un “misto” tra continuazione dell'azienda e attività liquidatoria).
Alla luce di quanto precede, si ritiene che, per stabilire l'assoggettamento o meno alla soglia del 20% di un concordato in continuità, il cui piano preveda la liquidazione di beni non strategici, sia preferibile fare riferimento al criterio adottato da gran parte della dottrina per valutare l'applicabilità o meno dell'art. 182 l. fall. a questa tipologia di concordato.
Al riguardo, richiamiamo la posizione dottrinale secondo cui, per stabilire se un concordato è liquidatorio ovvero in continuità, occorre valutare se la cessione dei beni si collochi all'interno della proposta di concordato ovvero del piano concordatario (cfr. M. FABIANI, Fallimento e concordato preventivo, vol. II – Il Concordato preventivo, commento sub art. 2221 cod. civ. (a cura di Scialoja – Branca – Galgano), Bologna, 2014, 720 et seq; G.B. NARDECCHIA, Cessione dei beni e liquidazione: la ricerca di un difficile equilibrio tra autonomia privata e controllo giurisdizionale, in Fall. 2012, p. 92 et seq.). Così, se il piano prevede la prosecuzione dell'attività di impresa e la liquidazione di alcuni cespiti non strategici, i cui proventi dovranno servire a sostenere la continuità ed a soddisfare i creditori (unitamente ai proventi della continuità medesima), è evidente che la liquidazione è un mero elemento del piano finalizzato a reperire risorse e non della proposta e che, pertanto, la fattispecie rientra nella categoria del concordato con continuità tout court. Diverso sarebbe se la proposta prevedesse il trasferimento della gestione e della liquidazione dei beni agli organi della procedura, accanto alla prosecuzione dell'attività aziendale, i cui proventi non siano però destinati al soddisfacimento della massa creditoria. In questo caso, si avrebbe un concordato essenzialmente liquidatorio e, dunque, la relativa ammissibilità dovrebbe essere vagliata anche alla luce della ricorrenza del requisito di cui all'art. 160, comma 4, l. fall. o comunque secondo le regole sull'abuso del diritto, ove ricorrano profili elusivi.

(iv) Il sindacato del tribunale sulla sussistenza dei requisiti della proposta previsti agli artt. 160, comma 4 e 161, comma 2, lett. e), l. fall.
Un ultimo punto della decisione in esame su cui vale la pena soffermarsi riguarda l'ambito del sindacato del tribunale sulla sussistenza dei requisiti di cui agli artt. 160, comma 4 e 161, comma 2, lett. e), l. fall.
Secondo il Tribunale di Pistoia, il tribunale non avrebbe il potere di indagare la sussistenza dei predetti requisiti né in sede di sindacato sull'ammissibilità della proposta, né tantomeno in sede di omologazione. E ciò in quanto la percentuale di soddisfacimento/utilità promessa ai creditori integrerebbe un profilo attinente alla fattibilità economica del piano, che esula dal sindacato del tribunale, secondo la distinzione tra “fattibilità economica” e “fattibilità giuridica” enucleata nella nota pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite n. 1521/2013. La verifica sulla serietà e “fondatezza” delle percentuali indicate atterrebbe alla “convenienza” della proposta e spetterebbe quindi ai creditori, con il supporto delle verifiche svolte dall'attestatore e dal commissario giudiziale.
Le affermazioni del Tribunale di Pistoia non ci trovano d'accordo e, in ogni caso, ci paiono inconcludenti.
Fermo restando che, come osservato da autorevole dottrina, la distinzione tra “fattibilità economica” e “fattibilità giuridica” del piano è assai discutibile; così come altrettanto discutibile è attribuire al tribunale il potere di sindacare l'una e non l'altra (cfr. F. Lamanna, L'indeterminismo creativo delle Sezioni Unite in tema di fattibilità nel concordato preventivo: “così è se vi pare”, in IlFallimentarista.it), evidenziamo come l'interpretazione del Tribunale di Pistoia riduce i requisiti di ammissibilità ex art. 160, comma 4 e 161, comma 2, lett. e), l. fall. ad una vuota condizione formale.
Infatti, se il tribunale non può controllare e verificare la serietà e attuabilità in concreto delle percentuali-requisiti soglia previsti nelle norme citate, allora basterebbe assicurare pro forma nella proposta che si pagherà il 20% dell'ammontare dei crediti chirografari; tanto più che, sempre stando al Tribunale di Pistoia, la percentuale non è neppure vincolante, essendo sufficiente che sia proposta “fondatamente”.
Non solo. Questa impostazione stride palesemente con il dettato normativo, laddove l'art. 162, comma 2, l. fall. stabilisce espressamente che il tribunale “se all'esito del procedimento verifica che non ricorrono i presupposti di cui agli articoli 160, commi primo e secondo, e 161, sentito il debitore in camera di consiglio, con decreto non soggetto a reclamo dichiara inammissibile la proposta di concordato”.
Ora, a parte il mancato richiamo al nuovo comma 4 dell'art. 160 l. fall. (dovuto, evidentemente, ad una mera dimenticanza del legislatore) se la legge dispone espressamente che il tribunale deve verificare la sussistenza dei requisiti di cui agli artt. 160 e 161 l. fall. – norme in cui sono inseriti i nuovi presupposti di ammissibilità – al fine del giudizio di ammissibilità della proposta e del piano di concordato, come si può fondatamente sostenere, come fa il Tribunale di Pistoia, che i suddetti presupposti di ammissibilità esulerebbero dal sindacato del tribunale?
La tesi è talmente assurda che persino lo stesso Tribunale di Pistoia finisce per non applicarla al caso concreto. Infatti, come anticipato, il Tribunale dichiara inammissibile la proposta concordataria presentata nel caso specifico, in quanto “non rispetta il requisito di cui al primo periodo del comma IV dell'art. 160, […] non contenendo l'assicurazione del pagamento in percentuale”. Dunque il Tribunale – in palese contrasto con le affermazioni di principio esposte nel decreto – svolge poi in effetti un suo sindacato di merito anche sul requisito di cui all'art. 160, comma 4, l. fall.

