Inesperibilità dell’azione revocatoria verso un altro fallimento

Filippo Lamanna
23 Novembre 2011

Non è ammissibile un'azione revocatoria, ordinaria o fallimentare, nei confronti di un fallimento, stante il principio di cristallizzazione del passivo alla data di apertura del concorso ed il carattere costitutivo della predetta azione; il patrimonio del fallito è, infatti, insensibile alle pretese di soggetti che vantino titoli formatisi in epoca posteriore alla dichiarazione di fallimento e, dunque, poiché l'effetto giuridico favorevole all'attore in revocatoria si produce solo a seguito della sentenza di accoglimento, tale effetto non può essere invocato contro la massa dei creditori ove l'azione sia stata esperita dopo l'apertura della procedura stessa. (Fattispecie relativa ad azione proposta dal curatore del fallimento di una società nei confronti di altra società fallita e volta alla dichiarazione di revoca di pagamenti fatti da una prima società alla seconda allorché entrambe erano ancora in bonis e alla pronuncia di condanna alla restituzione della corrispondente somma).
Massima

Non è ammissibile un'azione revocatoria, ordinaria o fallimentare, nei confronti di un fallimento, stante il principio di cristallizzazione del passivo alla data di apertura del concorso ed il carattere costitutivo della predetta azione; il patrimonio del fallito è, infatti, insensibile alle pretese di soggetti che vantino titoli formatisi in epoca posteriore alla dichiarazione di fallimento e, dunque, poiché l'effetto giuridico favorevole all'attore in revocatoria si produce solo a seguito della sentenza di accoglimento, tale effetto non può essere invocato contro la massa dei creditori ove l'azione sia stata esperita dopo l'apertura della procedura stessa. (Fattispecie relativa ad azione proposta dal curatore del fallimento di una società nei confronti di altra società fallita e volta alla dichiarazione di revoca di pagamenti fatti da una prima società alla seconda allorché entrambe erano ancora in bonis e alla pronuncia di condanna alla restituzione della corrispondente somma).

Il caso

Con la sentenza n. 10486 del 2011 la Prima Sezione Civile della S. Corte di Cassazione ha esaminato un caso in cui il fallimento di una società aveva agito verso il fallimento di una diversa società con azione revocatoria per sentir dichiarare inefficaci alcuni pagamenti fatti dalla prima società alla seconda allorché le stesse erano in bonis, e per ottenerne la restituzione.

Il Tribunale e la Corte d'Appello, investiti della controversia in primo e secondo grado, avevano ritenuto improcedibile la domanda in quanto, avendo ad oggetto anche una richiesta di condanna pecuniaria, essa avrebbe potuto e dovuto essere svolta solo con domanda di insinuazione al passivo innanzi al Tribunale (fallimentare) che aveva dichiarato il fallimento della debitrice.
La Suprema Corte ha convenuto sul fatto che la domanda fosse improcedibile, ma per una diversa ragione, ossia perché le azioni revocatorie (ordinarie e fallimentari) non potrebbero essere iniziate – ma solo proseguite se già intraprese prima della dichiarazione di fallimento – nei confronti delle procedure fallimentari, impedendolo il principio di cristallizzazione della massa passiva alla data dell'apertura del concorso e il carattere costitutivo dell'azione revocatoria.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Il principio affermato dalla Suprema Corte è innovativo, perché, a quanto consta, è la prima volta che essa ha prospettato tale soluzione restrittiva, che attribuisce un differente trattamento ai creditori a seconda che la loro azione revocatoria sia stata iniziata prima o dopo la dichiarazione di fallimento del convenuto.
Due sono i principi invocati a suffragio di tale soluzione.
Secondo la Suprema Corte, infatti, “… un'azione revocatoria, ordinaria o fallimentare, non può essere esperita nei confronti di un fallimento” perché “lo impediscono il principio di cristallizzazione della massa passiva alla data dell'apertura del concorso e il carattere costitutivo dell'azione revocatoria”.
Pertanto, secondo la Suprema Corte, l'improcedibilità non deriva – come avrebbe erroneamente ritenuto nel caso di specie la Corte di Appello – dal fatto che la curatela attrice non si fosse limitata a chiedere la revoca dei pagamenti, ma avesse chiesto anche la condanna del fallimento convenuto alla restituzione della corrispondente somma (in quanto la presenza della domanda di condanna, non separabile dalla prima, avrebbe comportato l'improcedibilità di entrambe ai sensi degli artt. 52 e 93 e segg. l. fall.).
Piuttosto, secondo la Suprema Corte, avrebbe dovuto considerarsi che il patrimonio del fallito è – cristallizzandosi - insensibile alle pretese di soggetti che vantino titoli di natura costitutiva formatisi in epoca posteriore alla dichiarazione di fallimento, come appunto accadrebbe in caso di sentenza revocatoria.

