Concordato preventivo misto e nomina del liquidatore giudiziale

Chiara Ravina
15 Settembre 2015

Qualora ci si trovi di fronte ad un concordato misto (possibile e lecito in virtù del principio di atipicità del piano concordatario di cui all'art. 160 l. fall.) è possibile ritenere che debba trovare applicazione la disciplina del piano concordatario prevalente, salva la possibilità di applicazione congiunta delle due discipline, ove non siano incompatibili secondo il criterio della integrazione.
Massima

Qualora ci si trovi di fronte ad un concordato misto (possibile e lecito in virtù del principio di atipicità del piano concordatario di cui all'art. 160 l. fall.) è possibile ritenere che debba trovare applicazione la disciplina del piano concordatario prevalente, salva la possibilità di applicazione congiunta delle due discipline, ove non siano incompatibili secondo il criterio della integrazione.

La possibilità di proporre, ai sensi dell'art. 186-bis l. fall., un concordato che si fondi sulla continuità aziendale in capo alla stessa società proponente è compatibile con la necessità, di cui all'art. 182 l. fall., nei casi di concordato con cessione ai creditori, di procedere alla nomina di un liquidatore che provveda alla realizzazione della procedura competitiva di vendita.

Il caso

Con il decreto in esame il Tribunale di Roma omologa un concordato preventivo che il debitore ricorrente aveva qualificato come concordato in continuità c.d. “pura” e che i giudici hanno invece definito come concordato c.d. “misto”.
Il fatto di “incasellare” il concordato in questione nell'una o nell'altra categoria non è questione meramente dogmatica, ma ha un rilievo pratico notevole. La classificazione rileva, infatti, ai fini dell'individuazione della disciplina regolante la fase esecutiva del concordato; ciò sia sotto il profilo della necessità o meno della nomina di un liquidatore giudiziale ai sensi dell'art. 182 l. fall. per la vendita di uno stabilimento aziendale non “strategico”, sia sotto il profilo – per la verità non espressamente affrontato dal Tribunale – della regolamentazione delle vendite ai sensi degli artt. 105107 l. fall. (richiamati dall'art. 182 l. fall.).
La proposta di concordato ha come contenuto il soddisfacimento dei creditori suddivisi in classi secondo determinate percentuali ed entro un certo termine dalla vendita dello stabilimento e/o dal passaggio in giudicato del decreto di omologazione. Tale contenuto è specificamente indicato come obbligazione di risultato e non di mezzi, ossia non dipendente dall'andamento dell'attività aziendale in continuità.
Il piano concordatario prevede: (i) la continuazione dell'attività di impresa da parte dello stesso debitore; (ii) l'ingresso di un nuovo investitore nella compagine sociale attraverso un aumento di capitale; (iii) il soddisfacimento dei creditori non attraverso gli utili della prosecuzione dell'attività, ma attraverso, rispettivamente, la cessione di uno stabilimento produttivo a terzi e l'aumento di capitale sottoscritto dall'investitore subordinatamente al passaggio in giudicato del decreto di omologa. Inoltre, la società – premessa “l'impossibilità giuridica di nominare un liquidatore giudiziale in un concordato in continuità pura” chiede di poter svolgere essa stessa la liquidazione, indicando, però, sin da subito “il nominativo del dott. ___ quale professionista in possesso dei requisiti di cui all'art. 28 incaricato di porre in essere la procedura competitiva di vendita dell'immobile”.
Ciò premesso, con riguardo alla definizione della tipologia di concordato in esame, il Tribunale, come già detto, compie una riqualificazione in termini di concordato c.d. misto.
In particolare, da un lato, riconosce che ci si trova in presenza di un concordato con continuità aziendale, in quanto il piano concordatario prevede la prosecuzione dell'attività di impresa in capo alla stessa società proponente con un nuovo socio sottoscrittore di un aumento di capitale (trattasi della prima delle tre ipotesi di concordato con continuità aziendale individuato dall'art. 186-bis l. fall.); allo stesso tempo, però, rileva come sia nella proposta che nel piano, sia anche prevista la cessione di una parte del patrimonio (i.e. uno stabilimento produttivo non strategico per la prosecuzione) mediante una successiva alienazione attraverso una procedura competitiva, volta a reperire risorse per soddisfare i creditori medesimi. Elementi, questi, che portano il Tribunale a ricondurre il concordato in esame anche nella figura “tradizionale” del concordato con cessio bonorum, in cui il debitore mette a disposizione dei propri creditori (rectius degli organi della procedura) uno o più beni perché vengano liquidati con procedura competitiva ed i proventi vengano destinati al soddisfacimento dei loro crediti.
Tale modalità di liquidazione - ci ricorda il Tribunale - consiste nella messa a disposizione del bene in favore dei creditori e non comporta alcun immediato trasferimento della proprietà dei beni a favore degli organi della procedura, ma l'attribuzione agli stessi di un mandato irrevocabile, conferito anche nell'interesse dei terzi (creditori), alla loro liquidazione. Il Tribunale fa notare, incidenter tantum, che la cessio bonorum non è affatto l'unica forma possibile di liquidazione dei cespiti in un concordato e richiama la figura del concordato c.d. chiuso, caratterizzato dalla predeterminazione dell'acquirente e del prezzo di vendita, come elementi della proposta, soggetti al gradimento ed all'approvazione dei creditori in sede di voto.
Una volta stabilito il carattere “misto” del concordato in esame, il Tribunale passa a chiedersi quale debba essere la disciplina applicabile a questa fattispecie, se quella del concordato con continuità aziendale di cui all'art. 186-bis l. fall. ovvero quella del concordato con cessione di beni di cui all'art. 182 l. fall. Al riguardo, i giudici romani - prendendo le mosse dalla giurisprudenza e dalla dottrina consolidatesi in tema di contratto misto – ritengono che, laddove possibile, debbano applicarsi congiuntamente le discipline dei due concordati (in continuità e con cessione) secondo un principio di integrazione, mentre, solo in via “subordinata”, in caso di incompatibilità, debba applicarsi la disciplina del piano concordatario che risulti prevalente (senza, peraltro, specificare in base a quali criteri si possa individuare la “prevalenza”).
L'ultimo interrogativo affrontato nel decreto in esame riguarda l'obbligatorietà o meno della nomina del liquidatore nella fattispecie de qua, avendo la società chiesto, in prima battuta, di svolgere essa stessa la liquidazione del bene, stante la (ritenuta) natura in continuità c.d. “pura” del piano, e indicato, sin dalla proposta, un possibile nominativo di liquidatore avente i requisiti di professionalità ed indipendenza richiesti dagli artt. 28 e segg. l. fall. (richiamati dall'art. 182 l. fall.).
Sul punto, il Tribunale, da un lato, propende per la tesi del carattere necessario e vincolante della nomina di un liquidatore terzo, come conseguenza dell'individuazione, nel caso di specie, di un'ipotesi di cessio bonorum (seppur limitata a parte del patrimonio) e quindi di applicazione dell'art. 182 l. fall; dall'altro lato, accetta la nomina del liquidatore designato dal debitore medesimo in quanto soggetto munito dei requisiti richiesti dagli artt. 28 e segg. l. fall. e, nel decreto di omologa, individua in dettaglio le modalità di liquidazione, prescrivendo l'osservanza delle previsioni della proposta concordataria e, in difetto di previsione o in caso di superamento della stessa, il rispetto dei principi delle vendite competitive fallimentari di cui agli artt. 105 – 108 ter l. fall. (principi peraltro richiamati dallo stesso debitore come regole della liquidazione).

