Esecuzione del concordato e crediti incerti: risoluzione per eccessivo ritardo nella liquidazione

Luigi Amerigo Bottai
07 Luglio 2015

La teorica presenza di un'obbligazione risarcitoria, fonte di crediti prededucibili, in capo alla società ammessa alla procedura concordataria non osta all'esecuzione del concordato già omologato, non essendovi obblighi per gli organi della procedura di accantonare risorse nella previsione di un eventuale riconoscimento del credito disconosciuto. L'accantonamento di una somma, disposto dal giudice che ha omologato un concordato liquidatorio, per garantire un credito eventuale derivante dall'obbligazione risarcitoria che grava sulla società debitrice, può essere revocato, con conseguente possibilità di dare esecuzione alla proposta liquidando l'attivo, se il credito disconosciuto appare tutt'altro che liquido, certo ed esigibile, ed anzi condizionato all'emissione di una sentenza di accertamento definitiva.
Massima

La teorica presenza di un'obbligazione risarcitoria, fonte di crediti prededucibili, in capo alla società ammessa alla procedura concordataria non osta all'esecuzione del concordato già omologato, non essendovi obblighi per gli organi della procedura di accantonare risorse nella previsione di un eventuale riconoscimento del credito disconosciuto.

L'accantonamento di una somma, disposto dal giudice che ha omologato un concordato liquidatorio, per garantire un credito eventuale derivante dall'obbligazione risarcitoria che grava sulla società debitrice, può essere revocato, con conseguente possibilità di dare esecuzione alla proposta liquidando l'attivo, se il credito disconosciuto appare tutt'altro che liquido, certo ed esigibile, ed anzi condizionato all'emissione di una sentenza di accertamento definitiva.

Il liquidatore giudiziale è legittimato a soddisfare le ragioni dei creditori, portando a compimento la liquidazione dell'attivo e ripartendo quanto realizzato secondo le previsioni di una proposta già approvata ed omologata, secondo il principio generale della gestione dell'insolvenza in tempi ragionevoli; è fisiologico che a concordato eseguito intervengano fatti genetici, non previsti, generanti un nuovo obbligo di pagamento, rispetto ai quali opera il principio della c.d. stabilità dei riparti.

Il caso

La vicenda, in sé complessa sebbene riducibile a una questione giuridica delimitata, può essere così riassunta: la fase di esecuzione di un concordato preventivo con cessio bonorum, omologato nel 1996, perdura tutt'oggi, dopo quasi vent'anni e malgrado l'avvenuta realizzazione dell'attivo mediante liquidazione dell'intero patrimonio del debitore (ad eccezione di un immobile), perché un provvedimento assunto dal tribunale di Bergamo nel 2001 ebbe a disporre l'accantonamento “a tempo indeterminato” di tutte le somme acquisite ed acquisibili, in funzione del rischio di dover considerare tra i crediti prededucibili anche quelli – non prevedibili - da risarcimento dei danni conseguenti ad un evento (tragico) occorso, in pendenza di procedura, presso un cantiere ove si stavano eseguendo dei lavori pubblici di costruzione di una galleria stradale: il cd. “disastro di Secondigliano”, verificatosi il 23 gennaio 1996 (un mese prima della pubblicazione della sentenza di omologazione del concordato, che non si pronunciò sulla vicenda), con il decesso di diverse persone e danni a beni mobili, immobili, esercizi commerciali e impianti. Di talché, rilevava il decreto del 5.5.2001 che dispose l'accantonamento delle somme, l'eventuale obbligazione risarcitoria ipotizzabile a carico della società in concordato avrebbe potuto avere natura prededucibile, corrispondendo a crediti, incerti nell'an e nel quantum, ma sorti comunque in un momento successivo all'apertura del concorso dei creditori concordatari.

