Azione di inefficacia: presupposti e limiti di impugnazione degli atti compiuti dal fallito

21 Luglio 2015

L'inefficacia stabilita dal secondo comma dell'art. 44 l. fall. trova integrale applicazione soltanto in relazione ai pagamenti ricevuti dal fallito per titoli anteriori alla sentenza dichiarativa.
Massima

L'inefficacia stabilita dal secondo comma dell'art. 44 l. fall. trova integrale applicazione soltanto in relazione ai pagamenti ricevuti dal fallito per titoli anteriori alla sentenza dichiarativa.


La disposizione di cui al capoverso dell'art. 44 l. fall. deve essere interpretata in collegamento con le norme dettate dagli artt. 42 (secondo comma) e 46 (primo comma, n. 2) l. fall., con la conseguenza che le attività non possono essere acquisite separatamente dalle passività che ad esse ineriscono e che le somme guadagnate dal fallito possono essere acquisite esclusivamente per la parte eccedente quanto occorra per il mantenimento del fallito stesso e della sua famiglia.


Il decreto che il giudice delegato emette ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 46 l. fall. ha natura dichiarativa, in quanto destinato ad individuare i limiti quantitativi di un diritto che ad esso preesiste.

Il caso

La controversia sottoposta al vaglio dei giudici di legittimità riguardava l'azione di inefficacia promossa, ex art. 44 l. fall., dalla curatela fallimentare di un imprenditore individuale, avente ad oggetto pagamenti ricevuti dal fallito, dopo la sentenza dichiarativa, a titolo di corrispettivo per prestazioni svolte nell'esercizio di una nuova attività di impresa.
Dalla sentenza annotata si apprende che tale domanda, già rigettata in primo grado, era stata accolta dalla Corte d'appello di Bari.
Contro quest'ultima decisione, proponeva ricorso per cassazione la parte convenuta, deducendo violazione sia dell'art. 44 l. fall., giacché l'inefficacia ivi stabilita non poteva operare allorquando, come nel caso di specie, si trattava di beni sopravvenuti dopo la dichiarazione di fallimento; sia dell'art. 42 l. fall., dovendosi detrarre dalle attività acquisite le passività sostenute per la loro realizzazione.
L'esame congiunto di tali motivi di impugnazione ne determinava l'accoglimento, dando luogo alla decisione sintetizzata nelle massime dianzi riportate.