Le questioni giuridiche e la soluzione

Come si legge nel testo del decreto, il Tribunale affronta due questioni che articola così testualmente:
a) quale disciplina debba trovare applicazione in caso di concordato c.d. “misto”, se la disciplina speciale di cui all'art. 186-bis l. fall. ovvero quella del concordato con cessione di beni di cui all'art. 182 l. fall.; e
b) se l'art. 182 l. fall., ove dispone che il Tribunale provveda alla nomina del liquidatore se il concordato “non dispone diversamente”, possa essere interpretato nel senso di consentire non solo di nominare il liquidatore indicato dalla società (possibilità ormai pacificamente riconosciuta: ex multis Trib. Ravenna, 28 aprile 2015; Cass. 15 luglio 2011, n. 15699; Trib. Mantova 3 ottobre 2013; G. Bozza, La fase esecutiva del concordato preventivo con cessione dei beni, in Fall. 2012, 775), ma persino di nominare, in sede di omologazione, alcun liquidatore, rimettendo direttamente alla società proponente il concordato l'onere di liquidare il bene.
Al primo quesito il Tribunale risponde richiamando, in primis, un criterio di applicazione “combinata” dei due modelli di concordato e solo in seconda battuta il criterio della prevalenza.
Quanto al secondo quesito, il Tribunale, sulla base della lettura congiunta dei commi 1 e 2 dell'art. 182 l. fall., conclude che la nomina del liquidatore e del comitato dei creditori è necessaria e non ovviabile da una diversa volontà manifestata dal debitore; quanto alla nomina del soggetto proposto dal debitore, il Tribunale la ammette, anche in considerazione del fatto che essa è parte di quella proposta su cui i creditori hanno espresso il loro consenso, purché tale nominativo rispetti i requisiti di cui all'art. 28 l. fall.
Collegata al secondo quesito vi è la questione della derogabilità o meno dei criteri dettati dall'art. 107 l. fall. per le modalità di liquidazione. Anche sotto questo profilo il Tribunale, nel decreto di omologa, incorpora le modalità di liquidazione indicate nella proposta (che, peraltro, richiamavano già esse stesse l'art. 107 l. fall.) e precisa come le regole dettate per le vendite fallimentari – improntate a principi di competitività della procedura di vendita ed all'adeguatezza delle forme di pubblicità - non siano derogabili. Ferme queste regole di base, la scelta della procedura competitiva specifica (aggiudicazione diretta al miglior offerente ovvero gara sull'offerta più alta) viene in concreto rimessa all'interlocuzione tra liquidatore, commissario giudiziale e comitato dei creditori.

Osservazioni

Preliminarmente, desideriamo segnalare che, nelle more della pubblicazione del presente commento, il legislatore, con decreto legge n. 83 del 27 giugno 2015 recante “Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria” (GU Serie Generale n.147 del 27 giugno 2015) (di seguito, il “Decreto Legge”), ha apportato modifiche, inter alia, al disposto dell'art. 182 l. fall. volte, essenzialmente, ad eliminare alcuni dubbi interpretativi su questioni trattate anche dal decreto in commento.
In particolare, è stata aggiunta al primo comma una disposizione che estende alle cessioni dei beni effettuate in base a tale articolo (id est le cessioni dei concordati con cessio bonorum) le forme di pubblicità previste dal codice di procedura civile in materia di vendite pubbliche (art. 490 c.p.c.).
Soprattutto, è stato modificato il quinto comma dell'art. 182 l. fall. nei termini che seguono: “Alle vendite, alle cessioni, ed ai trasferimenti legalmente posti in essere dopo il deposito della domanda di concordato o in esecuzione di questo, si applicano gli artt. da 105 a 108 ter in quanto compatibili. La cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonchè delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo, sono effettuati su ordine del giudice, salvo diversa disposizione contenuta nel decreto di omologazione per gli atti a questa successivi” (corsivo aggiunto).
Con riguardo alle modifiche del quinto comma, nella Relazione tecnica al disegno di conversione in legge, si legge: “Con tale aggiunta il legislatore ha voluto rimuovere qualsiasi dubbio circa l'effetto «purgativo» anche delle cessioni effettuate prima dell'ammissione alla procedura di concordato, purché debitamente autorizzate, nonché delle cessioni attuate in esecuzione del concordato omologato, ma ad opera di un soggetto diverso dal liquidatore giudiziale, come accade ad esempio quando la proposta non preveda la nomina di un liquidatore giudiziale o per le dismissioni previste ai sensi dell'art. 186 bis, primo comma, nell'ambito di un concordato con continuità aziendale” (corsivo aggiunto).
Ora, volendo “leggere tra le righe” il testo delle modifiche e, soprattutto, il commento contenuto nella Relazione tecnica sopra citata, sembrerebbe emergere, indirettamente, la conferma che, nelle intenzioni del legislatore, (i) la liquidazione dei beni nell'ambito di un concordato con liquidazione dei beni non strategici ovvero in continuità c.d. “pura” ovvero con garanzia possa essere gestita da un soggetto diverso dal liquidatore giudiziale di cui all'art. 182 l. fall. (potrebbe trattarsi anche dello stesso debitore); ovverosia che per la liquidazione dei beni nell'ambito di queste tipologie di concordato, non debbano necessariamente applicarsi le regole di cui all'art. 182 l. fall. relative alla nomina di un liquidatore giudiziale e del comitato creditori da parte del tribunale; in caso contrario, non si spiegherebbe il riferimento contenuto nella Relazione tecnica alle “cessioni attuate da un soggetto diverso dal liquidatore” e ancor meno l'ulteriore riferimento alle “dismissioni previste ai sensi dell'art. 186 bis, primo comma, nell'ambito di un concordato con continuità aziendale”; (ii) rimanere, però, fermo, anche per le liquidazioni gestite da terzi/dallo stesso debitore, l'effetto c.d. “purgativo” delle vendite effettuate e la necessità di conformare la liquidazione ai principi di competitività e pubblicità delle vendite fallimentari (artt. da 105 a 108-ter l. fall.).
Le modifiche sopra descritte, sembrano, quindi, fornire uno spunto per rispondere alle questioni su cui si è interrogato il Tribunale di Roma nel decreto in commento; Tribunale che, come vedremo, è pervenuto ad una soluzione non del tutto in linea con l'interpretazione dell'art. 182, quinto comma, l. fall. che sembra emergere dalle modifiche di cui sopra, quantomeno sotto il profilo sub (i) (posto che il profilo sub (ii) non è stato espressamente affrontato).
Ovviamente, si tratterà di verificare come la giurisprudenza applicherà la norma così modificata ai singoli casi concreti. Staremo a vedere.
Fatta questa precisazione, veniamo ora ad analizzare, nel dettaglio, il provvedimento in commento. L'analisi è svolta tenendo conto della normativa applicabile ratione temporis alla fattispecie oggetto del decreto (e cioè quella vigente ante-Decreto Legge) e dando atto del dibattito di dottrina e giurisprudenza che si è generato sui vari temi ivi trattati.
Innanzitutto è bene evidenziare che le due questioni affrontate dal Tribunale di Roma sottendono, in realtà, molteplici problematiche ulteriori.
Con riguardo al primo quesito sulla disciplina applicabile al concordato c.d. misto, bisognerebbe, innanzitutto, domandarsi se la previsione di liquidazione del patrimonio comporti necessariamente che il concordato sia qualificabile come concordato con cessio bonorum.
Anzi, per la verità, tale questione rimanda ad una distinzione preliminare che si colloca “a monte”: ovverosia quella tra concordato con cessione dei beni e concordato liquidatorio, che - dopo la riforma di cui al d.l. 14 marzo 2005, n. 35 (convertito in legge con modificazioni dalla l. 14 maggio 2005, n. 8) e le successive modifiche della legge fallimentare – potrebbero considerarsi espressioni non fungibili.
