Ancora sulle azioni revocatorie aventi ad oggetto rimesse bancarie in conto corrente

24 Aprile 2012

Gli accreditamenti su conto corrente bancario eseguiti nel periodo sospetto sono soggetti alla revocatoria fallimentare solo se eseguiti quando il conto è scoperto - e nei limiti dello scoperto - ovvero dopo la chiusura del conto o la revoca del fido. Non sono, al contrario, soggette alle azioni revocatorie le rimesse in conto corrente eseguite su conto coperto, ancorché passivo. Tale differenza richiede che si determini l'esatto andamento del conto in ogni momento, onde accertare con precisione se lo stesso fosse o meno scoperto. (massima)
Massima

Gli accreditamenti su conto corrente bancario eseguiti nel periodo sospetto sono soggetti alla revocatoria fallimentare solo se eseguiti quando il conto è scoperto - e nei limiti dello scoperto - ovvero dopo la chiusura del conto o la revoca del fido. Non sono, al contrario, soggette alle azioni revocatorie le rimesse in conto corrente eseguite su conto coperto, ancorché passivo. Tale differenza richiede che si determini l'esatto andamento del conto in ogni momento, onde accertare con precisione se lo stesso fosse o meno scoperto.

Il caso

La vicenda processuale e le questioni affrontate dal Tribunale di Napoli sono molteplici e complesse. In questa sede ci si limita a trattarne esclusivamente i due principali aspetti.
La curatela della C.D. S.r.l. conveniva in giudizio un Istituto di credito sull'assunto che la società fallita, nell'anno anteriore al fallimento, avesse eseguito rimesse su un conto corrente non affidato e su un conto anticipi. Il fallimento assumeva, a fondamento delle proprie pretese, che tali rimesse, delle quali chiedeva la revocatoria (in quanto finalizzate alla riduzione di scoperti) avessero avuto funzione solutoria, e fossero state ricevute dall'Istituto di credito nella consapevolezza dello stato di insolvenza in cui si trovava la cliente. Tale consapevolezza, assumeva ancora la parte attrice, emergeva pianamente dalla segnalazione dei diversi “sconfinamenti”, che lo stesso Istituto aveva fatto alla Banca d'Italia nell'anno anteriore al fallimento della società. Sull'assunto delle richiamate circostanze, il fallimento attore chiedeva la revoca dei detti versamenti effettuati dalla società fallita nei confronti dell'Istituto di credito, ai sensi e per gli effetti dell'art. 67, comma 2, l. fall.
Il convenuto eccepiva che: 1) tutti gli accreditamenti impugnati non avevano carattere solutorio, ma semplicemente funzione ripristinatoria dell'affidamento concesso; 2) i versamenti diretti a creare la provvista per operazioni a debito (cc.dd. partite bilanciate) non erano revocabili; 3) sul piano probatorio, il curatore non aveva dimostrato, neppure in via indiziaria, che la banca fosse a conoscenza dello stato di insolvenza in cui la società versava. Chiedeva, dunque, il rigetto della domanda nei termini in cui essa era stata proposta.

