Sovraindebitamento: potere di controllo del giudice e qualità di consumatore

05 Marzo 2015

Nell'ambito di una procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento, riguardante un consumatore, al giudice spetta in primo luogo la verifica circa l'esistenza del presupposto soggettivo, integrato dalla qualità di consumatore, e del presupposto oggettivo del sovraindebitamento, nelle due diverse forme in cui può essere integrato; in secondo luogo la verifica inerente alla elaborazione di un piano, a contenuto libero e atipico, di soddisfacimento del ceto creditorio. Va ulteriormente accertata la presenza delle condizioni di ammissibilità formali, cioè di tutti i documenti che devono accompagnare la proposta di piano.
Massima

Nell'ambito di una procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento, riguardante un consumatore, al giudice spetta in primo luogo la verifica circa l'esistenza del presupposto soggettivo, integrato dalla qualità di consumatore, e del presupposto oggettivo del sovraindebitamento, nelle due diverse forme in cui può essere integrato; in secondo luogo la verifica inerente alla elaborazione di un piano, a contenuto libero e atipico, di soddisfacimento del ceto creditorio. Va ulteriormente accertata la presenza delle condizioni di ammissibilità formali, cioè di tutti i documenti che devono accompagnare la proposta di piano.

Gli ulteriori profili sui quali interviene il controllo giurisdizionale sono meritevolezza, fattibilità e convenienza. A differenza del controllo di legittimità, immanente alle prerogative del giudice e da quest'ultimo realizzato in piena autonomia, il controllo sulla meritevolezza del debitore e sulla fattibilità e convenienza del piano sottostante alla proposta viene realizzato con l'ausilio dell'Organismo di Composizione della Crisi.

Per quanto attiene ai profili della fattibilità e convenienza del piano del consumatore, va evidenziato che la fattibilità va indagata d'ufficio dal giudice al momento della pronuncia di omologazione, in una prospettiva che tiene conto della mancata previsione del voto dei creditori.

Anche l'imprenditore o il libero professionista possono avere qualifica di "consumatore", ma a condizione che le obbligazioni scadute e non adempiute, e che abbiano determinato il "sovraindebitamento", non siano riferibili in alcun modo all'attività d'impresa o professionale svolta. Nel caso quindi in cui l'assunzione delle obbligazioni del cui inadempimento si tratta risulti legata all'attività imprenditoriale o professionale del debitore proponente, il ricorso alla procedura del piano del consumatore non è ammissibile per difetto del necessario rapporto di funzionalità del contratto rimasto inadempiuto al privato consumo del soggetto proponente o della sua famiglia.

