Dichiarazione di fallimento: natura del termine di convocazione del debitore

Marco Terenghi
13 Marzo 2012

Deve ritenersi ammissibile il ricorso per cassazione proposto dal curatore contro la sentenza che ha revocato il fallimento, poiché quest'ultimo viene meno, con la conseguente decadenza dei suoi organi, soltanto con il passaggio in giudicato della sentenza di revoca, salva la verifica nel singolo caso, ai sensi dell'art. 100 c.p.c., dell'interesse dello stesso curatore ad agire o a contraddire.
Massima

Deve ritenersi ammissibile il ricorso per cassazione proposto dal curatore contro la sentenza che ha revocato il fallimento, poiché quest'ultimo viene meno, con la conseguente decadenza dei suoi organi, soltanto con il passaggio in giudicato della sentenza di revoca, salva la verifica nel singolo caso, ai sensi dell'art. 100 c.p.c., dell'interesse dello stesso curatore ad agire o a contraddire.

Il termine di dieci giorni di cui all'art. 8, comma 4, L. 20 novembre 1982, n. 890, nel testo sostituito dall'art. 2, comma 4, lettera c), numero 3 del D.L. 35/2005, dev'essere qualificato come termine “a decorrenza successiva” e computato, secondo il criterio di cui all'art. 155, comma 1, c.p.c., escludendo il giorno iniziale (data di spedizione della lettera raccomandata di cui al secondo comma dello stesso art. 8) e conteggiando quello finale.

Il medesimo termine, essendo stabilito nell'ambito del procedimento preordinato alla notificazione di atti inerenti al processo (anche) civile, deve intendersi ricompreso tra i “termini per il compimento di atti processuali svolti fuori dall'udienza” di cui all'art. 155, comma 5, c.p.c., con la conseguenza per cui il dies ad quem del termine medesimo, ove scadente nella giornata del sabato, è prorogato di diritto al primo giorno seguente non festivo.

Il termine di quindici giorni di cui all'art. 15, comma 3, l. fall. (nel testo sostituito dall'art. 2, comma 4, D. Lgs. 12 settembre 2007, entrato in vigore l'1 gennaio 2008), va qualificato come termine a carattere dilatorio ed “a decorrenza successiva”, da computarsi secondo il criterio di cui all'art. 155, comma 1, c.p.c., escludendo il giorno iniziale (data della notificazione del ricorso introduttivo e del decreto di convocazione) e conteggiando invece quello finale (data dell'udienza di comparizione).