Tale decreto aveva così integrato la sentenza di omologazione, in applicazione della disciplina all'epoca vigente, che a proposito dei creditori condizionali, irreperibili e contestati demandava al tribunale di provvedere in merito al termine del procedimento di omologazione del concordato (art. 185, ult. comma, in relazione agli artt. 136, comma 3, e 181, ult. comma, l. fall.).
Il liquidatore dei beni ceduti, tuttavia, non ha mai considerato alcuno dei predetti “crediti” (in realtà mere pretese, come subito si vedrà) nel passivo della procedura in difetto di idonei titoli accertativi.
Quel che rileva è come, a distanza di vent'anni, non solo alcuna pronuncia giudiziale abbia affermato la responsabilità civile (o corresponsabilità) della società in concordato, ma ben due sentenze – del Tribunale di Napoli nel 2005 e della Corte di Appello di Napoli nel 2010 – abbiano accertato la mancata presenza in cantiere, al momento del sinistro, di detta società, in quanto è risultato incontestatamente (sia in sede civile che penale) che la medesima società, a seguito della richiesta di concordato preventivo, era stata esclusa dall'ATI creata per l'esecuzione dei lavori – peraltro affidata ad una società consortile - e che le altre partecipanti al raggruppamento avevano garantito la manleva per ogni eventuale responsabilità connessa alle opere, svolte appunto dalla consortile. Finanche il PM e il GIP del processo penale archiviarono la posizione del legale rappresentante della società in questione per l'insussistenza del fatto.
Restano peraltro pendenti quattro processi civili nei quali due dei convenuti (il progettista e il direttore dei lavori) hanno chiamato in causa in garanzia la società in concordato, che si è costituita contestando ogni addebito sulla scorta delle risultanze emerse nei vari procedimenti conclusi. Sono state altresì reiterate agli organi della procedura concordataria dal Commissario straordinario di Governo plurime richieste di rimborso delle somme ingenti erogate dallo Stato in favore del Comune di Napoli per gli interventi di riparazione dei beni danneggiati e di ripristino dei luoghi.
Alla luce di quanto (qui sommariamente) esposto, ai fini che interessano in sede di commento, il commissario giudiziale e il liquidatore dei beni ceduti hanno presentato a fine 2014 relazioni dettagliate dirette ad ottenere dal tribunale una pronuncia in merito alla necessità o meno di mantenere fermo l'accantonamento. Il commissario giudiziale ha addirittura prospettato la risoluzione del concordato, con contestuale dichiarazione di fallimento, nell'ipotesi in cui si fosse ritenuta necessaria la conferma dell'accantonamento. Di qui l'intervento radicale del Giudice orobico, il quale, dopo 14 anni di inefficienze varie, è riuscito a ricondurre la procedura nel binario corretto, facendo chiarezza di istituti ed effetti giuridici ad esclusivo beneficio dei creditori del concordato, per troppo tempo dimenticati.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Tralasciando, per ragioni di spazio espositivo, le questioni relative all'applicazione della normativa sugli appalti pubblici (perdita dei requisiti soggettivi di un'impresa per intervenuta procedura concordataria, riflessi sul contratto di raggruppamento, distinte competenze di ATI e consortile, necessità di un'autorizzazione ex art. 167 l. fall. in caso di modifica dei rapporti interni all'ATI, tutti profili non dirimenti nella specie) e quelle in ordine alla responsabilità civile per il sinistro – superate dalle sentenze sopra ricordate, che hanno escluso il coinvolgimento della società in concordato, come ribadito dal decreto attuale del Tribunale di Bergamo –, due sono i punti di rilievo affrontati nel provvedimento, che sembra opportuno esaminare per la loro non comune ricorrenza:
a) la legittimità della permanenza dell'accantonamento dopo un considerevole lasso di tempo dall'omologa;
b) la possibilità di pervenire alla risoluzione del concordato qualora l'accantonamento fosse stato mantenuto.