Infatti, in base al quadro normativo vigente, per concordato liquidatorio deve intendersi quella procedura che non prevede, nel piano, la prosecuzione dell'attività di impresa e che si contrappone, pertanto, al concordato di risanamento, altrimenti detto concordato con continuità aziendale, disciplinato dall'art. 186-bis l. fall.
La prima tipologia è rappresentata dal classico concordato con cessione di beni ex art. 182 l. fall. (che recita: “se il concordato consiste nella cessione di beni …”), il cui piano contempla un'attività di liquidazione dei cespiti aziendali generalmente affidata agli organi della procedura.
Peraltro tale attività di liquidazione dei beni ben può inserirsi – almeno in parte - in un concordato con continuità aziendale; e ciò ogni qualvolta la liquidazione riguardi cespiti non strategici per la prosecuzione dell'attività di impresa, i cui proventi possono essere utilizzati dal debitore per soddisfare i creditori e/o per la finanziare la continuità stessa.
Ciò detto, possono poi essere fatte distinzioni ulteriori, frutto dell'elaborazione giurisprudenziale e dottrinale degli ultimi anni. È noto, per esempio, il dibattito circa la riconducibilità o meno alla categoria del concordato con continuità aziendale ex art. 186-bis l. fall. delle fattispecie in cui il debitore stipula un contratto di affitto di azienda, con impegno irrevocabile di acquisto, prima della presentazione della domanda di concordato, ovvero in pendenza di procedura (previa autorizzazione del giudice delegato ai sensi dell'art. 167 l. fall.), prevedendo, nella proposta, che il pagamento dei creditori avvenga con le risorse derivanti dai canoni corrisposti dall'affittuario in pendenza di procedura e dalla vendita dell'azienda a seguito dell'omologa.
Secondo un orientamento più rigoroso, tale fattispecie integra, in realtà, un concordato liquidatorio (più precisamente concordato liquidatorio con risanamento indiretto) e non rientra nella figura del concordato con continuità neppure come ipotesi di “cessione dell'azienda in esercizio”, in quanto l'espressione “in esercizio” va interpretata nel senso che l'azienda debba rimanere nella gestione del debitore sino alla fase esecutiva del piano di concordato (cioè quella successiva all'omologa) in cui verrà ceduta per l'appunto “l'azienda in esercizio” (cfr. Trib. Ravenna 28 aprile 2015 cit., secondo cui le regole dell'art. 186-bis l. fall. sono applicabili “… ogni qual volta in cui il piano concordatario si fondi anche solo in parte sulla prosecuzione dell'attività di impresa da parte del debitore post ammissione alla procedura concorsuale minore (il che non è ad esempio laddove già in epoca anteriore a tale momento la debitrice abbia ceduto o affittato a terzi la prosecuzione dell'azienda: in quel caso non si pone l'esigenza di produrre un business plan relativo ad un diverso soggetto, ma di valutarne da parte dell'attestatore la sua solvibilità senza che ciò debba richiedere un giudizio di «migliore soddisfacimento» rispetto ad altre alternative diversamente liquidatorie”; Trib. Busto Arsizio 1 ottobre 2014; Trib. Arezzo 27 febbraio 2015 “… poiché a norma dell'art. 186-bis l. fall. la continuità deve essere prevista nel piano che è strumento di adempimento della proposta, è da ritenere che la continuità, al servizio dell'adempimento della proposta, sia quella post decreto di omologazione”; Trib. Ravenna 29 ottobre 2013).
Del resto, in questa ipotesi, i creditori, non essendo pagati con i proventi della continuazione dell'attività di impresa, non partecipano al rischio di impresa, così che i requisiti richiesti dall'art. 186-bis l. fall. quanto ai contenuti del piano (previsione costi/ricavi) e dell'attestazione (funzionalità della continuazione al miglior soddisfacimento dei creditori), non hanno a ben vedere ragione di essere (cfr. ex multis, Trib. Ravenna 28 aprile 2015 cit.; Trib. Terni, 28 gennaio 2013, secondo cui: “Nell'ambito del concordato con continuità aziendale di cui all'articolo 186 bis L.F., la esplicita previsione del requisito della "cessione di azienda in esercizio" consente di escludere che il concordato con continuità possa essere attuato tramite la distinta ipotesi dell'affitto di azienda”).
Secondo un altro orientamento meno rigoroso, il concetto di continuità aziendale va inteso in senso oggettivo e, dunque, ben può sussistere anche in presenza di concordati che conducono alla dissoluzione dell'imprenditore e comportano il travaso dell'azienda a terzi, purché l'azienda in sé e per sé non venga meno (cfr. Trib. Bolzano 10 marzo 2015; Trib. Cuneo 29 ottobre 2013). In tal caso, troveranno applicazione alcune delle regole dell'art. 186-bis l. fall. (quelle, per esempio relative ai rapporti con la p.a.) mentre, per altri aspetti, varranno le regole dell'art. 182 l. fall. (così, ex multis, Trib. Vercelli 13 agosto 2014).
Fatta questa premessa, possiamo ritornare alla domanda iniziale: e cioè quale disciplina si applica alla liquidazione dei beni in un concordato con continuità aziendale con liquidazione dei beni non strategici? In effetti l'art. 186-bis, comma 1, ultimo periodo, l. fall., nulla dice circa le regole che devono essere seguite per liquidare i cespiti non strategici e non richiama l'art. 182 l. fall.
La risposta al quesito, a nostro avviso, non può essere univoca e va valutata per ogni singolo caso concreto, partendo, però, da una constatazione: e cioè che la cessione dei beni aziendali, in sé e per sé, non è un dato significativo. Come è stato giustamente rilevato, ciò che fa la differenza è capire dove si colloca la cessione e cioè se essa è oggetto della proposta di concordato ovvero del piano di concordato (cfr. M. Fabiani, Fallimento e concordato preventivo, vol. II - Il Concordato preventivo, commento sub art. 2221 cod. civ. (a cura di Scialoja – Branca – Galgano), Bologna, 2014, 720 e segg.; nello stesso senso, G.B. Nardecchia, Cessione dei beni e liquidazione: la ricerca di un difficile equilibrio tra autonomia privata e controllo giurisdizionale, in Fall. 2012, 92 e segg.).
Prendiamo l'esempio di un concordato con continuità aziendale, il cui piano preveda la prosecuzione dell'attività di impresa e la liquidazione di alcuni cespiti non strategici, allo scopo di reperire risorse per finanziare la continuità stessa e/o di soddisfare i creditori (unitamente ai proventi dell'attività aziendale).
Orbene, è evidente che qui la proposta di concordato non ha ad oggetto la cessione dei beni, essendo questa un mero elemento del piano concordatario e mezzo di reperimento di risorse per finanziare la continuità/soddisfare i creditori; più precisamente, l'oggetto della proposta è la prestazione monetaria che verrà ricavata dalla cessione oltre che, principalmente, dalla continuità. Per tale ragione - non essendo cioè oggetto della proposta il trasferimento della gestione e della liquidazione dei beni agli organi della procedura, come effetto dell'omologa (oggetto tipico della proposta di concordato con cessione dei beni) – il debitore manterrà tale gestione anche dopo l'omologa e potrà liquidare direttamente i beni.