Il caso

Il Giudice Delegato del Tribunale Fallimentare di Perugia convoca un debitore per l'udienza di comparizione ex art. 15 l. fall., mandando il creditore istante a notificare il ricorso ed il decreto “entro il termine di 15 giorni prima dell'udienza”. Il creditore esegue la notifica a mezzo del servizio postale avvalendosi dell'art. 3, comma 3, L. 21 gennaio 1994, n. 53 (“Facoltà di notificazioni di atti civili, amministrativi e stragiudiziali per gli avvocati”), e spedisce il piego raccomandato con avviso di ricevimento il 15 dicembre 2008. Il plico, non consegnato per temporanea assenza del destinatario, viene depositato il giorno dopo presso l'ufficio postale ai sensi dell'art. 8, comma 2, L. 20 novembre 1982, n. 890 (“Notificazione di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari”), e nella stessa data (16 dicembre 2008) l'agente postale compie le formalità di cui al citato art. 8, comma 2, ed in particolare spedisce l'avviso ivi prescritto. Il debitore non ritira la raccomandata entro il termine di dieci giorni previsto dall'art. 8, comma 3, e non compare all'udienza fissata per il 12 gennaio 2009. Il Tribunale, dopo avere disposto la riunione del procedimento con altra istanza presentata da un diverso creditore, dichiara il fallimento del debitore non comparso. Quest'ultimo ricorre alla Corte d'Appello di Perugia, la quale revoca la sentenza di fallimento per violazione del termine a difesa previsto dall'art. 15, comma 3, l. fall., in quanto la notificazione a mezzo posta per “compiuta giacenza” doveva ritenersi compiuta non nella giornata di sabato 27 dicembre, da considerarsi festivo ai sensi dell'art. 155, comma 4, c.p.c., bensì nel primo giorno feriale utile successivo (ossia lunedì 29 dicembre), mentre l'udienza di comparizione del debitore dinnanzi al Giudice Delegato si era tenuta il 12 gennaio.
La Curatela propone ricorso per cassazione, osservando tra l'altro che il termine di cui all'art. 8 l. 890/1982 non può qualificarsi come “processuale”, con la conseguenza per cui ad esso non si applica l'art. 155 c.p.c., e che in ogni caso la proroga del termine scadente in giorno festivo vale solo per i termini “acceleratori”, e non invece per quelli “dilatori”, tra i quali rientrerebbe quello di cui all'art. 15, comma 3, l. fall.
Il ricorso viene assegnato alla Prima Sezione Civile, che con ordinanza interlocutoria n. 5144/11 dispone la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l'eventuale rimessione del ricorso e del controricorso alle Sezioni Unite, non perché vi siano contrasti giurisprudenziali da comporre, ma in quanto essi presentano una questione di massima di particolare importanza, ai sensi dell'art. 374, comma 2, c.p.c. La rimessione ha effettivamente luogo, e la Corte in sessione plenaria rigetta il ricorso, enunciando nel contempo i principi di diritto sopra riportati.

Le questioni giuridiche e la soluzione

La sentenza delle Sezioni Unite, un po' ingenerosamente additata dalla stampa “non tecnica” quale tipico esempio delle disfunzioni della giustizia italiana (Il Sole 24 Ore del 2 febbraio 2012 - “Se per interpretare un cavillo servono 28 pagine di motivi”), ha un contenuto più ampio di quanto le prime segnalazioni e le iniziali massimazioni abbiano potuto evidenziare.