Le questioni aperte

Nella sentenza annotata figurano trattate le principali problematiche che caratterizzano l'azione di inefficacia di cui all'art. 44 l. fall. allorquando, come nel caso di specie, il soggetto dichiarato fallito sia una persona fisica.
Come si avrà modo di osservare, inoltre, la motivazione offre lo spunto per qualche approfondimento anche sui temi non direttamente esaminati ai fini del giudizio, ma per molti versi connessi all'utile esercizio della predetta azione, che pure appaiono di sicuro interesse per gli operatori, sul piano non solo teorico.
Una prima questione, per vero non controversa, ma centrale nella regolamentazione della sorte degli atti compiuti dal fallito, e dalla quale conviene dunque prendere le mosse, riguarda l'ambito di operatività della sanzione di inefficacia.
Essa infatti trova integrale (recte, incondizionata) applicazione solo in relazione ai pagamenti ricevuti dal fallito per titoli formatisi anteriormente alla sentenza dichiarativa.
La ratio della distinzione circa il momento genetico dell'obbligazione estinta con il pagamento si collega, come puntualmente enunciato in sentenza, agli effetti che la dichiarazione di fallimento produce sul patrimonio del debitore, ed in particolare ai principi fondamentali dello spossessamento (stabilito dall'art. 42 l. fall., con il conseguente trasferimento al curatore dell'amministrazione e della disponibilità dei beni, (in senso lato intesi), e della c.d. ‘cristallizzazione' (che imprime il ben noto vincolo di destinazione e di protezione a norma dell'art. 51 l. fall.).
Rispetto agli atti dispositivi che trovano titolo in un rapporto anteriore alla dichiarazione di fallimento, e per essa alla apertura del concorso sul patrimonio del fallito, la sanzione di inefficacia di cui all'art. 44 l. fall. (che non a caso, come si dirà, ha carattere oggettivo) svolge dunque una funzione ancillare, a presidio e tutela della integrità di quel patrimonio.
Poiché peraltro il fallimento, a differenza dell'atto di pignoramento, colpisce l'intero patrimonio del fallito, e poiché conformemente al principio generale dettato dall'art. 2740 c.c. il debitore risponde delle obbligazioni con tutti i beni, presenti e futuri, questi ultimi vengono acquisiti alla massa attiva, al netto delle passività che ad essi ineriscono, come espressamente previsto dal capoverso dell'art. 42 l. fall.
Anche il tema concernente il concetto di beni sopravvenuti, che nel tempo la giurisprudenza ha dilatato ricomprendendovi pacificamente le somme di denaro, non rappresenta questione controversa, fermo restando quanto di seguito si esporrà, con particolare riferimento ai rapporti di conto corrente bancario ed alla ripartizione dell'onere probatorio in ordine alla sorte delle movimentazioni ivi intervenute.
E' più interessante, viceversa, notare come la Corte regolatrice abbia implicitamente dato risposta positiva al quesito, in passato dibattuto, circa la possibilità, per il fallito, di iniziare e poi svolgere una nuova attività imprenditoriale dopo l'assoggettamento alla procedura concorsuale.
Pur ignorandosi gli esatti termini della fattispecie processuale sottesa alla pronuncia in esame, dalla motivazione si apprende infatti che le somme oggetto dell'azione di inefficacia si riferivano ai proventi per lavori eseguiti nell'esercizio di un'attività di impresa.
Quanto infine al decreto con il quale il giudice delegato determina, a norma dell'art. 46, secondo comma, l. fall., l'ammontare delle somme riservate al fallito per pensioni, salari ed attività nella misura occorrente al mantenimento suo e della famiglia, i giudici di legittimità ribadiscono l'indirizzo affermatosi nel senso della natura dichiarativa, e non già costitutiva, di detto provvedimento.
In altri termini, e contrariamente a quanto in passato si riteneva, il diritto al mantenimento del fallito preesiste e viene riconosciuto indipendentemente dal provvedimento, che può dunque (esclusivamente) incidere sulla entità delle attribuzioni spettanti al fallito.
Le conseguenze di ordine pratico di tale orientamento, sul quale non consta altrettanta uniformità nell'ambito della giurisprudenza di merito, appaiono di immediata evidenza: dalla natura dichiarativa discendono, infatti, non solo l'efficacia retroattiva del decreto del giudice delegato, ma pure la stabilità dei pagamenti eseguiti dal terzo in favore del fallito in sua assenza ovvero, e quantomeno, per la parte eccedente la misura da quegli determinata.