In questo caso, pertanto, il concordato potrebbe essere qualificato non già come concordato misto, ma come concordato con continuità c.d. pura e dunque applicarsi esclusivamente la disciplina dell'art. 186-bis l. fall. e non dell'art. 182 l. fall. (così Trib. Monza, 13 febbraio 2015, secondo cui “il concordato con continuità aziendale è generalmente catalogabile come concordato con garanzia, con obbligo del debitore di assicurare ai creditori una percentuale certa di soddisfazione dei loro crediti e con il potere di controllo del commissario sul pagamento nei termini della percentuale concordataria”; Trib. Busto Arsizio, 1 ottobre 2014 secondo cui “il mantenimento in esercizio anche di una sola parte o ramo dell'azienda, per quanto ridotta, e ridimensionata rispetto all'originaria attività di impresa, è sufficiente a determinare l'integrale applicazione dello speciale stato del “concordato con continuità”, senza che sia necessario compiere alcuna indagine comparativa – che presenta spesso rilevanti margini di incertezza – volta a stabilire la preponderanza dell'attivo rinveniente dalla prosecuzione aziendale rispetto alla componente liquidatoria”).
Ciò implicherebbe che la gestione della liquidazione venga lasciata alla discrezione del debitore, non vincolato al rispetto dell'art. 182 l. fall. e quindi all'adozione di procedure competitive e pubbliche per la dismissione dei beni; allo stesso tempo, però, trattandosi di un concordato con continuità, la percentuale di soddisfacimento dei creditori esposta nella proposta sarebbe vincolante per il debitore (ex multis, tra le pronunce più recenti, Trib. Bari 4 maggio 2015).
Il fatto che la percentuale di soddisfacimento sia vincolante tutelerebbe i creditori rispetto al fatto che le operazioni di liquidazione (seppur relative a parte soltanto dei cespiti aziendali) non siano gestite da un organo terzo (cfr. ex multis Trib. Arezzo, 27 febbraio 2015; Trib. Bergamo, 10 aprile 2014; Trib. Mantova 10 aprile 2014).
Sempre a tutela dei creditori vi sarebbe poi l'attività di “monitoraggio” del commissario giudiziale che, ai sensi dell'art. 185, comma 1, l. fall., è chiamato a “sorvegliare l'adempimento, secondo le modalità stabilite nella sentenza di omologazione. Egli deve riferire al giudice ogni fatto dal quale possa derivare pregiudizio ai creditori”.
Analoghe considerazioni potrebbero ragionevolmente essere svolte qualora, nel quadro di una proposta di concordato con continuità, sia prevista la cessione di un unico cespite non strategico, i cui proventi contribuiscano - insieme alle risorse derivanti dalla continuità aziendale - al soddisfacimento dei creditori. È questo il caso deciso in un recente decreto del Tribunale di Prato che, nell'omologare un concordato in continuità con cessione di un unico bene non strategico, ha ritenuto possibile soprassedere alla nomina del commissario liquidatore, lasciando al debitore la gestione della liquidazione; il tribunale ha, però, richiesto il monitoraggio continuo e costante del commissario giudiziale e ha imposto al debitore il rispetto delle garanzie di pubblicità e competitività proprie delle vendite fallimentari (così Trib. Prato, 30 aprile 2014).
Su questa stessa linea si colloca un decreto del Tribunale di Chieti del 15 ottobre 2013 di omologa di un concordato con continuità, con previsione di cessione di cespiti non strategici. Nel caso specifico, la cessione non si configurava come ipotesi “tradizionale” di attribuzione dei beni ai creditori, bensì come conversione di assetti patrimoniali attivi in denaro. Alla stregua di tali particolarità, il tribunale riteneva di non nominare alcun liquidatore, lasciando al debitore la gestione della fase “liquidatoria”, fermo il controllo del commissario giudiziale e del giudice delegato.
Diversa sarebbe, invece, l'ipotesi in cui la proposta sia impostata con la previsione, per esempio, che i proventi dei cespiti liquidati vadano a soddisfare alcuni dei creditori, mentre gli altri siano soddisfatti attraverso i proventi della continuità aziendale. Qui verrebbe a configurarsi una sorta di “divisione patrimoniale” all'interno della massa attiva concordataria e l'art. 182 l. fall. dovrebbe tornare in gioco per disciplinare la parte del piano concordatario relativa a quella fetta di patrimonio oggetto di liquidazione. Secondo gli arresti più recenti della giurisprudenza, in casi simili – che, a nostro modo di vedere, sono gli unici concordati “misti” in senso proprio - le regole dettate dall'art. 182 l. fall. andrebbero ad integrarsi con quelle dell'art. 186-bis l. fall., nel senso che le une disciplinerebbero la gestione di quella parte del patrimonio destinata ad essere dismessa; mentre le altre regolerebbero la parte utilizzata per continuare l'impresa. Vi sarebbe, quindi un'integrazione delle due discipline per i profili di rispettiva “competenza” (si pensi alla questione della vincolatività o meno della percentuale di soddisfacimento dei creditori: questa dovrebbe esserlo per i creditori soddisfatti con i proventi della continuazione, mentre potrebbe non essere tale per quelli pagati con il corrispettivo della cessione dei beni, fermo, però, in questo secondo caso, la nomina di un liquidatore giudiziale incaricato di gestire la liquidazione secondo criteri di pubblicità e competitività di cui all'art. 182 l. fall.: così, Trib. Ravenna, 28 aprile 2015 in IlFallimentarista.it che cita altresì l'altro orientamento più risalente basato sul criterio di “prevalenza”; Trib. Trento, 19 giugno 2014, secondo cui, nei concordati di natura mista, la percentuale di soddisfacimento dei creditori non può essere prevista in maniera meramente descrittiva, come in caso di cessio bonorum; e ciò quantomeno per la parte di crediti destinata ad essere soddisfatta con i proventi dell'attività di impresa;in dottrina, cfr. G. Bozza, La fase esecutiva del concordato preventivo con cessione dei beni, cit., 767 e segg., secondo cui non sono ipotesi di concordato con cessione dei beni le fattispecie di concordato traslativo o di assunzione degli oneri a carico di un terzo, ma solo quelle in cui la liquidazione – totale o parziale – dei beni è finalizzata a ripartire il ricavato tra i creditori (sulla obbligatorietà della percentuale di soddisfacimento dei creditori in un concordato con cessione dei beni, cfr. Tribunale Milano 28 ottobre 2011 e 11 maggio 2012, in Dir. fall. 2012, II, 500 e segg., che distingue tra il concordato con cessione, sussumibile nella figura della contratto tipico di cui all'art. 1977 cod. civ., per cui ritiene la percentuale vincolante, e il concordato traslativo, in cui la percentuale indicata non è vincolante solo in quanto il debitore adempie la propria obbligazione trasferendo la proprietà dei beni al ceto creditorio; nello stesso senso, Cass. 15 settembre 2011, n. 18864; in senso contrario, Cass. 23 giugno 2011 n. 13817; in dottrina S. Ambrosini, Il caso “San Raffaele” ed il nodo (irrisolto) della percentuale vincolante di soddisfacimento dei chirografari, in Dir. fall. 2012, II, 564 e segg. e G.B. Nardecchia, Cessione dei beni e liquidazione: la ricerca di un difficile equilibrio tra autonomia privata e controllo giurisdizionale, in Fall. 2012, 92 e segg.).
Diffusa, nella prima applicazione giurisprudenziale, era, invece, la tesi secondo cui dovrebbe applicarsi la normativa e la regolamentazione relativa alla forma di concordato in concreto “prevalente”, peraltro, invocando il principio di prevalenza su base meramente quantitativa e non qualitativa (cfr. in questo senso, Trib. Vercelli, 13 agosto 2014 e Trib. Mantova, 19 settembre 2013 cit.; in senso opposto, cfr. Trib. Busto Arsizio, 1 ottobre 2014, cit., secondo cui per la qualificazione di un concordato con continuità aziendale non appare rilevante l'eventuale prevalenza o marginalità dei flussi derivanti dalla prosecuzione dell'attività).