Per quanto più strettamente attiene alla materia fallimentare, infatti, essa esordisce riaffermando la legittimazione della curatela (contestata, nel caso di specie, dal debitore controricorrente) a proporre ricorso per cassazione contro la sentenza che abbia revocato il fallimento. La Corte valorizza, in particolare, l'art. 18 l. fall., il quale (comma 12) dispone la notifica della sentenza di revoca anche al curatore, fissa (comma 14) il termine di trenta giorni per proporre ricorso per cassazione, e prevede (comma 15) la salvezza, in caso di revoca, degli atti legalmente compiuti dalla procedura. Da un lato, infatti, gli organi del fallimento decadono solo con il passaggio in giudicato della sentenza di revoca (come già aveva affermato la Prima Sezione della Corte stessa, con le pronunce 25 febbraio 2011, n. 4707 e 26 febbraio 2009, n. 4632); dall'altro, l'esigenza di certezza giuridica espressa nel citato principio di conservazione degli atti compiuti nelle procedure concorsuali implica che la nomina dei relativi organi, titolari di poteri e di rapporti processuali, costituisce un fatto giuridico di per sé idoneo a fondare la legittimazione processuale (attiva e passiva) degli organi stessi in relazione ai rapporti giuridici che formano oggetto della procedura, primo fra tutti quello attinente il presupposto stesso della sua esistenza (una valida dichiarazione di fallimento, appunto).
Le Sezioni Unite proseguono affrontando le modalità di computo del termine di dieci giorni per la c.d. “compiuta giacenza” dell'atto notificato a mezzo posta, previsto dall'art. 8, comma 4, L. 890/1982, presupponendone (per poi esplicitare formalmente il rilievo nelle pagine successive) la natura processuale, ed osservando che esso va qualificato come termine “a decorrenza successiva”, e computato secondo il criterio di cui all'art. 155, comma 1, c.p.c., escludendo quindi il giorno iniziale (data di spedizione della lettera raccomandata di cui al secondo comma dello stesso art. 8) e conteggiando quello finale.
Il medesimo termine, essendo stabilito nell'ambito del procedimento preordinato alla notificazione di atti inerenti al processo (anche) civile, deve dunque intendersi ricompreso tra i “termini per il compimento di atti processuali svolti fuori dall'udienza” di cui all'art. 155, comma 5, c.p.c., con la conseguenza per cui il dies ad quem del termine medesimo, ove scadente nella giornata del sabato, è prorogato di diritto al primo giorno seguente non festivo.
Infine, tornando su argomenti di più stretta attinenza concorsuale, la Corte aggiunge che il termine di quindici giorni previsto dall'art. 15, comma 3, l. fall. a difesa del debitore, va a sua volta qualificato come termine a carattere dilatorio ed “a decorrenza successiva”, da computarsi secondo il criterio di cui all'art. 155, comma 1, c.p.c., con esclusione quindi del giorno iniziale (data della notificazione del ricorso introduttivo e del decreto di convocazione) e conteggiando invece quello finale (data dell'udienza di comparizione).