Il primo punto da analizzare riguarda la revocabilità di un accantonamento disposto 14 anni prima, senza che il quadro fattuale sia mutato in positivo (ossia con il verificarsi dell'evento dedotto in condizione), bensì solo in negativo (due sentenze civili e un provvedimento penale hanno escluso la responsabilità nel sinistro della società in concordato). E detta circostanza qualifica la pretesa risarcitoria non più come credito condizionale, sibbene come del tutto eventuale. Con riflessi immediati sul trattamento giuridico e, per l'effetto, sull'accantonamento in precedenza disposto.
Il giudicante, dopo aver enunciato che nel concordato preventivo la verifica di ciascun credito (concorsuale o prededucibile) è rimessa al commissario nella fase di apertura della procedura e al liquidatore giudiziale a seguito dell'omologazione – in base al principio c.d. della fluidità dell'accertamento del passivo, atteso che fino al momento del riparto può essere rivisto -, ricorda opportunamente che “quando il soggetto il cui credito sia disconosciuto dagli organi della procedura intenda ottenere il riconoscimento della propria pretesa creditoria, è tenuto ad instaurare una causa civile avanti al giudice ordinario. Solo l'eventuale sentenza definitiva a lui favorevole potrà avere l'effetto di includere il credito nel passivo concordatario, con conseguente obbligo degli organi della procedura di tenerne conto nella distribuzione delle risorse che compongono l'attivo”.
Nella fattispecie si era creata una situazione di stallo, perché le pretese risarcitorie originate dal sinistro (in ipotesi prededucibili, essendo il fatto generatore accaduto prima dell'omologa) avrebbero assorbito, per la loro entità, l'intero attivo disponibile, rendendo inutile la prosecuzione della liquidazione stante l'impossibilità di soddisfare sia pure parzialmente i crediti chirografari. Tali pretese, però, erano rimaste del tutto incerte nell'an prima ancora che nel quantum, a distanza di oltre un quindicennio; sicché la valutazione richiesta al tribunale dal commissario e dal liquidatore giudiziali atteneva alla perdurante necessità di mantenere accantonato l'intero attivo residuo, ancorata, nel decreto del 2001, al “venir meno dei motivi di rischio e di contestazione”.
Da ciò la decisione collegiale, definita “di natura sì incidentale, ma determinante quanto ai suoi effetti sulla concreta possibilità di adempiere in tempi brevi alla proposta concordataria”, di rivalutare in qualunque momento i presupposti dell'accantonamento de quo, dato il decorso di un notevole lasso temporale dal fatto (1996) e dal precedente decreto del 2001 senza che, nelle more, fosse intervenuto alcun provvedimento giurisdizionale affermativo della responsabilità della società in concordato. Di qui anche la revoca, quale atto dovuto, del suddetto decreto che stabiliva l'accantonamento di tutte le somme realizzate.
Le ragioni poste a fondamento del decisum sono lineari: poiché il tribunale in sede di omologa ha il potere di quantificare gli accantonamenti (v. art. 181 previg.), “ma anche di non prescriverli, ove reputi che il credito o i crediti contestati non siano esistenti” (potendo altrimenti qualunque pretesa paralizzare l'esecuzione di un concordato), ne consegue che l'accantonamento va eseguito “solo se vi sono fondate ragioni di ritenere che il credito non riconosciuto dagli organi della procedura possa cristallizzarsi in una successiva pronuncia (definitiva) di un giudice ordinario”. Occorre, quindi, stimare che tipo di attività istruttoria sia necessario espletare nella causa ordinaria da parte del creditore disconosciuto; qualora invece un'istruttoria non fosse necessaria, per difetto dei presupposti del preteso credito, il tribunale sarebbe nelle condizioni di escludere o revocare eventuali accantonamenti. Trasponendo il ragionamento al caso di specie, il collegio ha ritenuto di poter operare una revisione del precedente decreto di accantonamento sulla base di una dettagliata ricostruzione delle vicende accadute dopo l'incidente del 1996 e dei processi susseguitisi, senza attendere ulteriori esiti di giudizi pendenti o instaurandi. E ha statuito che fossero venuti meno “ove mai siano esistiti, quei motivi di rischio e di contestazione cui il provvedimento 5.5.2001 fa riferimento”.