Le questioni giuridiche

Il tribunale adito rileva anzitutto la necessità di applicare il richiamato art. 67, comma 2, l. fall. nella sua formulazione ante riforma (trattandosi, nel caso di specie, di un'azione revocatoria proposta nel contesto di una procedura fallimentare aperta anteriormente alla data di entrata in vigore del d. l. n. 35/2005, convertito in l. n. 80/2005, che - come a tutti noto - ha apportato modifiche alla norma in discorso).
La prima questione atteneva dunque alla possibilità di configurare, quali “atti di pagamento” riconducibili alla previsione del richiamato art. 67, comma 2, le rimesse in conto corrente bancario eseguite dal debitore poi fallito a fronte di un conto scoperto (e nei limiti dello scoperto), e cioè privo di affidamento, ovvero con saldo passivo (debitore) eccedente il limite dell'affidamento concesso con una vera e propria apertura di credito, ovvero quando in mancanza di affidamento, ovvero ancora dopo recesso della banca dal rapporto con il correntista.
Secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato (in questo senso Cass. n. 14470/2005; Cass. n. 5634/2000), non sono suscettibili di revoca - poiché difettano del requisito della liquidità ed esigibilità del credito (arg. ex art. 1845 c.c.) -, gli accrediti eseguiti dal fallito su un conto coperto, seppure passivo, sempreché il saldo debitorio sia rimasto nei limiti dell'affido concesso dalla banca con il contratto di apertura di credito (ex art. 1842 c.c.). Non più attuale, neanche prima della riforma del 2005, la questione se fosse corretta o meno la configurazione di un fido di fatto, attraverso il comportamento concludente della banca e del cliente: l'art. 117 d. lgs. 1 settembre 1993, n. 385, prescrive infatti la forma scritta ad substantiam per i contratti bancari, categoria nella quale rientra l'apertura in discorso.
Sono dunque da considerare non revocabili i versamenti diretti ad integrare e/o a ripristinare la provvista del cliente per operazioni future. Nel caso di conto affidato, e quindi nell'ipotesi in cui sia intervenuto un contratto di apertura di credito, non sarebbe pertanto corretto riconoscere tout court carattere solutorio alle rimesse che vi affluiscano, ma solo quando esse siano effettuate dopo che il saldo passivo sia divenuto superiore al limite dell'affidamento concesso. Di converso, nel caso in cui il conto non sia affidato, cioè non sia assistito da una formale apertura di credito, le rimesse che vi affluiscono hanno sempre carattere solutorio e, in quanto tali, esse sono soggette a revocatoria.
La seconda questione meritevole di attenzione riguarda la determinazione dell'onere probatorio che grava sulla curatela attrice in revocatoria, quanto alla cd. scientia decoctionis della Banca al momento di accredito delle rimesse.

