Dichiarazione di fallimento: la giurisdizione italiana in caso di trasferimento della sede sociale del debitore all'estero

21 Dicembre 2011

Conclusosi, in primo grado, il procedimento per la dichiarazione di fallimento, in relazione al quale siano stati proposti i ricorsi per regolamento preventivo di giurisdizione, ed in pendenza di tali ricorsi, con la dichiarazione di fallimento della società e la conseguente nomina del curatore, e proposti gli stessi ricorsi dalla società fallita e dal suo ex legale rappresentante, il curatore, divenuto medio tempore parte, può intervenire nel giudizio per regolamento ed interloquire sulle questioni concernenti l'ammissibilità e la procedibilità del ricorso, prospettabili a seguito della intervenuta sentenza dichiarativa di fallimento.
Massima

Conclusosi, in primo grado, il procedimento per la dichiarazione di fallimento, in relazione al quale siano stati proposti i ricorsi per regolamento preventivo di giurisdizione, ed in pendenza di tali ricorsi, con la dichiarazione di fallimento della società e la conseguente nomina del curatore, e proposti gli stessi ricorsi dalla società fallita e dal suo ex legale rappresentante, il curatore, divenuto medio tempore parte, può intervenire nel giudizio per regolamento ed interloquire sulle questioni concernenti l'ammissibilità e la procedibilità del ricorso, prospettabili a seguito della intervenuta sentenza dichiarativa di fallimento.

La proposizione di un'istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, ex art. 367 c.p.c., non produce più la sospensione del processo pendente, la quale può essere disposta dal Giudice dinanzi al quale il processo pende solo all'esito di un giudizio sommario in ordine alla non manifesta inammissibilità dell'istanza o alla non manifesta infondatezza della contestazione della giurisdizione. Qualora non sia stata disposta la sospensione, pertanto, il processo può proseguire ed essere definito in primo grado prima che sia stata decisa la questione di giurisdizione. Né la pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione può intendersi ostacolata dalla sentenza di primo grado che contenga od implichi una decisione anche in merito alla giurisdizione, in quanto la stessa deve intendersi alla stregua di una sentenza condizionata.

A norma dell'art. 3, paragrafo 1, del Regolamento n. 1346 del 2000, competenti ad aprire le procedure di insolvenza sono i Giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore, presumendosi, quanto alle società ed alle persone giuridiche, che tale centro coincida con quello ove si trova la sede statutaria. Tuttavia, qualora, come nella specie, anteriormente alla presentazione dell'istanza di fallimento, la società abbia trasferito all'estero la propria sede legale e tale trasferimento appaia fittizio, permane in ogni caso la giurisdizione del Giudice Italiano. Nella fattispecie concreta, in particolare, il carattere fittizio del trasferimento della sede societaria all'estero emerge sia dalla equivoca e comunque ingiustificata scissione del trasferimento tra sede legale in uno Stato estero e sede operativa in altro Stato, che dalla circostanza che tale trasferimento è stato effettuato in epoca assai prossima alla presentazione delle istanze di fallimento, tale da far ragionevolmente supporre che si sia trattato di un espediente posto in essere in vista della probabile apertura della procedura di insolvenza, piuttosto che di una scelta reale, dettata da effettive ragioni imprenditoriali.

Il trasferimento ad altro Stato (extracomunitario) della sede di una società anche se anteriore al deposito dell'istanza di fallimento non esclude la giurisdizione italiana essendo essa inderogabile - salve le convenzioni internazionali o le norme comunitarie - e pienamente operante nel caso in cui detto trasferimento abbia carattere fittizio o strumentale.

Il caso

Nell'ambito di una serie di procedimenti promossi avanti al Tribunale di Roma da alcuni creditori di una società, tutti volti alla dichiarazione di fallimento della stessa, nonché della holding in cui essa era stata incorporata, quest'ultima società e il suo legale rappresentante (a sua volta una società) hanno proposto separate istanze di regolamento di giurisdizione, poi riunite dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, finalizzate alla dichiarazione del difetto di giurisdizione del giudice italiano sul presupposto che la società in questione, anteriormente alla proposizione delle istanze di fallimento, avesse trasferito la propria sede legale in uno Stato estero (e precisamente negli U.S.A.), con conseguente cancellazione della stessa dal Registro delle Imprese di Roma, e avesse altresì trasferito il proprio centro degli interessi (nella specie, la sede amministrativa, presso la quale lavorava tutto il personale dipendente della società) in un altro Stato estero (Gran Bretagna).