Nell'insussistenza di qualsivoglia obbligazione risarcitoria a carico della società in dipendenza dell'evento tragico descritto, il decreto in commento ha infine considerato come “nessuna norma vincoli gli organi della procedura concordataria a sospendere l'adempimento della proposta approvata e omologata in attesa di un eventuale giudizio o di un'eventuale sentenza di riconoscimento di un credito”, riaffermando l'obbligo del liquidatore giudiziale di dare esecuzione al piano.
Ordinata così la revoca dell'accantonamento, non aveva più ragion d'essere la richiesta di risoluzione del concordato avanzata dal PM e dal commissario giudiziale, in quanto “l'impossibilità di soddisfare i chirografari non è attuale, ma meramente eventuale e condizionata ad un evento futuro ed incerto che nessuna norma autorizza ad attendere”.
La conclusione dell'articolato provvedimento in esame vede l'enunciazione di un principio importante, sovente negletto nella prassi: la gestione dell'insolvenza in un arco temporale breve è attività immanente al concordato che, una volta omologato, va eseguito senza sosta, nell'esclusivo interesse dei creditori. Con la conseguenza che qualunque interesse (individuale) all'accertamento di una propria pretesa è sacrificato all'esigenza di speditezza e del pronto adempimento della proposta approvata dalla massa dei creditori.
Un'ultima annotazione, di rilievo processuale, è dedicata alla questione della legittimazione passiva del liquidatore giudiziale in ordine alle richieste di manleva avanzate contro la società dai soggetti (progettista e D.L.) convenuti in causa dai danneggiati. Il collegio ha sottolineato la necessità che il contraddittorio fosse instaurato anche nei confronti della massa dei creditori, rappresentata dal liquidatore giudiziale, trattandosi di domande, contestate, destinate ad incidere sul patrimonio da ripartire tra gli aventi diritto (cfr. Cass. 14.5.2005, n. 10134 e Cass. 26.7.2001, n. 10250). Al riguardo, tuttavia, è opportuno precisare che per giurisprudenza prevalente la procedura di concordato preventivo mediante cessione dei beni ai creditori comporta “il trasferimento agli organi della procedura non della proprietà dei beni e della titolarità dei crediti, ma solo dei poteri di gestione finalizzati alla liquidazione, con la conseguenza che il debitore cedente conserva il diritto di esercitare le azioni o di resistervi nei confronti dei terzi, a tutela del proprio patrimonio, soprattutto dopo che sia intervenuta la sentenza di omologazione; per effetto della detta sentenza, invero, è da ritenere che sia venuto meno il potere di gestione del commissario, mentre quello del liquidatore è da intendere conferito nell'ambito del suo mandato (art.182 l. fall.), e perciò limitato ai rapporti obbligatori sorti nel corso ed in funzione delle operazioni di liquidazione (C. 2004/9643, C. 2000/10738, C. 1999/9663, C. 1997/7147)” (così Cass. 13.4.2005, n. 7661, richiamata da Cass. 3.4.2013, n. 8102). In particolare, allorché la lite abbia ad oggetto non la misura di un credito, ma l'esistenza di una causa di prelazione o la extraconcorsualità della pretesa, il liquidatore giudiziale sarà legittimato passivamente in via concorrente con il debitore ovvero in via esclusivaqualora l'entità del credito non sia in contestazione” (M. FABIANI, Concordato preventivo, Commentario del Codice civile e codici collegati Scialoja-Branca-Galgano, Bologna, 2014, 754).
Non risultando, nella specie, che il liquidatore giudiziale sia stato chiamato in causa nei quattro procedimenti civili ancora pendenti, l'eventuale sentenza di condanna non sarebbe pertanto opponibile alla massa dei creditori, ma soltanto alla società. Ergo, sussiste un ulteriore motivo per procedere rapidamente all'ultimazione della liquidazione concorsuale e alla predisposizione del riparto finale dell'attivo realizzato.

