Fallimento di imprese d’investimento estere dirette da società di fatto italiana
03 Agosto 2015
Massima
Ai sensi dell'art. 3, par. 1, Reg. (CE) 1346/2000, competenti a dichiarare il fallimento sono i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore, presumendosi per le società e le persone giuridiche che detto centro coincida con il luogo in cui si trova la sede statutaria; trattandosi però di una presunzione relativa, ogni qual volta in punto di fatto risulti accertata una discrepanza tra sede legale e sede effettiva, è l'ubicazione di quest'ultima a dover prevalere e a costituire perciò il criterio determinante della giurisdizione.
La mera configurabilità di un rapporto di gruppo tra una pluralità di soggetti societari non basta a dimostrare che l'eventuale insolvenza di uno di questi coinvolge anche gli altri; diverso tuttavia è il caso in cui si faccia unitariamente riferimento all'insolvenza di più società tra le quali si ravvisa non già un mero rapporto di gruppo, bensì una situazione di acclarata commistione gestionale, sottintendente una comunanza di posizioni debitorie ed una comune incapacità di farvi fronte.
Le disposizioni del TUB e del TUF, che prevedono la sottoposizione a liquidazione coatta di banche e società di intermediazione mobiliare, si applicano alle sole imprese operanti previa autorizzazione e non anche a quelle che svolgono la medesima attività in via di mero fatto.
Per poter considerare esistente una società di fatto, anche in sede fallimentare, non occorre la prova del patto sociale, ma è sufficiente la dimostrazione – con indagine fattuale incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e immune da vizi logici o giuridici – di un comportamento, tale da ingenerare nei terzi il convincimento giustificato e incolpevole, di agire come soci, atteso che, nonostante l'inesistenza dell'ente, per il principio dell'apparenza del diritto a tutela della buona fede dei terzi, coloro che si comportano esteriormente come soci vengono ad assumere in solido obbligazioni come se la società esistesse; cionondimeno, un conto è aver dimostrato l'esistenza di una società di fatto, altro è considerare dimostrata la specifica partecipazione a detta società di un singolo collaboratore dichiarato fallito per estensione.
La notifica del ricorso per fallimento e del decreto di convocazione eseguita dalla polizia giudiziaria non è totalmente incompatibile con le regole della procedura prefallimentare, ancorché essa non possa dirsi legittima ove manchi il decreto presidenziale che motivatamente l'abbia disposta giustificandola con ragioni d'urgenza; in tal caso si tratta di una notifica viziata, ma non inesistente, per cui, ove giunta a buon fine, il vizio risulta sanato, tanto più quando il debitore informato si sia costituito.
Deve ritenersi consentita, in applicazione dell'art. 164, comma 3, c.p.c., in assenza di una previsione contraria o incompatibile dettata dalla disciplina speciale, la fissazione di una nuova udienza dopo la comparizione del debitore che lamenti il mancato rispetto del termine di cui all'art. 15, comma 3, l. fall., cosicché il diritto di difesa possa pienamente esplicarsi.