All'opposto, la previsione di una parziale continuità dell'attività dell'impresa, ad esempio per ultimare la costruzione di immobili poi destinati alla liquidazione, non esprime una forma di concordato di risanamento, in quanto la prosecuzione dell'impresa è funzionale soltanto alla migliore gestione delle risorse per incrementare il valore di un cespite, comunque destinato alla liquidazione (cfr. M. Fabiani, op. cit., p. 721; v. però, in senso parzialmente contrario, Tribunale Ravenna 19 agosto 2014 che ritiene ammissibile ai sensi dell'art. 186-bis l. fall. la continuità aziendale “temporanea” a condizione, però che “l'interruzione non sia prevista prima della conclusione della fase di omologazione, posto che nulla impedisce una continuità aziendale volta ad eseguire progetti o contratti specifici che portino favorevoli risultati ai creditori”).
Alla luce delle considerazioni che precedono sulla distinzione proposta/piano e sebbene non ci sia univocità di vedute, saremmo dell'avviso che non sono riconducibili alla figura del concordato con continuità aziendale ex art. 186-bis l. fall. tutte quelle fattispecie in cui l'attività aziendale prosegue, in capo al debitore ovvero ad un terzo affittuario, nel periodo compreso tra la presentazione del piano/proposta e l'omologa, per poi cessare, subito dopo l'omologa, a seguito della liquidazione dei cespiti aziendali: è evidente che, in questo caso, l'oggetto della proposta di concordato è la liquidazione dell'azienda - i cui proventi verranno destinati al soddisfacimento dei creditori - e non certamente la continuazione dell'attività aziendale, il cui unico scopo è mantenere integro il valore aziendale per incrementare il prezzo di cessione.
In questo senso, dunque, ci pare assolutamente da condividere quell'orientamento giurisprudenziale sopra citato – ex multis Tribunale Ravenna 28 aprile 2015; Tribunale Arezzo 27 febbraio 2015; Tribunale Busto Arsizio 1 ottobre 2014; Tribunale Terni 28 ottobre 2013 – che esclude dal concordato con continuità aziendale le fattispecie basate sullo schema “affitto d'azienda - cessione a terzi”, ove la cessione venga a perfezionarsi prima o immediatamente dopo l'omologa. E ciò non tanto per il fatto che il soggetto che continua l'impresa non è lo stesso debitore, ma soprattutto perché la continuazione dell'impresa è un aspetto del piano e non l'oggetto della proposta, come, peraltro, conferma anche la circostanza che i creditori non vengano soddisfatti con i proventi della continuazione.
Ciò detto, l'analisi che precede consente di esaminare la posizione assunta dal Tribunale di Roma nel decreto in esame, raffrontandola con gli orientamenti e le posizioni sin qui descritte.
Innanzitutto è opportuno fare una notazione sulla qualificazione del concordato fatta nel caso in esame.
E' infatti interessante notare come il Tribunale di Roma abbia disatteso la qualifica proposta dal debitore di concordato con continuità c.d. pura e abbia riqualificato il concordato come concordato misto; ciò sul presupposto che il piano prevedeva anche la cessione dello stabilimento industriale i cui proventi erano destinati al pagamento dei creditori.
In realtà, la fattispecie in esame è assai peculiare, in quanto, da un lato, è previsto che i creditori siano soddisfatti esclusivamente con il prezzo di vendita dell'immobile e con le risorse derivanti dall'aumento di capitale e non con i proventi della continuità aziendale – il che potrebbe indurre a propendere addirittura per una qualificazione di concordato liquidatorio con risanamento indiretto; dall'altro lato, però, si prevede che la percentuale di soddisfacimento dei creditori indicata nella proposta sia vincolante per il debitore e che si configuri come un'obbligazione di risultato e non di mezzi (cfr. decreto sub p. 3: “la proposta di concordato (…) ha il seguente contenuto (specificamente indicato come obbligazione di risultato e non di mezzi ossia non dipendente dall'andamento della società)”) – il che porta a chiedersi se non ci si trovi piuttosto di fronte ad un concordato, parzialmente liquidatorio nel suo svolgimento, ma formalmente da ricondurre alla figura del c.d. concordato con garanzia, in cui il debitore si impegna a soddisfare i creditori in una certa misura.
Venendo al tema della disciplina applicabile al concordato c.d. misto – perché questa è la qualifica che il tribunale ha dato - il Tribunale di Roma opta per la tesi di applicazione “congiunta” dell'art. 186-bis e 182 l. fall. per le rispettive parti del piano, allineandosi così all'orientamento più recente sopra citato; viceversa, il criterio di prevalenza è meramente residuale ed applicabile soltanto se l'applicazione combinata delle due discipline non è in concreto possibile. Sotto questo profilo, il Tribunale ritiene che, nel caso specifico, le regole dell'art. 186-bis e quelle dell'art. 182 l. fall. ben possano coesistere; la prima con riguardo all'impresa che continua e la seconda (che prevede la nomina di un liquidatore e del comitato dei creditori) con riguardo alla parte dei cespiti oggetto di liquidazione.
La qualificazione della fattispecie da parte del Tribunale di Roma come concordato c.d. misto influisce ovviamente sulla risposta del Tribunale al secondo quesito, ovverosia, se l'espressione “se il concordato non dispone diversamente” contenuta nell'art. 182 l. fall. possa essere o meno interpretata nel senso di consentire, in un concordato c.d. misto, di non nominare alcun liquidatore, lasciando al debitore la gestione della liquidazione.
Questo quesito presuppone la risposta ad una domanda più generale: si tratta di capire se i poteri che l'art. 182, comma 1, l. fall. attribuisce al tribunale siano solo quelli di nominare un liquidatore ed il comitato dei creditori (nonché di definire le modalità di liquidazione nel rispetto dei criteri di cui agli artt. 105 – 108-ter l. fall.) in mancanza di disposizioni in tal senso nella proposta/piano concordatari ovvero se il tribunale possa anche esercitare un controllo sulla legalità delle condizioni espresse dal debitore e riportarle, se del caso, entro i limiti dettati dall'art. 182 l. fall. nei commi successivi al primo.
Anticipiamo sin d'ora che, al momento, non si è formato un orientamento univoco su questi punti e che le varie opinioni possono essere ricondotte a tre “correnti di pensiero”:
(i) quella secondo cui l'art. 182 l. fall. contiene una regolamentazione meramente sussidiaria, per cui essa non troverebbe applicazione ogni qual volta il debitore deroghi, nella proposta, alla disciplina legale (cfr. M. Fabiani, La «programmazione» della liquidazione del concordato preventivo da parte del debitore e la natura delle vendite concordatarie, in Fall. 2012, 906 ss., in particolare, 911; G. Lo Cascio, Natura della liquidazione concordataria, in Fall. 2011, 539; P. Pajardi – A. Paluchowsky, Manuale di diritto fallimentare, cit., 888-889;
(ii) quella secondo cui il debitore può non seguire la disciplina legale, che troverebbe applicazione residuale per le parti non definite negozialmente; prevale cioè la volontà delle parti che si traduce nel piano approvato e che può prevedere modalità liquidatorie diverse da quelle fissate dalla legge (così, G.P. Macagno, Natura giuridica della liquidazione nel concordato preventivo, in Fall. 2010, 23; M. Vitiello, Commento sub art. 182, in Codice commentato del fallimento, a cura di G. Lo Cascio, 2008, 1596);
(iii) quella secondo cui la disciplina legale prevale sulla volontà negoziale che può sì disporre della nomina degli organi di liquidazione e delle modalità della liquidazione stessa, ma in conformità delle previsioni legislative che costituiscono la regolamentazione minima e cogente della fase esecutiva della cessio bonorum (cfr. G. Di Cecco, Commento sub art. 182, in La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di A. Nigro, M. Sandulli, M. Santoro, Torino, 2010, 2237).