Osservazioni

Ogni operatore del diritto sa perfettamente che il momento della notifica di un atto processuale è spesso cruciale. Appare forse banale osservarlo, ma per quanto uno scritto difensivo possa essere brillante e completo, la sua notificazione oltre il termine previsto dalla legge o assegnato dal giudice produrrà sempre conseguenze non positive, la cui gravità potrà variare a seconda dei casi.
La particolare delicatezza della fase notificatoria viene normalmente acuita dalle concrete e ben note condizioni in cui vengono chiamati ad operare i suoi protagonisti, cioè gli ufficiali giudiziari e gli addetti al servizio postale, nel caso di notifica a mezzo posta. Organici ridotti, disguidi, distrazioni, casi fortuiti, a volte anche combinazioni di tutto ciò nell'ambito di congiunzioni astrali sfavorevoli per il notificante: davvero l'esito di una notifica rappresenta spesso un momento estremamente incerto e foriero di preoccupazioni. In determinati settori di attività, poi, le difficoltà aumentano esponenzialmente: la notificazione di un atto giudiziario ad un soggetto pluridebitore, poco desideroso di farsi reperire, o addirittura ad un imprenditore insolvente, con sede operativa chiusa, residenza del legale rappresentante trasferita, sede legale presso un commercialista che ha revocato l'accordo di domiciliazione, presenta profili di difficoltà spesso notevoli, ulteriormente accresciuti se si deve ricorrere alle prestazioni del servizio postale. Non a caso, quasi tutti i Tribunali Fallimentari, nel decreto di convocazione del debitore in camera di consiglio, prescrivono ormai al ricorrente una notificazione contestuale plurima presso tutte le sedi possibili del debitore, e con ogni modalità del codice di rito concretamente attuabile.
La situazione di ricorrente incertezza circa la sorte e le tempistiche dell'atto notificato a mezzo posta aveva quindi condotto la Corte Costituzionale a dichiarare l'illegittimità del combinato disposto del previgente art. 149 c.p.c. e del previgente art. 4, comma 3, L. 890/82, nella parte in cui prevedeva che la notificazione si perfezionasse, anche per il notificante, alla data di ricezione dell'atto da parte del destinatario (evento, quest'ultimo, spesso di non agevole decifrazione). La Corte, dietro ripetute sollecitazioni della Cassazione (ordinanza 2 febbraio 2002, n. 1390), aveva infine opportunamente introdotto la nozione della c.d. “scissione degli effetti” della notificazione tra il notificante ed il notificando, fissando il momento terminale della notifica per il primo alla data della consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, e facendo espressamente salvo il perfezionamento, per il destinatario, alla data della ricezione (sentenza n. 477 del 26 novembre 2002). Il principio della “scissione” è stato poi codificato dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, attraverso l'aggiunta di un terzo comma ad hoc all'art. 149 c.p.c., tuttora vigente.
Nel frattempo, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 8, comma 2, L. 890/1982 (nella sua precedente formulazione) ad opera della sentenza della Corte Costituzionale n. 346 del 23 settembre 1998, il D.L. 14 marzo 2005, n. 35 (poi convertito in L. 14 maggio 2005, n. 80) ha modificato i commi secondo, terzo, quarto e quinto del medesimo art. 8, conferendo a quest'ultimo la sua corrente struttura.
Attualmente, quindi, l'iter della notificazione di un atto processuale a mezzo posta può incanalarsi secondo uno dei seguenti binari normativo/regolamentari.
a) L'agente postale si reca presso il destinatario e lo trova: è ovviamente l'ipotesi ideale, poiché l'avviso di ricevimento viene sottoscritto dall'interessato, e la notifica si ha per compiuta in quel preciso momento (art. 4, primo e quarto comma, L. 890/1982).
b) L'agente postale non trova il destinatario, temporaneamente assente, né persone in grado e/o disposte a ricevere il piego (art. 8, comma 2, L. 890/1982): in questo caso, quest'ultimo viene depositato lo stesso giorno presso l'ufficio postale, e l'incaricato del recapito invia al destinatario un “avviso in busta chiusa a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento” (in gergo chiamato “C.A.D.”, cioè “comunicazione di avvenuto deposito”).
A questo punto, possono verificarsi due diverse situazioni:
b1) Il destinatario, reso edotto dell'avvenuto tentativo di recapito, si reca presso l'ufficio postale e sottoscrive l'originario avviso di ricevimento nella sua parte destra (sotto la dicitura “ritiro in ufficio del plico non recapitato”). In questo caso, al notificante viene restituito dal servizio postale sia il suddetto avviso di ricevimento “originario”, sia l'avviso di ricevimento del C.A.D., nel frattempo spedito.