Il caso

Il presupposto oggettivo per il riconoscimento della qualità di consumatore. Il nucleo centrale del provvedimento è rappresentato dalla questione – cui si dà risposta negativa - involgente i presupposti prescritti dalla legge ai fini della possibilità di riconoscere la qualità di consumatore: questo costituisce il vero thema decidendi alla base della pronuncia di inammissibilità della domanda resa dal Tribunale di Bergamo.
Il riferimento normativo è rappresentato dall'art. 6, comma 2, lett. b), l. 3/2012, secondo cui può essere consumatore, a termini della disciplina sul sovraindebitamento, soltanto la persona fisica che “abbia assunto obbligazioni esclusivamente per scopi estranei all'attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”.
La ratio della previsione è, in sé evidente: in tanto vi è la possibilità di accesso al piano del consumatore (che, lo si ricorda, è particolarmente “gravoso” per i creditori, costituendo una sorta di “concordato coattivo”, nell'ambito del quale cioè la loro volontà è irrilevante), solo in quanto lo squilibrio patrimoniale-finanziario che non consente il regolare ed integrale adempimento delle obbligazioni assunte si collochi al di fuori dell'alea normale dell'attività di un'impresa o di una professione.
Sembra chiara la finalità legislativa di “coprire” con la complessiva disciplina della ristrutturazione dei debiti tutte le possibili configurazioni soggettive dell'attività della persona fisica: se assoggettabile a fallimento, essa utilizzerà gli strumenti della legge fallimentare (piano di risanamento, accordi di ristrutturazione, concordato preventivo o fallimentare), se non assoggettabile a fallimento, invece, dovrà fare ricorso o all'accordo di composizione della crisi ovvero (se i debiti attengano ad attività estranea all'impresa o alla professione) al piano del consumatore.
Sennonché, forse, la scelta sarebbe stata più chiara e lineare, soprattutto nelle sue attuazioni concrete, se si fosse prevista la possibilità del ricorso al piano solo da parte di coloro che in nessuna forma svolgano attività comunque riconducibili a quella di impresa ovvero a quella professionale: e ciò perché, chiaramente, con riguardo alla singola persona fisica, diventa difficile distinguere i piani dell'operare in senso economico.
La riprova di tanto parrebbe data proprio dal provvedimento in commento, con il quale si perviene (ad avviso di chi scrive) ineccepibilmente a negare l'ammissibilità della richiesta di accesso al piano del consumatore, su una lettura della norma che, però, potrebbe apparire (formalisticamente) non corretta.
Il caso è semplice: due soci (uno dei quali anche amministratore) di una società a responsabilità limitata, a struttura familiare, hanno prestato (come è usuale) garanzie per i debiti contratti dalla società. Quest'ultima entra in stato di insolvenza e viene dichiarata fallita; i soci chiedono di accedere al piano del consumatore, prospettando il proprio difetto della qualità di imprenditori e, dunque, l'estraneità dell'indebitamento contratto ad una propria (inesistente) attività di impresa.
Il tribunale nega l'accesso al piano, in termini di ammissibilità, escludendo che ai richiedenti possa essere riconosciuta la qualità di “consumatori”, in senso tecnico: in tal modo, attribuendo efficacia dirimente al fatto che la contrazione delle obbligazioni di garanzia fosse avvenuta, sul piano oggettivo, in relazione allo svolgimento dell'attività di impresa da parte della società partecipata dai richiedenti.

Le questioni giuridiche e la soluzione

A rigore, e su un piano di valutazione, come si diceva prima, puramente formalistico, la decisione potrebbe apparire non pienamente conforme al dettato normativo: ciò perché, in realtà, i richiedenti, in quanto appunto rispettivamente soci e amministratore di una società di capitali, non svolgevano attività di impresa “in proprio” e, dunque, le obbligazioni di garanzia contratte, non avrebbero potuto collocarsi nell'ambito di un'attività imprenditoriale propria.
Sennonché, in un'ottica più corretta (non limitata cioè alla qualità soggettiva del debitore, ma) estesa alla ragione giustificatrice dell'indebitamento, nessuno potrebbe negare che si tratti di debiti contratti nell'ambito di svolgimento di un'attività di impresa, del tutto al di fuori di quella che logicamente possa definirsi attività di consumatore.
Per pervenire a tale decisione il Tribunale richiama i precedenti di legittimità che qualificano come imprenditoriale l'attività di supporto finanziario all'impresa, anche per il tramite della prestazione di garanzie, ed in stretta attinenza con la natura tipicamente sussidiaria delle obbligazioni di garanzia: ed ancor più specificamente, il precedente che aveva escluso la qualità di consumatore (ai sensi dell'art. 1469-bis c.c., poi assorbito nel codice del consumatore) alla persona fisica garante di una società di capitali che aveva contratto un leasing, essenzialmente sulla base di una valutazione oggettiva dell'atto di contrazione del debito.

Osservazioni

Sul punto, pare molto puntuale proprio Cass. 29 novembre 2011, n. 25212, espressamente richiamata nel provvedimento in commento, che, in motivazione, richiamando a propria volta una pronuncia anteriore della Corte Europea (datata 17 marzo 1998) aveva sottolineato l'esigenza che la tutela per il consumatore fosse sì estesa anche alle persone fisiche imprenditrici o professioniste, ma limitatamente agli “atti di consumo” dalle stesse posti in essere: ed ha appunto escluso che la garanzia prestata per una società di capitali possa essere interpretato come “atto di consumo”.
Se così è, e così pare giusto che sia, però, si deve riconoscere che la nozione legislativa di “consumatore”, assunta nella L. 3/2012, non è testualmente corretta, in quanto eccessivamente estensiva: poiché, nella realtà, non è sufficiente che, come sembra disporre la norma, soggettivamente, la persona fisica abbia assunto il debito al di fuori della propria attività di imprenditore o di professionista, ma è necessario anche che, oggettivamente, l'atto di contrazione del debito sia estraneo ad una siffatta attività, anche se svolta da terzi.
È questa l'interpretazione probabilmente più conforme alla filosofia di tutela del consumatore: essa comporta obiettivamente una significativa restrizione dell'ambito di operatività della disciplina e, forse, fa venire meno quello che, in un sistema imprenditoriale a base fortemente familiare come è il nostro, avrebbe potuto essere uno dei maggiori motivi di appeal per il piano del consumatore.

Il controllo giudiziario nella crisi da sovraindebitamento in generale e nel piano del consumatore in particolare

Tuttavia il provvedimento bergamasco sollecita ulteriori, molteplici spunti di riflessione. Ciò, peraltro, esso fa consapevolmente, considerato che, con la sola eccezione della questione attinente alla qualifica di consumatore (che costituisce la ratio decidendi della statuizione di inammissibilità dell'istanza), la pronuncia si struttura come un sostanziale, assai diffuso, obiter dictum, in punto di estensione del controllo giudiziario sulla crisi da sovraindebitamento in generale e sul piano del consumatore in particolare.
È, quella utilizzata nel provvedimento in commento, una tecnica molto in uso nella giurisprudenza italiana, di merito e di legittimità: basti pensare, per citare il caso più celebre, al fatto che il riconoscimento, in astratto, del diritto al risarcimento della lesione aquiliana del credito avvenne, negli anni '70, da parte delle Sezioni Unite, nell'ambito di una pronuncia (quella sul famoso “caso Meroni”), che rigettava la domanda risarcitoria.
Si tratta di una tecnica indiscutibilmente anomala in un sistema di civil law, in cui il precedente, soprattutto di merito, non dovrebbe avere efficacia vincolante, e, dunque, dovrebbe avere la massima attinenza possibile con il caso concreto: nel contempo, però, non pare dubbio che l'ormai incontrollabile frammentazione normativa (e quella degli orientamenti giurisprudenziali che ne deriva) rendono sempre più forte l'esigenza, per gli operatori, di indicazioni di massima circa le linee guida su cui impostare procedimenti particolarmente complessi, soprattutto se di nuova introduzione.
Da qui l'indiscutibile interesse della pronuncia e l'opportunità della scelta di costruirla con ampia motivazione.
Il tema dell'estensione del controllo giudiziario (molto profondamente indagato con riguardo al concordato preventivo) risulta affrontato dal legislatore della crisi da sovraindebitamento in forma assai frammentaria e decisamente diversa con riguardo all'accordo di composizione della crisi, da un lato, ed al piano del consumatore, dall'altro lato.
Per ciò che attiene al primo, gli artt. 10-12 della L. n. 3/2012 sanciscono che il giudice:

  • verifichi il rispetto dei requisiti prescritti dagli artt. 7, 8 e 9 (art. 10, comma 1), tra i quali certamente rientra – benché implicitamente – la sussistenza effettiva del sovraindebitamento che giustifichi la esdebitazione;
  • accerti la insussistenza di iniziative o di atti in frode da parte del richiedente (art. 10, comma 3);
  • constati il raggiungimento (a) delle percentuali prescritte per l'approvazione da parte dei creditori, (b) l'idoneità del piano ad assicurare il pagamento integrale dei titolari di crediti impignorabili e di quelli non falcidiabili, nonché, ove ritualmente contestata, (c) la convenienza (art. 12, comma 2).

Per ciò che riguarda il secondo, invece, l'art. 12-bis dispone che il giudice verifichi:

  • simultaneamente, il rispetto dei requisiti prescritti dagli artt. 7, 8 e 9 (art. 10, comma 1) e l'assenza di atti in frode ai creditori (comma 1);
  • la fattibilità del piano e l'assenza di colpa nella creazione del sovraindebitamento (comma 3);
  • la convenienza, se contestata (comma 4).

Con una interessante operazione di classificazione (frutto di una evidente evocazione di categorie più proprie del concordato preventivo, e per ciò solo, di grande applicazione da parte degli operatori), il provvedimento che si commenta fissa lo stato attuale della disciplina, come fondato sui seguenti poteri di controllo giudiziario.
In tale operazione, da un lato sta il controllo di legittimità, che investe i presupposti di ammissibilità, la regolarità del procedimento ed il rispetto delle norme imperative. Tale attività concreta il controllo della fattibilità giuridica dell'accordo (o del piano) ed investe sostanzialmente i requisiti oggettivi, quelli soggettivi e quelli procedimentali.
Dall'altro lato, stanno invece i controlli di fattibilità e di convenienza e (per il solo piano del consumatore) di meritevolezza.
In tale ambito risulta quasi impossibile non fare applicazione delle categorie ormai in uso quotidiano nella disciplina del concordato preventivo.
Resta dubbio, peraltro, se, nell'ambito del sovraindebitamento, il giudice debba e possa anche verificare le condizioni di falcidiabilità dei creditori privilegiati: operazione sulla quale esercita una funzione sua propria l'Organismo di Composizione della Crisi (ed infatti, nel senso di una limitazione del potere di controllo giudiziario, si esprime BOSTICCO, La struttura del procedimento, in Arcuri-Bosticco, Il piano di risanamento attestato ed il nuovo sovraindebitamento, Milano, 2014, 163-164).
Certo, a voler fare applicazione dei principi concordatari, il ruolo del giudice dovrebbe limitarsi alla verifica di quella fattibilità giuridica (dell'accordo e del piano), intesa quale presupposto di concreta attuabilità idonea a sconfinare dalle condizioni squisitamente economiche della struttura della proposta.
Il punto qualificante del provvedimento in esame è indiscutibilmente offerto dalla “riscoperta” (quanto meno nel senso della esplicita estrinsecazione) del requisito della meritevolezza, con riguardo al piano del consumatore: riscoperta giustificata dalla natura coattiva, nel senso procedimentale del termine, del meccanismo di approvazione del piano (per il resto a struttura sostanzialmente concordataria).
Il provvedimento, però, non indaga, neppure di sfuggita, l'ampiezza dell'area di controllo della meritevolezza del consumatore, che dovrebbe limitarsi (se non fosse che la formula legislativa è talmente vaga da renderlo potenzialmente immenso) alla responsabilità nella creazione dello sbilanciamento patrimoniale e finanziario che integra il sovraindebitamento.
Pare doversi escludere dunque nettamente dall'area della meritevolezza il tema della sussistenza di atti in frode: questione, peraltro, che si può porre in termini chiari più sul piano astratto che su quello concreto, considerato che la frode (e l'intento che l'accompagna e che necessariamente l'ispira) ha, per l'appunto, una connotazione forte di soggettività che difficilmente consente di iscriverla in un ambito di pura oggettività. Resta peraltro il fatto che, che per quanto pare a chi scrive, l'insussistenza di una struttura fraudolenta della proposta assurge a vero e proprio requisito di ammissibilità, tanto del piano quanto dell'accordo.
Sicché, il giudice, a tutela dell'interesse dei creditori (il cui consenso non è richiesto per l'approvazione del piano), deve accertare che il consumatore:

  • abbia assunto le obbligazioni “sperequate” nella ragionevole prospettiva di adempierle regolarmente;
  • non abbia cagionato colposamente il sovraindebitamento, anche con il ricorso al credito in una forma sproporzionata rispetto alle proprie capacità patrimoniali.

Il riferimento ad un concetto ampio di colpevolezza parrebbe dovere essere inteso nel senso della “ragionevole prevedibilità”, al momento della contrazione delle obbligazioni, della propria incapacità patrimoniale (più che finanziaria) di far fronte al regolare adempimento di esse. Con la conseguenza che, per l'appunto, dovrebbero entrare in gioco eventi imprevedibili (quale ad esempio una crisi finanziaria) che possano giustificare la configurabilità del presupposto di “non colpevolezza” che, a sua volta, integra quel che il Tribunale di Bergamo pare individuare come “meritevolezza”.
Sarebbe agevole accusare il legislatore di eccessiva vaghezza nella individuazione dei presupposti giustificativi del requisito in questione: in realtà, pare a chi scrive che la disposizione presenta il vantaggio di offrire al giudice una gamma ampia, appunto nella genericità della previsione, di fattispecie che possano giustificare la “non colpevolezza”. Sicché una applicazione equilibrata di essa consente di valorizzarne l'adattabilità alle fattispecie concrete più singolari.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Per comodità espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti, i contributi dottrinari e le disposizioni normative interessate, direttamente nel commento.

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