Le questioni giuridiche e la soluzione

Nella prima massima, le Sezioni Unite hanno sancito l'ammissibilità dell'intervento spiegato, nell'ambito del procedimento per regolamento di giurisdizione, dal curatore del fallimento della società ricorrente, dichiarato in pendenza del giudizio avanti alla Suprema Corte (con facoltà, per lo stesso curatore, di interloquire sulle sole questioni circa l'ammissibilità e la procedibilità del ricorso). Le Sezioni Unite hanno ritenuto di derogare, nel caso di specie, al principio, da esse stabilito in alcune precedenti pronunce, per cui tale facoltà d'intervento sarebbe limitata ai soli soggetti che rivestano la qualità di parte nel giudizio a quo, e ciò in considerazione della peculiarità della fattispecie, che ha visto concludersi detto giudizio, in primo grado, con la declaratoria di fallimento della società ricorrente (il che ha comportato, secondo le Sezioni Unite, l'acquisto medio tempore della qualità di parte in capo al curatore). La seconda massima attiene ai rapporti tra procedimento per regolamento (preventivo) di giurisdizione e giudizio a quo, in relazione all'ipotesi, verificatasi nel caso in esame, in cui la proposizione dell'istanza di regolamento di giurisdizione non dovesse determinare la sospensione della causa di merito, per effetto della valutazione negativa compiuta dal giudice a quo, ai sensi dell'art. 367, comma 1, c.p.c., in ordine alla non manifesta inammissibilità dell'istanza o alla non manifesta infondatezza della contestazione della giurisdizione. Sul punto le Sezioni Unite hanno ribadito il principio, già enunciato in alcune precedenti pronunce di legittimità, per cui la sentenza emessa nel giudizio a quo non osta alla statuizione della Corte sul regolamento di giurisdizione, ed è anzi destinata a rimanere priva di effetto ove quest'ultima sia di segno contrario a quello ritenuto o presupposto dal giudice di merito.
Con le successive massime (terza e quarta), le Sezioni Unite, affrontando il merito della questione di giurisdizione portata alla loro attenzione, hanno ritenuto che la presunzione, posta dall'art. 3, paragrafo 1, del Regolamento CE n. 1346 del 2000 in materia di insolvenze transfrontaliere, che fa coincidere il centro degli interessi principali del debitore, ai fini dell'individuazione del giudice competente ad aprire la procedura di insolvenza, con il luogo in cui si trova la sede statutaria della società, sia superabile nei casi in cui il trasferimento di tale sede all'estero, ancorché intervenuto anteriormente alla proposizione dell'istanza di fallimento, appaia meramente fittizio e strumentale. Per questa via la Suprema Corte è pervenuta ad affermare, nel caso in esame, la giurisdizione del giudice italiano con riferimento alle domande dirette ad ottenere la declaratoria di fallimento della società debitrice, sul presupposto che il trasferimento all'estero della sede di quest'ultima, avvenuto nell'imminenza del deposito delle istanze di fallimento, costituisse un mero espediente da essa posto in essere in vista dell'apertura della procedura concorsuale.