Alla luce si quanto precede, possiamo individuare due aspetti rilevanti nella regolamentazione della liquidazione: (i) la scelta del nominativo del liquidatore (e dei membri del comitato dei creditori) e (ii) la definizione delle modalità di liquidazione. Il decreto in esame tratta soltanto il primo dei due aspetti, in quanto per le modalità di liquidazione è la stessa società debitrice a far riferimento alle regole di competitività e di pubblicità delle procedure di vendita fallimentari, richiamate dall'art. 182 l. fall.
Ciò premesso, torniamo al secondo quesito ed alla risposta del Tribunale. Orbene, il Tribunale di Roma risponde negativamente al quesito, escludendo che, nel caso di specie, la liquidazione possa essere gestita direttamente dal debitore; e ciò sul presupposto che l'operazione di vendita dell'immobile rientri nella “cessione di beni ai creditori”. In questo senso, quindi, il Tribunale di Roma pare aderire all'ultima delle correnti di pensiero sopra delineate.
Come già detto, dal decreto emerge che la società, nella proposta, aveva indicato come non necessaria tale nomina, in considerazione della qualificazione che essa aveva attribuito al concordato - quella cioè di continuità c.d. pura – e si era impegnata essa stessa a gestire la liquidazione, dichiarando, “per trasparenza”, che avrebbe affidato la procedura di vendita dell'immobile ad un soggetto dotato dei requisiti di cui all'art. 28 l. fall., indicato nella proposta.
In questo senso, la posizione della società è “peculiare”, perché, da un lato, essa sostiene di avere il diritto di gestire direttamente la liquidazione – posizione, a nostro modo di vedere, condivisibile, anche in considerazione del fatto che la percentuale di soddisfacimento dei creditori era indicata, nella proposta, come vincolante – dall'altro lato, però, sembra quasi che preferisca cautelarsi dal rischio che il Tribunale non sia d'accordo e, per evitare la nomina di un liquidatore non gradito, ne indica uno di propria fiducia e munito dei requisiti di cui all'art. 28 l. fall. ovverosia, proprio quei requisiti richiesti dall'art. 182 l. fall.
Nel prosieguo torneremo sulla questione della predeterminazione del nominativo del liquidatore nella proposta di concordato.
Prima, però, preme evidenziare come la diversa visione del Tribunale e della società sulla necessità o meno della nomina del liquidatore dipendano, in ultima analisi, non da una diversa interpretazione dell'art. 182, comma 1, l. fall., ma dalla diversa qualificazione che l'uno e l'altra attribuiscono al concordato nel caso di specie. In effetti, se si prende per buona la qualifica che ciascuna delle due propone - rispettivamente in continuità (società) e misto – liquidatorio (Tribunale) – entrambe giungono ad una conclusione “corretta”.
Invero, è il quesito ad essere mal posto: chiedersi se sia obbligatoria o meno la nomina del liquidatore giudiziale (e del comitato dei creditori) in un concordato che prevede la liquidazione di cespiti aziendali non centra il “cuore” del problema. La domanda che occorre farsi è se il concordato con liquidazione di beni che viene in considerazione di volta in volta possa o meno annoverarsi nei concordati con cessione dei beni (in senso proprio: cessio bonorum/fattispecie ex art. 1977 c.c.), ovvero se non ci si trovi di fronte ad un concordato “liquidatorio nel suo divenire”, ma formalmente qualificabile come concordato con garanzia.
Del resto, la stessa norma dell'art. 182 l. fall. richiede chiaramente due requisiti perché si configuri un concordato “con cessione di beni” – che richiede, per l'appunto, la nomina del liquidatore e del comitato e del creditori - ovverosia: non solo che il concordato “non disponga diversamente”, ma, innanzitutto, che il concordato consista nella “cessione dei beni”. È, quindi, da quest'ultimo requisito che occorre far partire l'analisi per giungere ad una possibile risposta del quesito in esame (cfr. Bozza, La fase esecutiva del concordato preventivo con cessione dei beni, cit., 767 et seq.).
Secondo un'opinione nulla vieterebbe, nel sistema che attualmente regola il concordato preventivo, di affidare la liquidazione al debitore, purché il debitore si impegni a soddisfare i creditori in una certa misura (caratteristica tipica del c.d. concordato con garanzia); in mancanza di un impegno specifico in tal senso, sarebbe difficile, secondo questa dottrina, individuare un'obbligazione precisa del debitore – necessaria perché si formi l'accordo con i creditori nel concordato - ulteriore rispetto alla generica responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c. (Fabiani, op. cit., 724: “Se si ipotizza che il debitore propone ai creditori di liquidare il patrimonio e con il ricavato delle alienazioni soddisfa i creditori, non è facile trovare la causa del contratto. Infatti, a ben vedere, manca un'obbligazione a carico del debitore il quale nulla aggiunge alla responsabilità patrimoniale ex art. 2740 cod. civ. (…) perché si formi un accordo rispetto al quale vi sia l'interesse dei creditori e perché non sia una mera liquidazione volontaria, ma protetta dagli artt. 168 e 169 l. fall. occorre che il debitore assuma una precisa obbligazione e questa obbligazione non sembra poter essere una cosa diversa dall'impegno di soddisfare i creditori in una determinata percentuale” (corsivo aggiunto); nello stesso senso, cfr. G.B. Nardecchia, op. cit. 97: “La procedura di concordato con cessione dei beni deve produrre necessariamente al momento dell'omologa, l'effetto di trasferire in seno alla procedura la gestione e la liquidazione dei beni suddetti. Ove il debitore conservi sia la proprietà sia la disponibilità dei beni, non può certamente sostenersi che essi siano stati ceduti ai creditori. Ove poi la proposta preveda che quei beni saranno ceduti ad un soggetto ad un determinato prezzo, viene meno l'alea in ordine all'effettivo valore presente e futuro dei beni medesimi”).
In altri termini, nei casi in cui il debitore mantiene la titolarità/gestione dei cespiti e assume, nella proposta, un ben preciso impegno di soddisfacimento dei creditori è ben possibile che non venga nominato un liquidatore; ma ciò non perché il «salvo che non disponga diversamente» dell'art. 182 l. fall. debba interpretarsi nel senso che il debitore proponente un concordato con cessione dei beni possa decidere a sua discrezione di non nominare il liquidatore – domanda che si pone il Tribunale di Roma - bensì perché manca il primo dei due presupposti indicati nell'art. 182 l. fall.: la fattispecie del concordato con cessione di beni.
Invero, un concordato così delineato non è un concordato con cessione dei beni, ma un concordato con garanzia o addirittura un concordato c.d. chiuso (in cui, cioè, già in sede di proposta, il debitore ha indicato un acquirente dei cespiti ed un importo predeterminato a titolo di corrispettivo, che diventano, pertanto, oggetto dell'assenso dei creditori in sede di voto e sono dunque vincolanti per il debitore; il concordato potrà quindi essere risolto per inadempimento qualora il debitore non sia in grado di corrispondere ai creditori esattamente l'importo promesso nella proposta).
Fatta questa premessa, l'affermazione del Tribunale di Roma sulla necessità di nomina del liquidatore ai sensi dell'art. 182 l. fall. è assolutamente coerente con la qualifica di concordato (in parte) con cessione di beni che i giudici romani attribuiscono al caso di specie; qualifica su cui, a nostro sommesso avviso, potrebbe forse discutersi, in considerazione del fatto che la società qualifica come obbligazione di risultato gli impegni assunti nella proposta concordataria, ivi inclusa la percentuale di soddisfacimento offerta ai creditori. Ma tant'è.