b2) Il destinatario non ritira affatto il piego: decorso il termine di dieci giorni previsto dall'art. 8, terzo comma, L. 890/1982, l'originario avviso di ricevimento viene rispedito al mittente con la dicitura “non ritirato nel termine di 10 giorni - compiuta giacenza”. Nel frattempo, solitamente, al notificante è già stato rinviato anche l'avviso di ricevimento del C.A.D., mentre il plico gli verrà restituito decorsi sei mesi dalla data di suo deposito presso l'ufficio postale.
c) Per completezza, va aggiunto che se la consegna del piego avviene a persona abilitata al ritiro e diversa dal destinatario (ad esempio un familiare convivente o il portiere dello stabile), che accetti di riceverlo e firmi l'avviso di ricevimento, l'agente postale dà “notizia al destinatario dell'avvenuta notificazione dell'atto a mezzo di lettera raccomandata” (c.d. “C.A.N.”, acronimo di “comunicazione di avvenuta notifica”), resa necessaria dal D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, convertito in L. 28 febbraio 2008, n. 31, che ha aggiunto il sesto comma all'art. 7, L. 890/82, a seguito dell'ordinanza (pur di manifesta infondatezza) della Corte Costituzionale 19 aprile 2007, n. 131.
Una volta districato il complesso intreccio normativo che sovrintende all'odierna disciplina delle notificazioni a mezzo posta, è il momento di passare brevemente in rassegna i punti più qualificanti della pronuncia in commento.
I) Non vi possono essere dubbi, anzitutto, sul fatto che il termine previsto dall'art. 8, comma 4, L. 890/82 vada considerato come termine “per il compimento di atti processuali svolti fuori dall'udienza”. Una simile espressione, infatti, ricomprende sicuramente tutte quelle azioni che, sebbene poste in essere al di fuori dell'udienza, sono strumentali rispetto al processo e producono effetti, diretti o indiretti, all'interno di quest'ultimo, nel senso che l'osservanza della loro ritualità o meno (ad esempio il rispetto o il mancato rispetto del termine previsto per il loro compimento) può incidere sull'esito della decisione giurisdizionale cui il procedimento tende. In questo senso, premesso ovviamente che l'intera fase della notificazione si attua necessariamente “fuori udienza”, deve logicamente concludersi che entrambe le modalità di perfezionamento della notifica a mezzo posta, vale a dire il ritiro del plico da parte del destinatario (modalità per così dire “attiva”) ed il compimento del periodo di”compiuta giacenza” con lo scoccare del decimo giorno (modalità “passiva”) rientrano nella nozione di “atti processuali”,e come tali vanno ricompresi quantomeno astrattamente nella previsione dell'art. 155, comma 5, c.p.c., che proroga al primo giorno seguente non festivo i termini scadenti nella giornata di sabato.
II) Una volta assodato ciò, il successivo quesito logicamente connesso da risolvere (anche se la Corte, curiosamente, inverte tale concatenazione nella propria motivazione) è se il termine previsto dall'art. 8, quarto comma, L. 890/1982 benefici anche concretamente della proroga prevista dall'art. 155 c.p.c. Laddove, infatti, esso andasse qualificato come termine da computarsi “a ritroso” (ravvisabile ogniqualvolta il legislatore assegna all'interessato un intervallo di tempo prima del quale debba essere compiuta una determinata attività: ad esempio la costituzione in giudizio del convenuto ex art. 166 c.p.c., o il deposito della domanda di ammissione al passivo ex art. 93 l. fall.), la Suprema Corte ha più volte (giustamente) affermato l'inapplicabilità del meccanismo di proroga al primo giorno feriale successivo, poiché in caso contrario il termine minimo posto a tutela dell'interessato risulterebbe ingiustificatamente abbreviato, con illogica compressione del diritto di difesa (si veda, in tempi recenti, la sentenza n. 11163 del 7 maggio 2008).
Deve quindi sicuramente convenirsi con la successiva affermazione delle Sezioni Unite, secondo cui il termine in esame va qualificato come “a decorrenza successiva”, e come tale computato “in avanti”,poiché la stessa terminologia utilizzata dall'art. 8, comma 4, L. 890/1982 lo fa apparire proiettato nel futuro, rispetto ad un dies a quo evidentemente coincidente con il giorno successivo a quello di spedizione del c.d. “C.A.D.” da parte dell'agente postale. Pertanto, qualora il decimo giorno in questione cada di sabato, il termine va prorogato al lunedì non festivo successivo, anche in ossequio ad un “comune sentire” socialmente avvertito che ormai percepisce il sabato come giorno festivo a tutti gli effetti (tranne quelli puntualizzati dall'ultimo comma dell'art. 155 c.p.c.), sostanzialmente equiparabile alla domenica, e come tale sottratto all'ordinario regime di quotidianità lavorativa della giornata feriale.