Osservazioni

Quanto alla natura solutoria o ripristinatoria delle rimesse confluite sul conto corrente bancario, precisa il Tribunale di Napoli che essa va determinata alla luce della situazione del conto alla data di ogni singola rimessa. Si deve dunque a tal fine valutare ed accertare se ed in che termini il conto presenti, o meno, uno scoperto rispetto alla (e in proporzione della) misura dell'eventuale affidamento concesso con l'apertura di credito, con il conseguente problema posto dalla distribuzione dell'onere della prova.
A quest'ultimo proposito, secondo un orientamento giurisprudenziale (v., fra le tante, Cass. n. 14087/2003, in Fall., 2003, 523, anche richiamata in sentenza), in ossequio all'ordinario sistema di cui all'art. 2697 c.c., incomberà alla Curatela dimostrare la sussistenza della rimessa da parte della fallita, della relativa esecuzione nel cd. periodo sospetto e, da ultimo, della scientia decoctionis della banca. Spetterà a quest'ultima, di contro, dimostrare la natura non solutoria della rimessa, provando la sussistenza, alla data della singola rimessa, di un contratto di apertura di credito. Si deve precisare, a questo punto, ciò che peraltro la sentenza in analisi non ha mancato di fare, che l'affidamento bancario rilevante ai nostri fini è unicamente quello concesso dalla banca a mezzo di una vera e propria apertura di credito.
Peraltro, come sostenuto dalla dottrina autorevole e maggioritaria (v. G. TERRANOVA, Il danno nelle azioni revocatorie), il pregiudizio patrimoniale provocato da un atto compiuto secondo le ipotesi di cui all'art. 67 l. fall. è presunto in via assoluta (juris et de jure), con assoluto ripudio della prova contraria.
Con riferimento alla seconda questione, riguardante l'assolvimento dell'onere della prova da parte del Curatore, per un verso si è ritenuto che la conoscenza dello stato di insolvenza debba essere effettiva e non già meramente potenziale, nel senso che assume rilievo la effettiva situazione psicologica del convenuto e non la mera conoscibilità oggettiva che lo stesso avrebbe potuto avere delle condizioni economiche della controparte [per la dottrina v., per tutti, A. NIGRO, Sub art. 67, in AA.VV., La legge fallimentare dopo la riforma, Nigro-Sandulli-Santoro (a cura di ), Torino, 2010, 923; per la giurisprudenza, ex plurimis, Cass. 28 febbraio 2007, n. 4762); per altro verso è stato rilevato che non sono stati fissati dalla legge limiti alle modalità di assolvimento di detto onere da parte del curatore. Quest'ultimo, dunque, ben potrebbe assolvere il proprio onere probatorio anche in via di prova indiretta, con il ricorso agli elementi indiziari, sempreché essi abbiano le caratteristiche richieste, come noto, dagli artt. 2727 e 2729 c.c. per le presunzioni semplici, cioè la gravità, la precisione e la concordanza (ancora A. NIGRO, Sub art. 67 cit.). In particolare, la sussistenza della conoscenza dello stato di insolvenza potrebbe essere inferita da fatti (o circostanze di fatto) secondari (factum probans) che inducano, per il medio della massima d'esperienza, il factum probandum. Si vuol dire che è sufficiente che alla scientia decoctionis un soggetto di normale prudenza ed avvedutezza pervenga con facilità. Il Tribunale partenopeo non ha invece ritenuto di seguire un altro orientamento giurisprudenziale (per tutte, Cass. 24 aprile 2007, n. 9903), che reputa possibile trarre la prova della scientia in capo al terzo dalle sue specifiche qualità e capacità professionali. Invero, l'impiego della massima di esperienza, che porta alla gravità, precisione e concordanza dell'inferenza presuntiva, prescinde da ulteriori qualità soggettive del terzo. L'inferenza presuntiva che comunque risponda ai richiamati requisiti è sufficiente a provare o l'effettiva conoscenza o anche la conoscibilità dello stato di insolvenza - non in senso meramente oggettivo - in capo alla banca, in quanto tenuta ad agire con la normale diligenza (così, fra le tante, Cass. n. 683/1999). In tal caso la conoscibilità viene in rilievo quale elemento significativo e sintomatico della conoscenza reale (Cass. n. 571/2001).
Per parare il rischio di trasformare la scientia decoctionis in mera conoscibilità astratta e potenziale, e glissare le criticità indotte dalla prova ‘negativa' della conoscenza [G. TERRANOVA, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in AA.VV., Commentario Scialoja-Branca. Legge fallimentare, Galgano (a cura di), Bologna, 2002, 103 ss.], è necessario fornire la prova contraria dei fatti (o circostanze di fatto) secondari allegati dall'attore o che venga fornita la prova diretta di altri fatti secondari che elidano o comunque precludano quell'inferenza (il riferimento è a Cass. 15 febbraio 2008, n. 3781).
Altro e diverso discorso potrebbe essere svolto in relazione all'autonomia o meno del danno. Sta di fatto che persiste, anche in seguito alla recente riforma della disciplina delle revocatorie, la contrapposizione fra la tesi cd. indennitaria - la quale richiede l'esistenza di un danno patrimoniale - e la tesi antiindennitaria - per la quale non sarebbe necessaria tale sussistenza - (per un'ampia e approfondita disamina della questione si v. per tutti G. TERRANOVA, La nuova disciplina delle revocatorie fallimentari, in Dir. fall., 2006, 243 ss.).

Conclusioni

Conclusivamente. La soluzione cui è pervenuto il Tribunale di Napoli sembra corretta e, nelle articolazioni sopra esaminate, da condividere.
Invero, alla luce dei (e in coerenza con i) principi enunciati nella sentenza, il Tribunale ha ritenuto - all'esito di un'attività peritale volta ad individuarne l'eventuale affidamento in ogni momento dell'anno antecedente al fallimento - che i conti, di cui la società fallita era titolare, dovessero essere considerati privi di affidamento e che, di conseguenza, le rimesse effettuate dalla fallita nel periodo sospetto avessero carattere solutorio.
Esso ha ritenuto altresì soddisfacentemente fornita dall'attore la prova della scientia decoctionis in capo alla convenuta.
Per questa via, si è senz'altro posto nel solco della giurisprudenza consolidata in materia di revocatorie di rimesse su conto correnti bancari.

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