Commento e conclusioni

La tesi, però, ridotta in questi termini, almeno in parte non convince.
Non si dubita, infatti, della soluzione affermata dalla S. Corte laddove ammette la proseguibilità delle azioni revocatorie iniziate prima del fallimento.
Si tratta, infatti, di principio comune ad ogni azione costitutiva, essendosi sempre ammesso che l'inizio di esse prima del fallimento renda quesito il diritto dell'attore, conservando a suo favore la possibilità di incidere sull'attivo e sul passivo a dispetto della cristallizzazione determinata dal fallimento (cfr. Cass. nn. 2261/2004; 4365/2001; 12396/1998; 376/1998; 185/1995; 3708/1983; 6713/1982).
Tale regola, peraltro, sembra ormai espressa anche normativamente – quanto meno con riferimento all'azione di risoluzione (anch'essa, appunto, di carattere costitutivo)-, nell'attuale testo dell'art. 72, comma 5, l. fall.
Resta solo da dire che anche l'azione revocatoria, secondo il consolidato orientamento della S. Corte, ha natura costitutiva.
Non sembra invece convincente la soluzione della S. Corte laddove esclude in via di principio, e senza alcuna distinzione, l'ammissibilità della revocatoria fallimentare verso un fallimento se promossa dopo l'inizio di quest'ultimo.
Vero è che, anche in tal caso, la Cassazione ha finito per applicare il medesimo principio che sta alla base delle pronunce testé citate, in cui si afferma che non si può proporre un'azione di carattere costitutivo (di norma la risoluzione) contro la curatela dopo che il fallimento sia stato dichiarato, perché il fallimento determina la destinazione del patrimonio del fallito al soddisfacimento paritario di tutti i creditori e la cristallizzazione delle loro posizioni giuridiche, con la conseguenza che la pronunzia non può produrre effetti restitutori o risarcitori lesivi della par condicio, sicché il creditore che non abbia promosso l'azione prima del fallimento non può proporla dopo (Cass. 24 ottobre 1967, n. 2622, Cass. 13 luglio 1971, n. 2252, Cass. 14 luglio 1971, n. 2295, Cass. 4 agosto 1977, n. 3471, Cass. 9 dicembre 1982, n. 6713, Cass. 30 maggio 1983, n. 3708, Cass. 5 gennaio 1995, n. 185, Cass. 17 gennaio 1998, n. 376, cit.).
Tuttavia, una tale parificazione assoluta di trattamento tra le revocatorie e le altre azioni costitutive sembra non considerare quel doppio rapporto cronologico che può verificarsi quando attore e convenuto siano entrambi falliti.
La Suprema Corte, infatti, considera la sola ipotesi in cui il fallimento attore sia stato aperto prima del fallimento convenuto. In tal caso ipotizza che il fallimento attore abbia la possibilità di agire in revocatoria prima che il convenuto fallisca per atti da lui compiuti prima del suo fallimento. Reputa quindi proseguibile l'azione se il curatore attore si sia avvalso di tale facoltà, e inammissibile l'azione se si sia deciso ad agire solo dopo il fallimento del convenuto, sussumendo la fattispecie sotto un sorta di regola sanzionatoria dell'inerzia, come fa per ogni altro caso in cui l'attore in azione costitutiva sia un qualunque terzo.
In tal modo la Suprema Corte non considera però l'ipotesi in cui il fallimento attore sia stato aperto dopo il fallimento convenuto. In tal caso, evidentemente, non è mai ipotizzabile che il fallimento attore possa aver iniziato un'azione revocatoria fallimentare prima del fallimento del convenuto (semmai è ipotizzabile solo che egli possa essere subentrato in un'azione revocatoria ordinaria promossa anteriormente da un creditore).
Ne consegue che considerare inammissibile in tal caso un'azione revocatoria che il curatore del fallimento dichiarato per secondo può promuovere solo dopo che il fallimento attore – appunto - sia stato dichiarato e quindi anche necessariamente dopo l'apertura del fallimento convenuto, appare – almeno con riferimento a tale ipotesi - soluzione eccessivamente penalizzante.
Del resto la stessa Suprema Corte di cassazione considera ammissibile l'azione revocatoria intrapresa nei confronti di un fallimento (nella pronuncia qui commentata viene richiamata al riguardo Cass. n. 6709/2009) quando lo stesso atto revocando sia stato posto in essere dal curatore, e quindi dopo l'apertura del fallimento convenuto. Tale soluzione trae evidentemente fondamento dall'idea che, in questa ipotesi, il fallimento attore non possa che agire dopo l'apertura del fallimento convenuto, atteso che l'atto da revocare è stato compiuto dal curatore di quest'ultimo.
Ma se tale evenienza cronologicamente successiva giustifica l'ammissibilità dell'azione revocatoria fallimentare in questo caso, dovrebbe logicamente giustificarla – per analoga ragione - anche nel caso ancor più generale in cui il fallimento attore risulti aperto dopo il fallimento del convenuto, sia pure con riferimento ad atti lesivi compiuti da quest'ultimo prima della dichiarazione del fallimento attore.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.