Conclusioni

Come già evidenziato, l'interpretazione delle novità introdotte dal d.l. n. 83/2015 proposta dal Tribunale di Pistoia nel decreto in esame ha una portata tanto “pericolosamente”, quanto immotivatamente ed infondatamente demolitiva della sostanza delle novità legislative.
Il Tribunale mira a ridimensionare la portata innovativa delle nuove disposizioni affermando che “nulla sarebbe cambiato” rispetto alla disciplina previgente; e fa questo sulla base di un'interpretazione del dato normativo che stride palesemente sia con il tenore letterale delle norme, sia con l'intento del legislatore, espresso con assoluta chiarezza nella Relazione di accompagnamento al d.l. n. 83/2015.
In questo contesto, lascia molto perplessi anche l'incipit dell'analisi normativa svolta dal Tribunale ove si afferma: “E' necessario, affinché di vera interpretazione si tratti e non di lettura ideologica, affrontare lo ius novum spogliandosi di ogni pregiudizio e, dunque, evitando la tentazione, in cui troppo spesso si cade, di tirare il legislatore per la giacca nel tentativo di ricercare una conferma per via normativa di pregresse prassi interpretative”.
Alla luce dell'analisi svolta nella presente nota, ci pare che a “tirare per la giacca il legislatore” sia stato però proprio il Tribunale.
Ad ulteriore conferma dell'infondatezza ed arbitrarietà dell'interpretazione proposta, si ribadisce che neppure il Tribunale medesimo ha poi applicato in concreto quanto affermato in astratto.
Si spera, quindi, che i principi espressi nel decreto in commento rimangano un precedente isolato, pena il rischio concreto che il concordato preventivo precipiti nuovamente “nelle sabbie mobili di proposte, come qualcuno le ha definite, semplicemente «indecenti», ed a riportarci dunque sul piano inclinato della de-responsabilizzazione patrimoniale” (così, F. LAMANNA, L'inammissibilità di una promessa di pagamento nel concordato preventivo entro un «range» tra un minimo ed un massimo, cit.).

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Per comodità espositiva, si fa riferimento ai contributi di dottrina ed alla giurisprudenza citata nel testo della nota.

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