La soluzione

Nel paragrafo precedente si sono per molti versi anticipati i principi di diritto, del tutto lineari ed ormai consolidati, che hanno informato la decisione.
Preme però osservare come la sentenza sia frutto di un'interpretazione sistematica, attraverso un collegamento particolarmente stretto e consequenziale - tra l'una e l'altra -, delle norme che disciplinano gli effetti di carattere patrimoniale che la dichiarazione di fallimento produce nella sfera del fallito.
Sul presupposto di fatto che le somme oggetto di impugnazione ex art. 44 l. fall. trovassero titolo in rapporti sorti successivamente alla dichiarazione di fallimento, la Corte ne ha anzitutto inferito l'applicabilità alla fattispecie della disposizione di cui al capoverso dell'art. 42 l. fall., ai sensi della quale i beni che pervengono al fallito in costanza di procedura vengono acquisiti al netto delle passività che ad essi ineriscono.
Di qui, facendo proprio il risalente (in termini, si veda già Cass. 13 maggio 1991, n. 5334) indirizzo secondo cui il concetto di beni va riferito a tutte le attività, e dunque naturalmente anche alle somme di denaro, ha ritenuto che dall'ammontare dei pagamenti ricevuti dal fallito dovessero essere detratti gli oneri sostenuti nell'esercizio dell'impresa dal quale erano scaturiti i pagamenti stessi.
Rispetto all'importo così ottenuto, i giudici di legittimità hanno quindi stabilito che, in assenza del decreto che il giudice delegato emette a norma dell'art. 46, primo comma, n. 2, l. fall., il residuo spettasse al fallito quale somma occorrente al suo mantenimento.
Come s'è detto, infatti, superando l'opposto indirizzo (Cass. 1 aprile 1998, n. 3373; Cass. 25 luglio 1986, n. 4758) che attribuiva al provvedimento del giudice delegato efficacia costitutiva, la giurisprudenza di legittimità afferma unanimemente che il diritto del fallito a percepire e trattenere gli emolumenti a tal fine necessari sussiste prima ed indipendentemente dal ripetuto decreto, la cui funzione deve dunque ritenersi limitata alla mera determinazione quantitativa (Cass. 31 ottobre 2012, n. 18843; Cass. 30 luglio 2009, n. 17751; Cass. 27 settembre 2007, n. 20325).

Osservazioni

Come si è detto, la sentenza annotata offre lo spunto per un rapido approfondimento di alcuni temi non direttamente presi in considerazione, che tuttavia meritano la dovuta attenzione da parte degli operatori.
Si è accennato che l'azione di inefficacia, per la sua funzione di tutela del patrimonio del fallito, ‘cristallizzato' al momento della apertura del concorso, ha carattere squisitamente oggettivo: l'atto dispositivo viene colpito senza alcuna indagine circa lo stato soggettivo della controparte del fallito, la cui buona fede risulta dunque del tutto irrilevante ai fini del relativo giudizio.
Occorre, naturalmente, che l'atto dispositivo sia compiuto successivamente alla dichiarazione di fallimento.
In passato, si riteneva che detto momento coincidesse con la data di pubblicazione della sentenza dichiarativa.
Mentre tutti gli altri effetti derivanti dal fallimento continuano a decorrere dal deposito della sentenza, è ora opinione corrente, anche in giurisprudenza (Trib. Milano 23 gennaio 2014; Trib. Milano 8 maggio 2012), che nei confronti dei terzi essi si producano a far data dalla iscrizione della sentenza nel registro delle imprese, a norma dell'art. 17 l.. fall.
A seguito della riforma, e prima ancora della stessa istituzione del registro delle imprese, si presume dunque, come per altre vicende nelle quali è destinato ad operare il principio generale di cui all'art. 2193 c.c., che i terzi abbiano notizia della dichiarazione di fallimento in dipendenza della iscrizione della sentenza.
Trattandosi di presunzione semplice a salvaguardia della buona fede dei terzi, la curatela potrà ovviamente provare che essi ne erano venuti comunque a conoscenza.
Della natura (meramente) dichiarativa del decreto che il giudice delegato emette a norma dell'art. 46 l. fall. si è già diffusamente esposto a proposito delle questioni giuridiche e della soluzione adottata.
Giova solo aggiungere che, alla stregua dei più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità nel solco dell'evoluzione interpretativa della citata norma (si veda la recentissima Cass. 8 aprile 2015, n. 6999, secondo cui “per poter fondatamente agire al fine di far accertare la parziale o totale inopponibilità e per conseguire la condanna del solvens in favore del fallimento, il curatore ha l'onere di richiedere preventivamente al giudice delegato la pronuncia del decreto previsto dall'art. 46, 2° comma, l. fall., così da poter documentare l'eventuale eccedenza di quanto pagato dal debitore direttamente al fallito”), tale provvedimento finisce ora per assumere, per il curatore che intenda promuovere l'azione di inefficacia ex art. 44 l. fall. dei pagamenti ricevuti dal fallito, le fattezze di autentica condizione di procedibilità.
Ignorando se, ed in quale misura, le somme versate al fallito fossero ritenute necessarie al mantenimento suo e della sua famiglia, infatti, al curatore potrebbe essere efficacemente eccepita la carenza di interesse ad agire.
In ogni caso, è quantomeno opportuno, anche ai fini del petitum (e dunque avuto riguardo alla regolamentazione delle spese processuali), che l'azione sia preceduta dalla ripetuta delibazione da parte del giudice delegato.
Si rammenta in proposito che la riforma della legge fallimentare, facendo proprie le (più che condivisibili) conclusioni già raggiunte sul punto dalla giurisprudenza, prevede ora espressamente che il decreto venga motivato.
Quanto alla determinazione delle somme spettanti a fallito e famiglia, e ferma restando naturalmente la necessità di valutare in concreto, caso per caso, la situazione specifica dell'interessato, si ritiene comunemente che ci si possa limitare al mero soddisfacimento di esigenze alimentari, senza tuttavia garantire un tenore di vita corrispondente a quello fruito prima della dichiarazione di fallimento.
Sempre sul piano pratico, conviene soffermarsi ancora brevemente sulla fattispecie senz'altro più ricorrente, ovverosia il rapporto di conto corrente bancario sul quale intervengano, dopo la sentenza dichiarativa, movimentazione in dare ed in avere.
Ribadito che anche nei confronti delle banche gli effetti decorrono dalla iscrizione della sentenza nel registro delle imprese, salva la prova da parte del curatore di una conoscenza aliunde acquisita, è bene sottolineare che, qualora tali movimentazioni si riferiscano ad un'attività professionale (in senso lato), il curatore potrà chiedere la restituzione del solo saldo attivo residuo, e non già di tutti i pagamenti compiuti e ricevuti dal correntista.
Anche a questo riguardo, però, resta salva la dimostrazione che il conto corrente non fosse funzionale ad una nuova attività del fallito, ovvero che i pagamenti non inerissero, in tutto o i parte, ad essa.