Osservazioni

Limitando la presente disamina al merito della questione di giurisdizione sottoposta ai giudici della Suprema Corte, affrontata nelle ultime due massime, deve rilevarsi che le Sezioni Unite hanno confermato il proprio orientamento volto a riconoscere la giurisdizione del giudice italiano, in ordine all'apertura di una procedura concorsuale, in tutti quei casi in cui il trasferimento all'estero della sede statutaria della società debitrice, intervenuto anteriormente all'istanza di fallimento, appaia meramente fittizio e strumentale alla successiva proposizione, nell'ambito dell'istruttoria prefallimentare, dell'eccezione di difetto di giurisdizione del giudice italiano.
La materia in oggetto, com'è noto, è disciplinata dalla normativa comunitaria (anche in forza del rinvio operato dall'art. 9, comma 4, l. fall.), e precisamente dal Regolamento CE n. 1346 del 29 maggio 2000. Detto Regolamento individua il giudice competente a dichiarare l'apertura di una procedura d'insolvenza in base al criterio del center of main interest (COMI) della società debitrice, che, ai sensi dell'art. 3, paragrafo 1, del Regolamento stesso, si presume coincidente con il luogo in cui si trova la sede statutaria della società al momento della proposizione della domanda.
Secondo l'interpretazione della normativa in questione fornita dalla Corte di Giustizia CE, detta presunzione non viene meno in caso di trasferimento della sede statutaria prima della proposizione della domanda di apertura di una procedura d'insolvenza, e non è superabile qualora le decisioni di gestione della società vengano assunte, in maniera riconoscibile dai terzi, nel medesimo luogo sopra indicato. L'unica fattispecie in cui, secondo il giudice comunitario, può derogarsi alla suddetta presunzione, e così darsi luogo all'apertura di una procedura d'insolvenza in uno Stato diverso da quello in cui si trova la sede statutaria della società, è ravvisabile laddove in tale altro Stato membro si rinvenga, purché in maniera riconoscibile dai terzi, il centro effettivo di direzione e controllo della società e di gestione degli interessi della stessa.
Sennonché, l'orientamento giurisprudenziale delle Sezioni Unite, espresso dalla pronuncia in commento, che tende a fornire un'interpretazione alquanto estensiva delle ipotesi di deroga alla presunzione posta dall'art. 3, paragrafo 1 del citato Regolamento CE, pare difficilmente conciliabile con i suesposti principi dettati a livello comunitario. Tale divergenza si manifesta in modo particolarmente accentuato nel caso in esame, in cui la società debitrice, in prossimità del deposito delle istanze di fallimento nei suoi confronti, ha trasferito all'estero, in due Stati diversi, sia la sede statutaria che la sede amministrativa (presso la quale lavorava tutto il personale dipendente), sicché, al momento della proposizione delle predette istanze di fallimento, non pareva ravvisabile alcun elemento oggettivo di collegamento tra la società in questione e lo Stato italiano. Ebbene, a giudizio della Suprema Corte, proprio l'ingiustificata “scissione” del trasferimento tra sede legale in uno Stato estero (U.S.A.) e sede “operativa” in un altro Stato (Gran Bretagna) costituirebbe, unitamente alla prossimità di tale operazione rispetto alla proposizione delle istanze di fallimento, indice del carattere fittizio e strumentale del trasferimento in oggetto, con conseguente necessità di affermare la giurisdizione del giudice italiano in ordine alle istanze di fallimento presentate nei confronti della società ricorrente.
La decisione delle Sezioni Unite, evidentemente dettata dall'esigenza di tutelare l'affidamento incolpevole dei terzi entrati in contatto con il debitore nello Stato di origine di quest'ultimo, nonché di contrastare i fenomeni di c.d. forum shopping in materia di apertura delle procedure di insolvenza, pone tuttavia, come detto, più di un dubbio circa la sua conformità alla disciplina comunitaria (pur formalmente richiamata nella motivazione della pronuncia in commento), così come interpretata dalla Corte di giustizia CE (la quale, peraltro, ha ancora di recente riaffermato, proprio in relazione alla materia in questione, la natura derogatoria del diritto dell'Unione rispetto alla legislazione dei singoli Stati membri e il carattere vincolante delle proprie decisioni nei confronti del giudice nazionale), con particolare riferimento alla rigida nozione di “centro degli interessi principali” enunciata dal giudice comunitario. Gli elementi valorizzati dalla Corte di Cassazione nel caso di specie (“scissione” del trasferimento della sede legale rispetto alla sede operativa, vicinanza temporale del trasferimento rispetto alla proposizione delle istanze di fallimento) non sembrano infatti trovare riscontro nella normativa e nella giurisprudenza di matrice comunitaria, le quali pongono piuttosto l'accento, ai fini dell'eventuale deroga alla presunzione di coincidenza fra sede sociale e centro degli interessi principali del debitore, sulla riconoscibilità, da parte dei terzi, della presenza del centro effettivo di direzione e di controllo della società in uno Stato membro diverso da quello in cui essa ha la propria sede statutaria.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