Se è vero che l'onere posto a carico del ricorrente in Cassazione dal c.p.c. è soddisfatto anche mediante la produzione del fascicolo nel quale gli atti sui quali il ricorso si fonda siano inseriti e, quanto al contenuto del fascicolo d'ufficio, mediante il deposito dell'istanza di trasmissione di quest'ultimo, vistata dalla cancelleria del giudice che ha emanato la sentenza impugnata, resta pur sempre ferma l'esigenza di specifica indicazione nel ricorso, a pena d'inammissibilità, sia degli atti stessi, sia dei dati necessari al loro reperimento. Il caso
Con sentenza del Tribunale di Roma (21 novembre 2011) veniva dichiarato il fallimento di una ravvisata società di fatto esercente attività di raccolta e gestione del risparmio, nonché dei rispettivi soci illimitatamente responsabili. Con la medesima sentenza si apriva inoltre il fallimento di altre tre società sostanzialmente collegate, con sede legale all'estero (due in Gran Bretagna e una in Irlanda), per il tramite delle quali si era svolta sul territorio italiano, anche dopo la loro cessazione formale, l'attività finanziaria non autorizzata della predetta società di fatto a cui le prime facevano capo. Successivamente, con sentenza conforme alla pronuncia di primo grado, la Corte di appello di Roma (10 settembre 2012) rigettava i reclami proposti avverso la declaratoria d'insolvenza con cui si denunciava, tra l'altro, l'incompetenza giurisdizionale del giudice italiano a dichiarare il fallimento delle società estere. Presentato quindi ricorso in Cassazione, la causa veniva assegnata alle S.U. per essere uno dei motivi di doglianza proprio in tema di giurisdizione. Con la sentenza in epigrafe, la Suprema Corte dà oggi conferma, pressoché totale, della decisione di merito impugnata, tenendo ferma anzitutto la giurisdizione italiana. La questione giuridica
Tra i molteplici motivi di ricorso prospettati, le S.U. esaminano prioritariamente proprio la questione di giurisdizione relativa all'apertura del fallimento in Italia delle tre società con sede legale all'estero. Questione che si sceglie qui di approfondire per la riconosciuta rilevanza e la sottile peculiarità che la connota, tralasciandosi invece gli altri profili – di cui comunque si dà conto nelle succitate massime –, non potendo questi ultimi trovare spazio adeguato nella presente annotazione. La soluzione
Sul tema in esame la Cassazione conforta, ancora una volta, la comune esegesi dell'art. 3, par. 1, Reg. (CE) 1346/2000 sulle procedure d'insolvenza, già fatta propria, senza vizi, dalla corte territoriale. Nel giudizio di merito si dimostrava in particolare, con accertamento stimato conforme alle risultanze istruttorie acquisite, una divergenza tra la sede legale e quella effettiva delle società estere coinvolte, tale da far cadere la presunzione relativa introdotta dalla norma comunitaria che identifica, per le società e le persone giuridiche, il c.d. “COMI” (centre of main interests), ove il debitore gestisce i suoi interessi in modo abituale e riconoscibile dai terzi (cfr. considerando n. 13) – quale criterio principale per la determinazione della competenza giurisdizionale ai fini dell'apertura della procedura d'insolvenza transfrontaliera –, nel luogo in cui si trova la sede statutaria. Da una serie di dati sintomatici emersi nel corso dell'istruttoria prefallimentare, si evinceva infatti che il luogo degli interessi principali delle società in questione si collocava in Italia, e segnatamente a Roma, «con riferimento sia alla formazione della volontà dell'ente, sia al centro concretamente operativo». Nella specie, si riscontrava: che le imprese d'investimento straniere erano sempre riconducibili alla compagine della società di fatto italiana; che le stesse avevano operato (quasi) esclusivamente in Italia sotto la direzione unitaria del medesimo gruppo di persone; che le sedi impiegate per operare economicamente si localizzavano in Roma; e che l'attività di raccolta del risparmio era avvenuta con pianificazione in Italia degli investimenti ad opera dei suddetti soggetti italiani. Per tali motivi, dunque, anche la corte d'appello condivideva la conclusione del giudice di prime cure secondo cui il luogo «dove si svolgeva l'amministrazione delle società, nonché dove le società raccoglievano i risparmi degli investitori, tenevano rapporti con i clienti e con le