Osservazioni

A) SUGLI ACCANTONAMENTI NEL C.P.

Dinanzi a un provvedimento la cui motivazione appare solida e ben strutturata, siccome basata su argomentazioni logiche e rigorose, non suscettibili di diversa interpretazione giuridica (anche in ordine alla disciplina applicabile ratione temporis: v. Cass. 23.11.2012, n. 20757 e C. App. L'Aquila 31.5.2012, n. 778, in dejure.it), le esigue osservazioni da sottoporre agli operatori riguardano due aspetti pratici del concordato non sovente evidenziati in giurisprudenza e in dottrina: i) se e quando procedere ad accantonamenti di somme in favore di creditori potenziali (o eventuali) e ii) la responsabilità dell'organo deputato alla liquidazione dei beni in ipotesi di eccessiva durata dell'esecuzione del concordato.
Circa gli accantonamenti si rileva, in sintesi, come l'art. 180, comma 6 (ma v. i previgenti artt. 180 u.c. e 181, comma 3) l.f. preveda oggi che sia il tribunale in sede di omologa – o in seguito se la contestazione sorga successivamente (v. Trib. Roma 17.6.1998, Fall., 1999, 917) - a disporre il deposito e le relative modalità, anche per lo svincolo, delle somme spettanti ai creditori contestati, condizionali o irreperibili, così abrogando implicitamente – per incompatibilità sopravvenuta - l'art. 185, 2° comma, che richiamando l'art. 136, comma 2, lasciava al g.d. il potere di stabilire in concreto i modi degli accantonamenti (cfr. F. FILOCAMO, in La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico a cura di M. Ferro, Padova, 2014, sub art. 185, 2669; nonché M. VITIELLO, Codice commentato del fallimento a cura di G. Lo Cascio, Milano, 2013, sub art. 185, 2272). E il relativo decreto, per quanto concerne le statuizioni di carattere organizzativo, “avendo natura di atto esecutivo di un'attività di sorveglianza e di controllo”, è privo dei connotati della decisorietà e della definitività e, dunque, non può essere oggetto di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. (cfr. Cass. 18.6.2008, n. 16598; Cass. 24.8.2004, n. 16729), rimanendo modificabile o revocabile successivamente ex art. 742 c.p.c.
Nel rammentare che per la giurisprudenza l'accantonamento non è obbligatorio per tutti i crediti contestati, come enunciato anche dal provvedimento del Tribunale di Bergamo in commento, dipendendo dalla fondatezza della pretesa secondo il giudizio sommario espresso in sede di omologa (cfr. C. App. Milano 4.10.1985: “L'accantonamento che il tribunale può disporre, in sede di giudizio di omologazione del concordato preventivo, per i crediti contestati è rimessa alla sua valutazione discrezionale alla quale non può mancare un giudizio favorevole circa la sussistenza della pretesa creditoria fatta valere”, in Fall., 1986, 874), si deve peraltro sottolineare l'inammissibilità della richiesta di misure cautelari dirette ad ottenere la pronuncia di un ordine di accantonamento delle somme contestate o, in alternativa, il sequestro di queste, ai sensi degli art. 671 ss. c.p.c., prevedendo l'art. 181, comma 3, l. fall. (oggi art. 180, comma 6, ndr), un rimedio cautelare specifico e valendo il divieto di cui all'art. 168 l. fall. anche nell'esecuzione del concordato (v. Trib. Catania 26.5.2003, dejure.it; Trib. Roma 19.7.1999, dejure.it). In assenza di accantonamento il creditore pretermesso potrà solo agire nei confronti dei creditori soddisfatti per recuperare la percentuale spettantegli ovvero contro il debitore, se del caso con l'azione di risoluzione (cfr. ancora F. FILOCAMO, op. cit., sub art. 176, 2368, e dottrina ivi citata).

B) SULLA RISOLUZIONE DEL CONCORDATO PER ECCESSIVA DURATA DELL'ESECUZIONE E LE RESPONSABILITA' DEL LIQUIDATORE DEI BENI CEDUTI