III) L'art. 15 l. fall., che nella sua originaria formulazione prevedeva addirittura la semplice facoltà, e non l'obbligo, di sentire il debitore in camera di consiglio, è stato inizialmente dichiarato costituzionalmente illegittimo per violazione dell'art. 24 Cost. (cfr. Corte Cost. 16 luglio 1970, n. 141), e successivamente modificato dal D. Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 (entrato in vigore il 16 luglio 2006), che ha introdotto un termine minimo di quindici giorni liberi tra la data della notificazione del provvedimento di convocazione e quella dell'udienza. La permanenza in vigore della norma, così come formulata, è stata tuttavia piuttosto effimera, poiché già il successivo D. Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, ha espunto l'aggettivo “liberi”, lasciando immutato il resto dell'art. 15. La conclamata natura “dilatoria” del termine in questione (diretto a consentire al debitore l'articolazione di una difesa, seppur nel contingentamento dei tempi dell'istruttoria fallimentare) riecheggia disposizioni normative strutturate in modo pressoché identico (l'art. 415, comma 5, c.p.c. in materia di processo del lavoro, oppure l'art. 318, comma 2, c.p.c. in tema di procedimento dinnanzi al giudice di pace), alcune delle quali (l'art. 318, per esempio) espressamente correlate alla natura “libera” del termine a comparire. Nel caso dell'art. 15 l. fall., tuttavia, la ricordata soppressione della parola “liberi” riconduce il termine nel più ampio alveo di quelli per cui vale la regola espressa dall'art. 155, comma 1, c.p.c., per il quale il dies a quo non computatur.
A dire il vero, l'utilizzo da parte del legislatore dell'espressione “tra la data della notificazione e quella dell'udienza deve intercorrere un termine non inferiore a…” evoca istintivamente nel lettore la nozione di “termine libero” (si vedano il già citato art. 318 c.p.c., oppure l'art. 163-bis c.p.c.), tanto che alcuni interpreti avevano ritenuto addirittura pleonastica la soppressione della parola “liberi” da parte del decreto “correttivo”, continuando a ritenere “libero” anche il termine in questione. E' il caso, ad esempio, della stessa Corte d'Appello di Perugia, che nella pronuncia sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite ha revocato la sentenza di fallimento per il mancato rispetto del termine di quindici giorni espressamente qualificato come “libero” (nonostante l'intervenuta modifica introdotta dal decreto “correttivo”), meritandosi così la correzione della motivazione ai sensi dell'art. 384, comma 4, c.p.c.
Infatti, la stessa Corte di Cassazione ha più volte riaffermato il principio per cui qualora la legge non preveda espressamente un termine come “libero”, trova applicazione il criterio generale previsto dall'art. 155 c.p.c., secondo il quale non vanno conteggiati il giorno e l'ora iniziali, dovendosi per contro computare quelli finali (sentenze 23 maggio 2011, n. 11302, 21 marzo 2006, n. 6263 e 4 novembre 1997, n. 10797).
Acclarato, dunque, che il termine previsto dall'art. 15 l. fall. non è più “libero”, la Corte ne ha correttamente individuata la natura dilatoria e, quanto alle modalità di suo computo, lo ha annoverato tra i termini a c.d. “decorrenza successiva”,vale a dire quelli da calcolarsi “in avanti” (in prospettiva, dunque, dell'evento processuale successivo: in questo caso l'udienza di comparizione), e non “a ritroso”, sia in quanto termine visibilmente posto a difesa del debitore in previsione della comparizione dinnanzi al giudice delegato, sia perché non certo destinato a consentire alle controparti di conoscere il contenuto di un certo atto entro un tempo fissato a decorrere dal susseguente accadimento processuale. La differenza tra termine “a decorrenza successiva” e termine da computarsi “a ritroso” può essere quasi plasticamente percepita all'interno dello stesso art. 15 l. fall.: accanto al termine di quindici giorni del terzo comma, decorrente dal giorno della notificazione (e quindi proiettato “in avanti”), possiamo trovare il termine di sette giorni per il deposito di memorie difensive previsto dal quarto comma, da computarsi invece all'indietro, vale a dire a partire dall'udienza di comparizione. Non a caso, infatti, quest'ultimo termine risulta chiaramente posto non più a presidio del debitore, in prospettiva di un evento (l'udienza di comparizione) innescato dalla controparte ricorrente, bensì proprio a favore di quest'ultima, legittimamente desiderosa di esaminare gli scritti difensivi del primo entro un congruo termine anteriore alla celebrazione dell'udienza stessa.