In questo senso il Tribunale di Roma si pone in linea con l'indirizzo in generale assolutamente consolidato della giurisprudenza e della dottrina secondo cui il concordato con cessione dei beni (in senso proprio) richiede necessariamente una netta separazione tra il debitore e la proprietà ovvero la gestione del patrimonio e impone, pertanto, la nomina di un liquidatore e di un comitato dei creditori (cfr. ex multis, Trib. Roma 20 luglio 2010 in Fall. 2011, 225, Cass. 13 aprile 2005 n. 7661; Cavallini – Armeli, sub art. 182 l. fall., in Commentario alla legge fallimentare, diretto da Cavallini, I, Torino, 745).
Con riguardo ai requisiti che il liquidatore deve avere ai sensi dell'art. 182, comma 1, l. fall., rileviamo che, allo scopo di garantire che le “operazioni liquidatorie si svolgano correttamente ed efficacemente nell'interesse dei creditori” il decreto correttivo n. 169/2007 ha esteso al liquidatore l'applicazione di alcune norme dettate per il curatore, ed ha altresì rimodellato le modalità liquidatorie del concordato sulla base delle norme che regolano la liquidazione del patrimonio fallimentare (con il richiamo agli artt. da 105 a 108-ter l. fall. “in quanto compatibili”) (su questo secondo punto torneremo più avanti) (per il regime anteriore al decreto n. 169/2007, cfr. Cass. 20 gennaio 2011 n. 1345).
Ora, il richiamo dell'art. 28 l. fall. contenuto nell'art. 182 l. fall. vale ad estendere al liquidatore sia i requisiti per la nomina a curatore sia le ragioni di incompatibilità. Stante il potenziale conflitto con gli interessi dei creditori, la giurisprudenza non consente la nomina a liquidatore dello stesso debitore, e cioè dell'imprenditore individuale o dell'amministratore della società ammessa alla procedura (ex multis, Cass. 15 luglio 2011, n. 15699 cit.; Tribunale Roma 23 luglio 2010, in Fall. 2011, 226, G. Bozza, op. cit., 778) e neppure colui che ha ricoperto la carica di commissario giudiziale (così, Cass., 18 gennaio 2013, n. 1237, in Fall. 2013, 555 ss. con nota di V. Zanichelli; Trib. Pesaro, 5 dicembre 2013).
E' da notare che, anteriormente al decreto correttivo n. 169/2007, prevaleva in giurisprudenza l'orientamento affermativo, in funzione di un'asserita razionalità ed economicità della liquidazione (cfr. Trib. Cagliari, 30 giugno 1998, in Dir. fall. 1999, II, 169; Trib. Roma 3 luglio 1996, ibidem, 367; Trib.e Roma, 26 aprile 1993, ivi, 1993, II, 978; contra Trib. Torino, 21 gennaio 1991, in Fall. 1991, 761). Peraltro, questo indirizzo è stato confermato anche successivamente al citato decreto correttivo, ma rimane ormai nettamente minoritario (cfr. Trib. Lodi, 1 marzo 2010 in Fall. 2010, 593).
Chiarito, dunque, che il liquidatore deve presentare i requisiti di professionalità ed indipendenza del curatore e che non può coincidere con il debitore medesimo (almeno secondo l'orientamento largamente maggioritario e più recente di dottrina e giurisprudenza) veniamo ora a considerare l'ulteriore questione; e cioè se – fermo il rispetto dei requisiti di cui all'art. 28 l. fall. - il relativo nominativo possa o meno essere indicato dal debitore nella proposta.
La risposta della giurisprudenza a questa domanda è, in linea di massima, affermativa, fermo restando che, secondo un certo orientamento, “l'ultima parola” spetta sempre al tribunale che, almeno in via di principio, non parrebbe essere “vincolato” alle indicazioni del debitore, anche laddove rispettose dell'art. 28 l. fall. (così, in particolare, Trib. Milano, 28 ottobre 2011, cit.: “La proposta di concordato con cessione dei beni può prevedere l'indicazione di liquidatori ma il potere di nomina del liquidatore e quello di stabilire le modalità di liquidazione spettano sempre al tribunale”).
Viceversa, in varie pronunce pare emergere il principio secondo cui il tribunale dovrebbe nominare il soggetto indicato dal debitore, ogniqualvolta questo presenti i requisiti di cui all'art. 28 l. fall, potendo il tribunale intervenire con una diversa nomina solo laddove manchi, per l'appunto, un'indicazione o laddove tale indicazione non sia rispettosa dei predetti requisiti (cfr. Cass. 15 luglio 2011, n. 15699, cit.: “… se non effettuata con la proposta di concordato, la nomina spetta al tribunale con il decreto di omologazione, e tale potere sussiste anche nel caso in cui il liquidatore sia stato nominato dall'imprenditore nella richiesta di concordato, senza il rispetto dei requisiti di legge”; in dottrina, P. Pajardi – A. Paluchowsky, Manuale di diritto fallimentare, cit., 890; Nisivoccia, Impugnazione dei decreti resi nel giudizio di omologazione: autonomia privata e poteri del giudice, in Fall. 2011, 1294, il quale osserva che in questo caso il tribunale non modifica inammissibilmente la proposta, ma opera una eterointegrazione al pari di quanto si assume in ambito contrattuale).
Dal punto di vista “strettamente” giuridico, però, ci si interroga sul valore vincolante o meno dell'indicazione del liquidatore da parte del debitore, una volta che essa rispetti i requisiti di cui agli artt. 28 l. fall. Chi propende per la risposta negativa argomenta che, avendo il tribunale il potere di revoca, necessariamente deve anche disporre del potere di nomina (così Trib. Catania, 14 aprile 2011 in Foro it. 2012, I, 137); viceversa, chi propende per la risposta positiva fonda la sua posizione sull'art. 37-bis l. fall. che consente ai creditori di chiedere al tribunale la sostituzione del curatore e del comitato dei creditori, dando indicazioni sul nominativo dei sostituti che sono vincolanti, se rispettose dei criteri di cui all'art. 28 e 40 l. fall. (M. Fabiani, op. cit., 726-727).
In realtà, la soluzione, forse, più “corretta” potrebbe essere quella per cui il liquidatore può essere designato anche dal debitore nella proposta concordataria, fermo restando che è sempre necessaria la nomina da parte del tribunale nel decreto di omologa (così G. Bozza, op. cit., 778).
Ciò detto, si segnala come l'indicazione del nominativo del liquidatore nella proposta di concordato possa essere declinata in vari modi; ovverosia (i) come affidamento ad un fiduciario indicato nella proposta (analogamente alla fattispecie oggi espressamente prevista dall'art. 7 della legge n. 3/2012 sul sovraindebitamento: “Fermo restando quanto previsto dall'articolo 13, comma 1, il piano può anche prevedere l'affidamento del patrimonio del debitore ad un gestore per la liquidazione, la custodia e la distribuzione del ricavato ai creditori, da individuarsi in un professionista in possesso dei requisiti di cui all' articolo 28 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267. Il gestore è nominato dal giudice”); ovvero (ii) come richiesta che venga nominato un liquidatore giudiziale.
Ora, secondo un'opinione, nel caso sub (i) non dovrebbero trovare spazio le regole dell'art. 182 l. fall. e le regole della liquidazione dovrebbero essere disciplinate integralmente nella proposta (così, M. Fabiani, op. cit., 726).
Nel caso sub (ii) potrebbero verificarsi due situazioni. E cioè che il debitore indichi, quale oggetto della proposta, che venga designato un certo soggetto munito dei requisiti di cui all'art. 28 l. fall. (analogamente a quanto fatto dalla società debitrice nel caso sottoposto al Tribunale di Roma) ovvero che la scelta venga rimessa alla discrezionalità del tribunale (discrezionalità che entra, in ogni caso, in campo laddove il nominativo prescelto non rispetti i requisiti di cui all'art. 28 l fall.: cfr. ex multis, Cass. 15 luglio 2011, n. 15699 cit.).