Un cenno conclusivo merita il problema relativo alla responsabilità e ai rimedi esperibili nel caso in cui l'esecuzione della proposta concordataria si protragga oltre ogni limite di tempo previsto e tollerabile, senza che ciò dipenda da negligenza del debitore. Nella specie si è visto che, a causa dell'accantonamento di tutte le somme realizzate e realizzande nella fase di liquidazione, disposto dal tribunale nel 2001 per l'eventualità che venissero riconosciuti i crediti prededucibili per i risarcimenti/indennizzi derivanti dal sinistro, dopo oltre 14 anni nessun creditore concorsuale è stato ancora soddisfatto, neppure in parte. Ma a chiedere la risoluzione del concordato sono stati il commissario giudiziale – ossia proprio colui che avrebbe dovuto vigilare sulla rapida esecuzione a tutela delle ragioni creditorie, chiedendo la revoca del decreto sull'accantonamento ben prima di quanto avvenuto - e il pm, notoriamente scevro da responsabilità. Per i creditori, ovviamente, il conseguente fallimento avrebbe comportato solo ulteriore falcidia delle loro speranze.
Orbene, per quanto attiene ai concordati liquidatori - per quelli in continuità la soluzione è semplice, in danno del debitore che ha promesso un certo risultato e continua a gestire l'impresa -, giova precisare che, se è vero che la mera cessione dei beni non determina la liberazione del debitore, a meno che il concordato non contenga un'espressa clausola in tal senso (pro soluto o con assuntore), è anche vero però che il trasferimento al liquidatore (di nomina giudiziale) della legittimazione a disporre dei beni si traduce in un mandato irrevocabile conferito a costui nell'interesse dei terzi creditori (v., e pluribus, Cass. 20.6.2011, n. 13446). Come statuito da Cass. 5.4.2000, n. 4177, la soluzione in ordine alle conseguenze dell'inadempimento non può non dipendere dall'individuazione degli obblighi giuridici che, per effetto del concordato, gravano sul debitore, che i beni ha ceduto, e sul liquidatore, che deve eseguire le opportune operazioni per la loro liquidazione: la Corte di legittimità è da sempre orientata nel senso della risolubilità del concordato allorché non vengano soddisfatte le ragioni creditorie privilegiate e, in una percentuale almeno minima, quelle dei creditori chirografari (Cass. n. 13626/1991; n. 709/1993; n. 13357/2007; n. 7942/2010); “è certo che una tale conseguenza può verificarsi solo se risulti accertato che il debitore abbia la disponibilità materiale e giuridica dei beni offerti e l'inadempimento sia quindi frutto del suo comportamento ovvero se di detti beni abbia assicurato una consistenza superiore a quella reale”. Questi “a seguito della cessione dei beni ha assolto ai propri obblighi e non assume alcuna responsabilità sul risultato della liquidazione” (salvo espresso patto contrario). Tale constatazione conduce all'ulteriore deduzione per cui “l'esito negativo possa dipendere unicamente dall'operato del liquidatore giudiziale, la cui figura è per molti versi assimilabile a quella del curatore fallimentare (v. art. 182, comma 2, l.f. che rinvia agli artt. 36, 37, 38 e 39 della stessa legge in tema di revoca, responsabilità e compenso, ndr) e che quindi ha l'obbligo istituzionale di assolvere con diligenza all'incarico di realizzare il valore dei beni ceduti ai fini del riparto e di rendere il conto della propria attività di liquidazione” (così Cass. n. 4177/00, cit.). E autorevole dottrina ha specificato come “l'eccessiva durata con cui può essere realizzata la liquidazione dei beni potrebbe portare ad accertare se sussistano profili di responsabilità del liquidatore per l'applicazione di opportune sanzioni, non esclusi la revoca ed il risarcimento dei danni e ciò costituisce una conferma che il ritardo colpevole dell'esecuzione del procedimento di concordato preventivo per cessione dei beni non è riferibile al debitore e non può legittimarne la risoluzione” (G. LO CASCIO, Risoluzione del concordato e conseguenze per il debitore, Fall., 2001, 301). Certo, occorrerà considerare l'eventuale verificarsi di fatti e situazioni che prescindono dai comportamenti di chi gestisce la procedura. Ma la linea generale è quella, tipica, che congiunge il potere alla responsabilità.