La pronuncia in commento si inserisce nell'alveo di un consolidato orientamento giurisprudenziale tendente ad affermare la giurisdizione del giudice italiano, in materia di apertura di una procedura concorsuale, anche in caso di trasferimento della sede della società debitrice all'estero anteriormente alla presentazione dell'istanza di fallimento, qualora detto trasferimento appaia meramente fittizio o fraudolento (v. Cass., Sez. Un., 20 luglio 2011, n. 15880; Cass., Sez. Un. 16 dicembre 2009, n. 26287; Cass, Sez. Un., 18 maggio 2009, n. 11398; App. Milano, 14 maggio 2008, in Fallimento, 2009, 1, 65; Trib. Milano 25 marzo 2010, Agenzia Nazionale per l'Attrazione degli Investimenti e lo Sviluppo d'Impresa c. COMM S.r.l., inedita; Trib. Isernia, 10 aprile 2009, in Fallimento, 2010, 1, 59). In un caso, la giurisprudenza di merito si è spinta ad affermare l'irrilevanza tout court, ai fini della determinazione della giurisdizione in questa materia, di ogni trasferimento della sede del debitore intervenuto nell'anno antecedente il deposito dell'istanza di fallimento, in virtù di un'applicazione analogica alla giurisdizione della regola dettata, in materia di competenza, dall'art. 9, comma 2, l. fall. (Trib. Terni, 7 febbraio 2011, in Fallimento, 2011, 6, 712). La dottrina ha sottolineato la finalità di tutela dell'affidamento dei terzi sottesa all'orientamento giurisprudenziale in questione, diretto a sanzionare, in particolare, quelle operazioni tendenti a sottrarre la procedura di insolvenza al giudice del luogo dove si è svolta l'attività economica di impresa (M. FERRO – A. DI CARLO, (a cura di), L'istruttoria prefallimentare, Milano 2010, 381).
Per quanto riguarda la giurisprudenza comunitaria, il precedente di riferimento è costituito dalla sentenza della Corte di Giustizia CE del 2 maggio 2006 (Eurofood / Bank of America, C 341/04), che ha esplicitato una definizione europea autonoma, indipendente dalle normative nazionali, del concetto di center of main interest di cui all'art. 3, paragrafo 1, del Regolamento CE n. 1346/2000, basata su criteri obiettivi e verificabili da terzi. In dottrina è stata posta in dubbio la compatibilità dell'orientamento giurisprudenziale accolto dai giudici nazionali, di cui si è dato conto supra, con la nozione di COMI fornita dal giudice comunitario nella sentenza in parola (v. G. MONTELLA, Il fallimento del COMI?, in Fallimento, 2010, 65).
Da ultimo, deve darsi conto della recentissima sentenza della Corte di Giustizia CE del 20 ottobre 2011 - procedimento C-396/09 - (per il cui commento si rinvia a G. Corno, COMI, dipendenza e forum shopping. Oltre Eurofood, in questo stesso portale), successiva alla pronuncia in commento, in materia d'individuazione del giudice competente a dichiarare l'apertura di una procedura d'insolvenza. Con tale pronuncia la Corte di Giustizia ha riaffermato, in sintesi, i seguenti principi:

1) prevalenza della normativa comunitaria sulle norme di procedura nazionali difformi e natura vincolante, per i giudici nazionali, dell'interpretazione del diritto dell'Unione fornita dal giudice comunitario;

2) necessità di interpretare la nozione di “centro degli interessi principali” del debitore di cui all'art. 3, paragrafo 1, del Regolamento CE n. 1346/2000 con esclusivo riferimento al diritto dell'Unione (sul punto, il giudice comunitario ha altresì precisato che la data rilevante ai fini della localizzazione del centro degli interessi principali del debitore, e della conseguente individuazione della giurisdizione competente ad aprire una procedura di insolvenza, è quella della proposizione della domanda di apertura della procedura stessa);

3) individuazione del centro degli interessi principali del debitore sulla base di elementi oggettivi e riconoscibili dai terzi. Riguardo a quest'ultimo punto, la Corte di Giustizia ha ribadito il carattere assoluto della presunzione di cui all'art. 3, paragrafo 1, del Regolamento nei casi in cui il luogo ove la società debitrice ha la propria sede statutaria coincida altresì con il luogo in cui sono assunte, con modalità riconoscibili dai terzi, le decisioni relative alla gestione della società; detta presunzione è invece superabile, secondo il giudice comunitario, nei casi in cui una valutazione globale di tutti gli elementi consenta di stabilire che, in maniera riconoscibile dai terzi, il centro effettivo di direzione e di controllo della società, nonché della gestione dei suoi interessi, è situato in uno Stato membro diverso da quello in cui essa ha la sede sociale (con la precisazione che non è sufficiente, a tal fine, la sola presenza, nel diverso Stato in questione, di “attivi sociali” e/o di “contratti relativi alla loro gestione finanziaria”).

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