Questioni aperte

Nella fattispecie risolta dalle Sezioni Unite con la decisione in commento, la notifica a mezzo posta del provvedimento di fissazione d'udienza da parte del creditore istante non era stata eseguita tramite ufficiale giudiziario, bensì direttamente dal difensore, avvalendosi della facoltà prevista dall'art. 3, comma 3, L. 21 gennaio 1994, n. 53 (“Facoltà di notificazioni di atti civili, amministrativi e stragiudiziali per gli avvocati”). La Corte, eccettuato un breve accenno al punto 3.1.4., non ha mai evidenziato tale circostanza nella propria pronuncia, con ciò verosimilmente sancendo una completa equiparazione normativa tra affidamento dell'atto all'ufficiale giudiziario (con susseguente rimessione dello stesso al servizio postale) e notifica “in proprio”, ossia senza il coinvolgimento di quest'ultima figura.
La circostanza suscita un certo interesse, poiché da più parti è stato rilevato, in passato, come tanto la citata sentenza della Corte Costituzionale n. 477/2002, quanto il successivo intervento legislativo attuato con la L. 263/2005, modificativa dell'art. 149 c.p.c., abbiano espressamente menzionato solo la notificazione eseguita dall'ufficiale giudiziario, e non anche quella attuata dal difensore ai sensi della L. 53/1994. Non a caso, l'attuale formulazione dell'art. 149, comma 3, c.p.c., nel codificare la scissione degli effetti per il notificante ed il notificando, prevede testualmente la “consegna del plico all'ufficiale giudiziario”, ma non accenna ad altre forme di recapito previste dall'ordinamento.
Ebbene, proprio a tale riguardo, va ricordato che anche dopo la sentenza n. 477/2002 e la modifica dell'art. 149 c.p.c., alcune decisioni giurisprudenziali hanno espressamente escluso l'applicabilità di quest'ultimo, nella sua formulazione attuale, alla notifica eseguita dall'avvocato ai sensi della L. 53/1994, aggiungendo che in tal caso essa si perfeziona, anche per il notificante, con la consegna del plico al destinatario da parte dell'agente postale (T.A.R. Piemonte, Sez. I, 9 aprile 2008, n. 604; T.A.R. Piemonte, Sez. I, 12 febbraio 2009, n. 231; T.A.R. Piemonte, Sez. I, 10 aprile 2009, n. 1018; Trib. Cassino, 21 ottobre 20107 settembre 2010, n. 734). Questo orientamento interpretativo, che prende le mosse dalla sentenza della Suprema Corte 25 settembre 2002, n. 13922 (ovviamente anteriore, è solo il caso di precisare, sia alla decisione n. 477/2002 della Corte Costituzionale, sia alla modifica del codice di rito in parte qua), non si limita a richiamare esclusivamente il tenore testuale dell'art. 149 c.p.c., facendo ricorso al principio ubi lex voluit, dixit, ubi noluit, tacuit. Esso, invero, valorizza altresì la ratio ispiratrice della genesi del principio della “scissione”, vale a dire l'esigenza di evitare il rischio che gli effetti negativi di incontrollabili ritardi, inerzie o disguidi in cui possa incorrere l'ufficiale giudiziario nell'esecuzione del proprio incarico, ricadano incolpevolmente sulla parte notificante: poiché, nella notifica “diretta” tramite il difensore, viene completamente a mancare una fase del procedimento notificatorio (ossia proprio quella affidata all'ufficiale giudiziario), il rischio di decadenze o perenzioni a motivo di inconvenienti riguardanti la sola spedizione e consegna del plico, si ridurrebbe al punto da rendere inapplicabile il principio della “scissione”.
L'orientamento in questione, già largamente minoritario e contraddetto da svariate pronunce di legittimità, che stabiliscono la piena equiparazione, ex art. 149, comma 3, c.p.c., tra la notificazione tramite ufficiale giudiziario e quella eseguita dal difensore (si vedano Cass. 13 novembre 2009, n. 24041 e Cass. 30 luglio 2009, n. 17748), dovrà necessariamente prendere atto della pronuncia delle Sezioni Unite, senza lasciare ulteriore spazio ad interpretazioni eterodosse o comunque dissonanti.
Ciò non toglie che, con buona pace dell'opinione pubblica per “non addetti ai lavori” cui si è accennato all'esordio, la Suprema Corte avrebbe potuto aggiungere mezza pagina alle 26 già ineccepibilmente articolate in precedenza, per togliere definitivamente ed espressamente di mezzo una fastidiosa voce stonata che, senza giustificato motivo, aggiunge una preoccupazione, o comunque un'insidia, a quelle già numerose che quotidianamente affliggono la professione dell'avvocato.