Minimi riferimenti giurisprudenziali e bibliografici

In generale, a parte i comuni manuali e commentari nella sezione riguardante gli effetti per il fallito, si segnalano per la cura e l'ampiezza della trattazione G. Cavalli, Gli effetti del fallimento per il debitore, in (a cura di) S. Ambrosini - G. Cavalli - A. Jorio, Trattato di diritto commerciale, Padova, 2008, 313 e ss.; N. Rocco di Torrepadula, Sub art. 44, in (diretto da) A. Jorio, Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2006, 718 e ss.; P. Genoviva, Gli effetti patrimoniali e personali del fallimento per il fallito, in (a cura di) G. Fauceglia - L. Panzani, Fallimento e altre procedure concorsuali, Torino, 2009, III, 443 e ss.
Sul regime di cui all'art. 42, secondo comma, l. fall., si veda R. Sacchi, L'acquisizione dei beni sopravvenuti nel fallimento, in Riv. dir. proc. 1998, 426.
Circa la natura del decreto che il giudice delegato emette a norma dell'art. 46 l. fall., E. Bruschetta, Temperamenti giurisprudenziali al principio della inefficacia oggettiva dei pagamenti ricevuti dal fallito: l'ombra della buona fede del solvens, in Fall. 2008, 415; A. Figone, Sulla revocabilità delle retribuzioni corrisposte al fallito in assenza del decreto del giudice delegato, ivi, 2013, 295.
Per agevolare il lettore interessato all'approfondimento, infine, si riportano (laddove si tratti di sentenze pubblicate) le fonti della giurisprudenza di merito citata nel testo: Trib. Milano 23 gennaio 2014; Trib. Milano 8 maggio 2012, in IlFallimentarista.it, 2012.

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