banche e dove sono apparse ai terzi operare» era da rinvenirsi in Italia. Detta collocazione territoriale si riteneva peraltro non adeguatamente contraddetta da fatti solo genericamente dedotti, attinenti alla presenza, in Inghilterra e Irlanda, di «alcuni uffici funzionanti e pertanto in certo senso operativi». Tali circostanze, alla luce della valutazione di merito complessiva incensurata in sede di legittimità, non venivano infatti reputate sufficienti a inficiare le univoche risultanze da cui desumere che l'attività sociale fosse «unitariamente programmata in Italia e da qui diretta» e, pertanto, che il centro amministrativo, ai fini dell'apertura della procedura d'insolvenza ex Reg. (CE) 1346/2000, fosse circoscritto nel territorio di detto Stato. Considerato anche, come evidenziato dalla Suprema Corte, che non venivano chiarite con supporto probatorio né l'epoca di svolgimento dell'attività estera (in funzione della dichiarazione di fallimento), né la dimensione della stessa (rapportata all'insieme delle attività esercitate), e neppure si esplicitava se il compimento delle operazioni all'estero fosse deciso in loco o meno, constatandosi al contrario come il loro esercizio fosse in realtà «la mera esecuzione materiale di direttive provenienti dal centro decisionale» localizzato in Italia. Appurato così il luogo in cui le società, con sede legale formalmente all'estero, avevano sede effettiva, giocoforza è risultato corretto, da ultimo con avallo delle S.U., il radicamento in Italia della competenza giurisdizionale per l'apertura del fallimento a carico delle società medesime. Osservazioni
Con il principio di diritto enunciato, riportato in massima, la Cassazione non pare aggiungere nulla di nuovo a quanto ormai già consolidato negli orientamenti sviluppatisi in tema di fallimento in Italia di società straniere, per quel che in particolare concerne la determinazione della competenza giurisdizionale. Come noto, l'art. 9, comma 4, l. fall. fa salva la normativa europea, rinviando quindi, implicitamente, al citato Reg. (CE) 1346/2000 – oggi peraltro in procinto di “rifusione” –. In particolare, nel giudizio che qui occupa, di tale Regolamento e specificamente dell'art. 3, par. 1, letto in aderenza agli indirizzi interpretativi della Corte di Giustizia UE, viene fatta piana applicazione, sulla premessa, invero non esplicitata, della inoperatività della clausola di esclusione di cui all'art. 1, par. 2, la quale investe, tra le altre, anche le imprese d'investimento, come quelle in esame, che però, nella specie, sono risultate prive delle autorizzazioni richieste e così sottratte al regime speciale che tradizionalmente le connota (cfr. considerando n. 9), formando un “tutt'uno” con la ravvisata società irregolare italiana. In dottrina, ex multis, a commento dei precedenti giurisprudenziali richiamati: L. Baccaglini, In tema di giurisdizione fallimentare europea: trasferimento della sede legale all'estero e “centro degli interessi principali” della società nel pensiero della S.C., alla vigilia della modifica del Reg. 1346/2000, in Int'l Lis, 2013, 3-4, 140; V. Carbone, Trasferimento di sede di una società all'estero e procedura di insolvenza, in Corr. giur., 2013, 5, 724; Id. Trasferimento fittizio di sede della società all'estero e fallimento dichiarato dal giudice italiano, in Corr. giur., 2011, 11, 1497; Id. Trasferimento solo formale di sede di s.r.l. all'estero, in Corr. giur., 2009, 7, 899; A. Cerrato, Il trasferimento «fittizio» all'estero della sede legale di una s.r.l. già costituita in Italia non comporta il venir meno della giurisdizione italiana ai fini della dichiarazione di fallimento, in Dir. fall., 2012, 2, 142; P. De Cesari, Il trasferimento all'estero della sede legale dell'impresa insolvente, in Fall., 2010, 6, 663; A. Giordano, Trasferimento della sede all'estero e prova del COMI. La valutazione degli “interessi principali” nella logica del giudizio di fatto, in Dir. fall., 2014, 2, 95; G. Montella, Normativa sostanziale europea e processuale italiana nella determinazione del COMI, in Fall., 2014, 1, 91; V. Palladino, Dichiarazione di fallimento: la giurisdizione italiana in caso di trasferimento della sede sociale del debitore all'estero, in Il Fallimentarista, 21 dicembre 2011; R. Weigmann, Nota in tema di dove dichiarare il fallimento, in Giur. it., 2012, 5. |