Conclusioni

Un ulteriore passo in avanti nel work in progress diretto alla delineazione di un sistema più certo e razionale per un settore così nevralgico come quello delle notificazioni, dei termini e delle garanzie processuali ad essi riconducibili: così può essere vista la pronuncia delle Sezioni Unite, che senza enucleare principi di diritto particolarmente raffinati sotto il profilo concettuale o innovativi dal punto di vista dei contenuti, ha l'indubbio pregio di stabilire un altro punto fermo di sicura utilità per la quotidiana attività giudiziaria. L'auspicio è che di vero e proprio “punto fermo” si tratti, senza che eventuali interpretazioni eterodosse o prassi derogatorie possano nel tempo formarsi e costringere qualche giudice a tornare su di un argomento ormai definito a tutti gli effetti.

Minimi riferimenti giurisprudenziali e normativi

I principali interventi della Corte Costituzionale in materia di notificazioni sono costituiti dalla sentenza n. 346 del 23 settembre 1998 (relativa al secondo comma dell'art. 8 L. 890/82) e da quella n. 477 del 26 novembre 2002 (avente ad oggetto il combinato disposto dell'art. 149 c.p.c. e dell'art. 4, terzo comma, L. 890/82), attivata dall'ordinanza della Corte di Cassazione 2 febbraio 2002, n. 1390.
Va poi segnalata la “pietra miliare” costituita dalla pronuncia n. 141 del 16 luglio 1970, che ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 15 l. fall. nella parte in cui non prevedeva l'obbligo di disporre la comparizione del debitore.
Con riferimento alla produzione giurisprudenziale della Suprema Corte, si vedano anzitutto le sentenze 25 febbraio 2011, n. 4707 e 26 febbraio 2009, n. 2009, in tema di legittimazione del curatore a proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di revoca del fallimento.
Quanto al calcolo dei termini, Cassazione 7 maggio 2008, n. 11163, sull'inapplicabilità della proroga al giorno feriale successivo nel caso di termine da computarsi “a ritroso”.
Circa l'equiparazione, agli effetti di cui all'art. 149, ultimo comma, c.p.c., tra notifica eseguita dall'ufficiale giudiziario e notifica eseguita dal difensore, si rimanda a Cassazione 30 luglio 2009, n. 17748 ed a Cassazione 13 novembre 2009, n. 24041.
Infine, Cassazione 23 maggio 2011, n. 11302, Cassazione 21 marzo 2006, n. 6263 e Cassazione 4 novembre 1997, n. 10797, affrontano il tema dell'applicabilità dell'art. 155 c.p.c. nel computo del termine non considerato “libero”.
Le norme che disciplinano la materia trattata, come accennato, sono l'art. 149 c.p.c. (notificazione a mezzo del servizio postale) ed i correlati artt. 4-7-8, L. 20 novembre 1982, n. 890 (“Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari”). Vengono poi in rilievo l'art. 155 c.p.c. in materia di computo dei termini processuali, così come modificato dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, nonché l'art. 3, L. 21 gennaio 1994, n. 53, che abilita gli avvocati alla notificazione di atti civili, amministrativi e stragiudiziali. Sotto il profilo più strettamente fallimentaristico, si vedano poi l'art. 15 l. fall., che procedimentalizza l'iter pre-fallimentare, ed in particolare il suo comma 3, nonché l'art. 18 l. fall., preso in esame dalle Sezioni Unite per accreditare la legittimazione del Curatore a proporre ricorso per cassazione.

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