La differenza tra le due ipotesi sta nel fatto che, nel primo caso, il nominativo del futuro liquidatore è parte della proposta e quindi soggetto al gradimento dei creditori (che, almeno in linea teorica, potrebbero non gradire il nome proposto dal debitore), mentre nel secondo caso, è il giudice ad operare tale scelta dopo che il concordato è stato omologato.
Veniamo ora, per completezza, a svolgere alcune considerazioni su un'ultima problematica connessa all'applicazione dell'art. 182 l. fall., ovverosia quella del carattere vincolante o meno del richiamo alle regole delle vendite fallimentari (artt. 105 – 108-ter l. fall.) contenuto nell'art. 182, comma 5, l. fall. che stabilisce: “si applicano gli artt. da 105 a 108-ter in quanto compatibili”. Ci limiteremo a fare dei brevi cenni, considerato che, come già detto, essa non è stata oggetto di analisi specifica nella pronuncia in commento.
Come già anticipato, riteniamo che, con le modifiche introdotte dal Decreto Legge al quinto comma dell'art. 182 l. fall., il legislatore abbia inteso dare un segnale nel senso del carattere vincolante di tali regole anche nelle ipotesi di concordati in cui la vendita dei beni è gestita da un soggetto diverso dal liquidatore giudiziale. In questo senso, infatti, potrebbe essere interpretato il riferimento all'applicazione degli artt. da 105 a 108-ter l. fall. anche per le vendite anteriori all'omologa (che evidentemente non possono essere gestite da un liquidatore giudiziale).
Del resto, ferma restando la non univocità delle posizioni sopra descritte sull'interpretazione dell'art. 182 l. fall. nel regime ante-Decreto Legge, la posizione che ci pare più autorevole è proprio quella secondo cui il liquidatore, ancorché nominato dal debitore, debba attenersi alle modalità attuative delle vendite fallimentari, rispettandone i principi cardine di competitività e pubblicità (fermo restando che la scelta della specifica procedura di vendita – trattativa privata; gara tra più offerenti; … - viene rimessa alla valutazione “congiunta” del liquidatore, del commissario giudiziale e del comitato dei creditori, nonché ad eventuali indicazioni contenute nella proposta). Del resto, se è vero che la procedura di concordato preventivo ha un fondamento originario di natura negoziale e non giudiziale, costituito dalla proposta del debitore ai creditori, è altrettanto vero che la vendita dei cespiti si realizza in un contesto procedurale, definito nel decreto di omologa, che persegue finalità che coinvolgono l'intera massa fallimentare, analogamente alla liquidazione fallimentare.
Un'applicazione interessante dei principi delle vendite fallimentari al concordato e, soprattutto, di prevalenza delle stesse rispetto alla regolamentazione negoziale, si riscontra nella pronuncia del Tribunale di Milano del 12 giugno 2014 che ha ritenuto incompatibile “con la regola della necessaria competitività delle vendite attuate ai sensi dell'articolo 182 L.F.” il piano concordatario basato su un contratto di affitto di azienda che preveda la facoltà per la società affittuaria, nel caso in cui la stessa eserciti il diritto di prelazione e si renda acquirente dell'azienda, di imputare i canoni di affitto a pagamento del prezzo.

Conclusioni

Alla luce dell'analisi che precede, riteniamo che la posizione assunta dal Tribunale di Roma rispetto ai due quesiti sopra individuati – disciplina applicabile al concordato c.d. “misto” e necessità o meno della nomina del liquidatore – sia condivisibile nella misura in cui si prenda per buona la qualifica di concordato c.d. misto che il Tribunale attribuisce alla fattispecie in esame.
Sotto quest'ultimo profilo, a nostro avviso, i giudici romani avrebbero (forse) potuto fare una riflessione ulteriore sulla qualificazione della fattispecie concreta, dando maggiore rilievo alla circostanza che la percentuale di soddisfacimento dei creditori è stata indicata, nella proposta, come obbligazione di risultato. Tale circostanza, unitamente al fatto che il cespite ceduto era uno solo, avrebbe dovuto/potuto indurre il Tribunale ad individuare un'ipotesi di concordato con continuità pura, tanto più che la prosecuzione dell'attività aziendale rimaneva in capo al debitore medesimo, anche nella fase successiva all'omologa.
Più in generale, quello che ci pare manchi, nel decreto in esame, è un ragionamento approfondito su come la liquidazione dei cespiti possa essere presente anche in un concordato con continuità, senza per ciò solo modificarne la natura; così che il concordato che prevede, allo stesso tempo, la continuità aziendale e la cessione di parte dei cespiti non è necessariamente un concordato c.d. misto (nel vero senso del termine), ma ben può qualificarsi come concordato in continuità pura, laddove la liquidazione sia, per l'appunto, una componente del piano e non della proposta, e riguardi beni non strategici.
Come anticipato, il dibattito di dottrina e giurisprudenza sulle questioni trattate dal Tribunale nel presente decreto verrà molto probabilmente influenzato dalle modifiche dell'art. 182, comma quinto, l. fall. introdotte dal Decreto Legge. Il legislatore nella Relazione tecnica per la conversione in legge, sembra dirci due cose:
(i) che la liquidazione può essere gestita anche da un soggetto diverso dal liquidatore giudiziale, rispettivamente quando la proposta non prevede la nomina di un liquidatore (espressione che potrebbe riferirsi alla fattispecie del concordato c.d. con garanzia ovvero con continuità pura); ovvero per le cessioni effettuate nell'ambito dei concordati di cui all'art. 186-bis primo comma l. fall.;
(ii) a prescindere dal soggetto che gestisce la liquidazione, non si può derogare ai principi-cardine delle vendite fallimentari espressi dagli artt. da 105 a 108-ter l. fall. e all'effetto c.d. “purgativo”, sia per le vendite autorizzate dal tribunale in pendenza di concordato, sia per quelle successive all'omologazione.
Sotto il profilo sub (i) le indicazioni del legislatore non paiono risolvere del tutto le problematiche che ci siamo posti nella presente trattazione; in particolare, in presenza di un concordato che prevede la cessione di beni e, allo stesso tempo, la continuazione dell'attività di impresa, l'interprete dovrà pur sempre domandarsi se la liquidazione è parte del piano o della proposta e, in base alla risposta, stabilire se la fattispecie concreta rientra nell'ambito di un concordato con continuità “tout court”; ovvero di un concordato con cessio bonorum; ovvero di un concordato c.d. “misto” ai sensi dell'art. 186-bis, comma primo, ultima parte, l. fall.
Come abbiamo visto, la risposta a questa domanda non è così immediata e la circostanza che l'art. 182, comma quinto, l. fall., come modificato dal Decreto Legge, possa essere interpretato nel senso della non necessarietà della nomina del liquidatore, rispettivamente, per i concordati la cui proposta non prevede la nomina del liquidatore (concordati con garanzia), e per quelli con continuità che preveda la dismissione di cespiti, non significa però che il legislatore abbia fornito un criterio per “incasellare” nelle diverse categorie quei concordati che vedono la “compresenza” di continuità dell'azienda e cessione di beni.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Nel testo sono state già inserite, all'occorrenza, le pertinenti citazioni di dottrina e di giurisprudenza.
Per un commento alle misure introdotte dal Decreto Legge, cfr. F. Lamanna, La miniriforma (anche) del diritto concorsuale secondo il decreto “contendibilità e soluzioni finanziarie” n. 83/2015: un primo commento, in IlFallimentarista.it.

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