Si obietta che è semplicemente nell'impossibilità di attuare le condizioni minime previste dalla legge fallimentare, anche per cause sopravvenute e indipendenti dalla colpa del debitore, che deve ravvisarsi la ragione (oggettiva) della risoluzione, in quanto la liberazione del debitore, a norma dell'art. 1984 cod. civ., si produce soltanto quando i creditori conseguono sul ricavato della liquidazione le somme loro spettanti (come opina Cass. n. 13446/11, cit.); si rende, per tal via, superflua l'indagine circa l'imputabilità dell'inadempimento – secondo i principi di diritto comune (art. 1218 c.c.) - in presenza di una disciplina specifica dettata in tema di risoluzione del concordato. Ma ciò non esclude affatto la responsabilità del liquidatore, da far valere, in ipotesi, nel giudizio di rendiconto o anche separatamente (in analogia alla responsabilità del curatore fallimentare).
Di recente la Suprema Corte è tornata ad escludere che nel concordato liquidatorio, in cui l'entità del soddisfacimento deriva dal risultato della liquidazione sul quale non può esservi alcuna preventiva certezza, “i creditori che hanno approvato la proposta possano richiedere la risoluzione nell'ipotesi in cui la somma ricavata dalla vendita dei beni si discosti, anche notevolmente, da quella necessaria a garantire il pagamento dei loro crediti nella percentuale indicata, non potendosi configurare inadempimento rispetto ad un'obbligazione che il debitore non ha assunto. In tal caso, piuttosto, come è stato sottolineato da attenta dottrina, l'inadempimento che giustifica la risoluzione potrà essere invocato qualora il patrimonio conferito sia risultato privo delle qualità promesse, ai sensi dell'art. 1497 c.c.” (Cass. 14.3.2014, n. 6022).
Nè – secondo la S. Corte - argomenti in contrario possono trarsi dall'art. 1984 c.c., posto che l'effetto esdebitatorio nei confronti di tutti i creditori (art. 184 l.f.) deriva normalmente dall'omologazione del concordato nei termini in cui è stato accettato dalla maggioranza di costoro, salve diverse pattuizioni contenute nella proposta (la parte dei debiti non soddisfatta diviene inesigibile).
Si aggiunge poi che la gravità dell'inadempimento (la non scarsa importanza) dev' essere valutata con riferimento all'economia complessiva del piano concordatario e all'intera durata del piano, non alla luce del solo credito fatto valere dal creditore richiedente la risoluzione (v. G. FAUCEGLIA, Diritto civile e concordato preventivo: una convivenza difficile, Fall., 2015, 353 ss., con ampi riferimenti dottrinari e giurisprudenziali).
Anche il termine di adempimento indicato nella proposta potrebbe non compromettere in modo definitivo l'interesse dei creditori, ma la formulazione del nuovo art. 161, comma 2, lett. e), l. fall. pare militare nel senso della rilevanza oggettiva del decorso del tempo, peraltro autonomamente stabilito dal debitore. Raramente, tuttavia, si assiste ad istanze di risoluzione dei concordati fondate sul mero superamento del termine indicato nel piano, dal momento che nella generalità dei casi i creditori non trarrebbero maggiori benefici dalla conseguente dichiarazione di fallimento (a meno che non siano esperibili azioni revocatorie o di responsabilità che compensino i maggiori esborsi per le spese di un'altra procedura).
Del resto, Cass. 8.5.2012, n. 7021, in tema di c.d. legge Pinto ha sottolineato come l'attività del liquidatore nominato con il decreto ex art. 182 l.f. “non è quella propria di un organo della procedura pubblica bensì di un mandatario dei creditori per il compimento di tutti gli atti necessari alla liquidazione dei beni ceduti (cfr. Cass. n. 7601/2005; n. 523/1999; n. 2380/1965); e pertanto la durata di tale liquidazione non può essere attribuita alla responsabilità dello Stato quale organizzatore del servizio pubblico della giustizia”; arguendosi a contrario un'allusione al difetto di diligenza del ridetto liquidatore dei beni, non infrequente nelle procedure concordatarie.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Per chiarezza espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti, i principali contributi dottrinari e le disposizioni normative interessate direttamente nell'esposizione delle questioni e nelle osservazioni finali.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario