Procedura prefallimentare e concordataria: pregiudizialità e coordinamento

14 Gennaio 2015

La legge fallimentare non prevede alcun vincolo di pregiudizialità tra le procedure di concordato preventivo e di fallimento, pertanto non è suscettibile di revoca per motivi di natura procedurale la sentenza dichiarativa di fallimento pronunciata dopo che il concordato si è chiuso a seguito di rinuncia del debitore istante, anche senza espressa definizione da parte del tribunale ex art. 173 l. fall.
Massima

La legge fallimentare non prevede alcun vincolo di pregiudizialità tra le procedure di concordato preventivo e di fallimento, pertanto non è suscettibile di revoca per motivi di natura procedurale la sentenza dichiarativa di fallimento pronunciata dopo che il concordato si è chiuso a seguito di rinuncia del debitore istante, anche senza espressa definizione da parte del tribunale ex art. 173 l. fall.

Il caso

Pendente il procedimento prefallimentare, il difensore della società debitrice rinuncia alla proposta di concordato preventivo, e il Tribunale di Torino dichiara immediatamente il fallimento della proponente, affermando, fra l'altro, che la presentazione della domanda di concordato non è ostativa alla dichiarazione di fallimento.
L'unico debitore della società fallita, coinvolto nella proposta concordataria tramite versamenti di danaro ed assunzioni di garanzie (e, quindi, interessato ai sensi del primo comma dell'art. 15 l. fall.), propone reclamo avverso la sentenza di fallimento, sostenendo, fra l'altro, che il Tribunale avrebbe dovuto, prima di dichiarare il fallimento, pronunciarsi sulla revoca dell'ammissione del concordato, ai sensi dell'art. 173 l. fall.
La Corte di Appello di Torino rigetta il reclamo, affermando non solo che la rinuncia alla domanda, di fatto, costituisce una revoca della stessa, ma, soprattutto, che non sussiste alcun vincolo di pregiudizialità in senso tecnico fra il procedimento prefallimentare ed il procedimento di concordato preventivo, ragione per cui il Tribunale può dichiarare il fallimento dell'impresa anche prima di essersi formalmente pronunciato in senso negativo (mediante un provvedimento di inammissibilità, di rigetto, di revoca, …) sulla domanda di concordato preventivo, laddove, sulla base di elementi concreti, ritenga che detta domanda non possa trovare accoglimento.
La Corte precisa, altresì, che tale ricostruzione non risulta smentita dal disposto dell'art. 173 l. fall., norma che descrive solo un iter ordinario del procedimento di revoca: il Tribunale revocata l'ammissione alla procedura concordataria, su istanza di un creditore o del pubblico ministero, se ne accerta i presupposti, può dichiarare il fallimento della proponente.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Il contrasto fra la decisione commentata e l'ordinanza della I Sezione della Cassazione n. 9476 del 30 aprile 2014.
I due provvedimenti brevemente richiamati si inscrivono, a pieno titolo, in quel filone giurisprudenziale, di carattere maggioritario, suggellato dalle Sezioni Unite nella nota sentenza n. 1521 del 2013, in base al quale, a seguito del venir meno della norma precedentemente contenuta nell'art. 160 l. fall. per cui l'imprenditore poteva proporre il concordato preventivo “fino a cheil suo fallimento non fosse stato dichiarato”, non può dirsi sussistente alcun vincolo di pregiudizialità in senso tecnico fra il procedimento di concordato e quello prefallimentare: le due procedure sono legate fra loro da un rapporto di consequenzialità meramente logica e di assorbimento, nel senso che la sentenza di fallimento normalmente segue (o è contestuale) al provvedimento con cui si chiude negativamente la procedura di concordato ed i vizi relativi al provvedimento di rigetto del concordato divengono motivi di impugnazione della sentenza di fallimento.
Tale rapporto di consequenzialità determina un'esigenza di coordinamento fra le due procedure, che, però, non si traduce necessariamente in una consequenzialità procedimentale né provvedimentale, poiché nessuna norma impedisce che il fallimento venga dichiarato prima dell'emissione del provvedimento che conclude negativamente la procedura di concordato.
Il superamento del criterio di prevenzione è stato messo in dubbio dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione, che ha nuovamente rimesso alle Sezioni Unite, con l'ordinanza n. 9476 del 30 aprile 2014, la questione relativa ai rapporti e al coordinamento fra procedimento per dichiarazione di fallimento e procedimento per l'ammissione al concordato preventivo, sostenendo sia che “prima di dichiarare il fallimento, debba necessariamente essere esaminata l'eventuale domanda di concordato presentata dal debitore, per far luogo, poi, alla dichiarazione del fallimento solo in caso di mancata apertura della procedura minore”; sia che “la pendenza della procedura di concordato preventivo, conseguente alla sua apertura ai sensi dell'art. 163 l. fall., precluda la possibilità di dichiarare il fallimento e che, più in generale, il principio della prevalenza della procedura di concordato non possa dirsi superato per l'effetto dell'eliminazione, nel testo dell'art. 160 l. fall., dell'inciso di cui si è detto”.
La Prima Sezione civile sostiene tale affermazione sulla base della funzione propria del concordato preventivo, che (per definizione) è quella di prevenire il fallimento attraverso una soluzione alternativa basata sull'accordo del debitore con la maggioranza dei creditori, nonché richiamando alcune norme della legge fallimentare che posticipano la dichiarazione di fallimento all'esito negativo della procedura di concordato, e segnatamente: il secondo comma dell'art. 162, l'ultimo comma dell'art. 180 e l'art. 173, che consentono la dichiarazione di fallimento a seguito, rispettivamente, della declaratoria di inammissibilità della proposta, del decreto di non omologazione del concordato e del decreto di revoca dell'ammissione al concordato.
Nella stessa ordinanza viene, ancora, sostenuto che nessun significato avrebbe la disposizione del decimo comma dell'art. 161 l. fall., laddove si ritenesse possibile la dichiarazione di fallimento anche prima della decisione sulla procedura di concordato e che il legislatore, ai fini della tutela dei creditori in caso di successivo fallimento, ha anticipato la decorrenza dei termini di cui agli artt. 64, 65, 67 e 69 l.fall. alla data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese, prevedendo, altresì, all'art. 169 l. fall., che sempre da tale data trova applicazione, a tutela della par condicio creditorum, l'art. 45 l. fall.

Osservazioni

La natura solo apparente di detto contrasto.
In realtà, l'indiscutibile (e indiscussa) sussistenza di un'esigenza di coordinamento fra le due procedure comporta necessariamente che, salvo alcune ipotesi, occorre attendere l'esito della procedura concordataria, per poi procedersi, in caso di esito negativo della stessa, a dichiarare il fallimento della società proponente: il giudice è tenuto a bilanciare le opposte iniziative, coordinando quella del debitore con gli interessi sottostanti la procedura fallimentare (Tribunale di Bologna, 15 luglio 2014, in ilFallimentarista.it), ferma restando l'esigenza che, a seguito di tale coordinamento, la domanda di concordato – pur in assenza di un rapporto di pregiudizialità tra le stesse - sia decisa tendenzialmente prima dell'istanza di fallimento (Tribunale di Napoli, 14 marzo 2013).
Le ipotesi in cui il giudice può anteporre la sentenza di fallimento alla decisione sulla domanda di concordato sono allora residuali e giustificate, in concreto, da circostanze ed elementi che portano a ritenere che la stessa non sia funzionale al suo scopo, comportando un'ingiustificata dilatazione dei tempi per la dichiarazione di fallimento.
Ed infatti, già prima della richiamata pronuncia delle Sezioni Unite, la Suprema Corte ha affermato non solo “che la facoltà per il debitore di proporre una procedura concorsuale alternativa al suo fallimento non rappresenta un fatto impeditivo alla relativa dichiarazione, ma una semplice esplicazione del diritto di difesa del debitore, non legittimato alla disposizione unilaterale e potestativa dei tempi del procedimento fallimentare, così determinando la paralisi delle iniziative recuperatorie del curatore ed incidendo negativamente sul principio costituzionale della ragionevole durata del processo”; ma soprattutto che “il giudice fallimentare (…) è tenuto a bilanciare le opposte iniziative, coordinando quella del debitore con gli interessi sottostanti la procedura fallimentare (…), è suo compito verificare in concreto, in relazione alle peculiarità del caso concreto, il rapporto di priorità tra le due procedure previo l'indefettibile apprezzamento circa l'intento sottostante la soluzione pattizia che deve essere esclusa laddove, esprimendo un proposito meramente dilatorio, manifesti un abuso di diritto del debitore” (Cass. 24 ottobre 2012, n. 18190).
In sintesi, la Cassazione riconosce, implicitamente, che quel che sussiste tra le due procedure non è un rapporto di pregiudizialità in senso tecnico, ma un rapporto di pregiudizialità funzionale; l'ordinamento riconosce al debitore la possibilità di addivenire ad una soluzione concordata della crisi e rimette al ceto creditorio nel suo complesso la valutazione (id est l'approvazione) di tale soluzione, con la conseguenza che la dichiarazione di fallimento, nella generalità dei casi, dovrà seguire l'esito negativo della procedura di concordato.
Ma, laddove, per le particolari circostanze del caso concreto, risulti in maniera evidente che la domanda di concordato non è funzionale ad una soluzione alternativa della crisi, ma rappresenta uno strumento volto ad evitare o procrastinare la decisione del tribunale sull'istanza di fallimento già proposta e a dilatare ulteriormente i tempi di soddisfacimento dei creditori, il tribunale deve, sussistendone le condizioni, immediatamente dichiarare il fallimento.
A tale ricostruzione sistematica non sono di ostacolo le norme richiamate nell'ordinanza n. 9476: gli artt. 162, 173 e 180 l. fall. fanno riferimento alla diversa ipotesi in cui non penda contemporaneamente la procedura prefallimentare; il decimo comma dell'art. 161 l. fall. manifesta la volontà legislativa di concedere al debitore la possibilità di addivenire ad una soluzione concordata dell'insolvenza, stabilendo, però, che in caso di pendenza della procedura prefallimentare lo stesso deve rapidamente predisporre la proposta ed il piano.
I casi in cui il tribunale “deve” provvedere sull'istanza di fallimento pure in pendenza di procedura concordataria.
Il panorama giurisprudenziale mostra con chiarezza che la sentenza di fallimento deve precedere l'emissione del provvedimento negativo di chiusura della procedura di concordato solo in ipotesi eccezionali, e segnatamente laddove appaia evidente che l'intento del debitore è soltanto quello di ritardare la dichiarazione di fallimento e non di addivenire ad una soluzione negoziale dell'insolvenza (peraltro tendenzialmente più conveniente per i creditori rispetto alla liquidazione fallimentare), ovvero laddove appaia scontato l'esito negativo della procedura concordataria.
Nel caso di cui alla sentenza in commento, ad esempio, a seguito dell'avvenuta rinuncia alla proposta era ovvio l'esito negativo della procedura di concordato, ragione per cui non avrebbe avuto alcun senso ritardare ulteriormente la dichiarazione di fallimento.
In diversi provvedimenti la giurisprudenza di merito ha dichiarato il fallimento prima della decisione sulla domanda concordataria, poiché ha ravvisato in concreto un'ipotesi di abusivo ricorso allo strumento concordatario.
È stata, ad esempio, considerata un mero mezzo volto ad evitare o procrastinare la decisione sull'istanza di fallimento ed a dilatare ulteriormente i tempi di soddisfacimento dei creditori, la presentazione di una nuova domanda di concordato incompleta e corredata da una relazione attestatrice illogica ed inidonea allo scopo, depositata dopo la rinuncia ad una precedente domanda ed in prossimità dell'udienza ex art. 173 l. fall.
Secondo il Tribunale, il reale scopo perseguito dal debitore era esclusivamente quello di sottrarsi ulteriormente ai propri obblighi verso i creditori, rinviandone ancora il soddisfacimento e perciò sviando lo strumento concordatario dalla propria funzione tipica (Trib Milano 12 giugno 2014, ilFallimentarista.it).
Analogamente si è ritenuto che integri un abuso la presentazione di una domanda di concordato preventivo dopo la revoca ex art. 173 l. fall. dell'ammissione ad una precedente procedura di concordato, ammissione a sua volta successiva alla proposizione dell'istanza di fallimento (Trib. Prato 9 giugno 2014).
Secondo la prospettazione dei giudici, la seconda domanda era chiaramente finalizzata ad aggirare il provvedimento di revoca già emesso, consentendo al debitore di “disporre unilateralmente e potestativamente dei tempi del procedimento fallimentare” con conseguente violazione del principio costituzionale di ragionevole durata del processo, principio volto a soddisfare esigenze pubblicistiche e non solo di natura individuale.
Significativo è che la giurisprudenza consideri ravvisabile l'abuso non solo nei casi in cui vi sia la prova di un intento dilatorio o elusivo della dichiarazione di fallimento, ma, in generale, in tutti i casi in cui, a seguito di un accertamento effettuato in concreto, le modalità ed i tempi di presentazione della domanda di concordato appaiano idonei a determinare un inutile e, quindi, ingiustificabile allungamento dei tempi della procedura prefallimentare.
Elemento sintomatico di detto abuso è stato ravvisato anche nella proposizione di una domanda di concordato in prossimità del termine di cui all'art. 10 l. fall., in particolare ove si tratti di società cancellata pur in presenza di rimanenze attive (Trib. Cuneo 22 novembre 2013).
In tutte le ipotesi considerate, ciò che viene in rilievo è la violazione da parte del debitore, nell'utilizzo degli strumenti di definizione concordata della crisi di impresa, dei doveri generali di correttezza e buona fede a cui, ai sensi dell'art. 1175 c.c., devono sempre uniformarsi debitore e creditore, anche nell'ambito della procedura prefallimentare (Trib. Roma 17 luglio 2014, in ilFallimentarista.it).
Le possibili modalità di coordinamento fra le due procedure.
Affermata l'esigenza di coordinamento tra le due procedure, occorre verificare come detto coordinamento debba, in concreto, essere realizzato.
Le Sezioni Unite, invero, si sono limitate ad enunciare una clausola elastica rinviando ai singoli tribunali il compito di riempirla con soluzioni idonee a garantire, di volta in volta, la riconosciuta consequenzialità logica tra la procedura di concordato e quella prefallimentare.
Ciò detto, il panorama delle soluzioni adottate nella giurisprudenza di merito al fine di realizzare detto coordinamento organizzativo appare variegato.
L'unico punto fermo è l'esclusione del ricorso alla sospensione ex art. 295 c.p.c.
Come affermato dalle Sezioni Unite, infatti, tra le due procedure non è ravvisabile alcuna pregiudizialità necessaria che legittimi detta sospensione, la quale, in quanto istituto eccezionale che incide in termini limitativi rispetto all'esercizio del diritto di azione, opera con portata circoscritta al caso in cui la situazione sostanziale dedotta nel procedimento pregiudicante rappresenti il fatto costitutivo di quella dedotta nella causa pregiudicata, ipotesi non ricorrente nella fattispecie in esame.
Non manca, tuttavia, chi ritiene possibile far ricorso alla c.d sospensione impropria, ritenendo non concepibile una concomitante attività istruttoria e decisoria su due fronti giudiziari strettamente connessi, ma aventi presupposti ed esiti totalmente divergenti (cfr. Cass. n. 14684/2013, secondo cui tale “soluzione non si pone in contrasto con il principio enunciato da Cass.(ord.) n. 3059/2011 che si è limitata ad affermare che il procedimento per la dichiarazione di fallimento non può essere sospeso, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., in pendenza di una domanda del debitore (non ancora delibata) di ammissione al concordato preventivo in quanto fra le due procedure non vi è rapporto di pregiudizialità”).
Detta soluzione non appare però condivisibile, giacché nessuna ipotesi di sospensione impropria o atecnica è prevista dal vigente codice di rito, il quale – difettando i presupposti di cui all'art. 295 c.p.c. - consente al giudice di sospendere il processo solo su istanza di tutte le parti ed in presenza di giustificati motivi ai sensi dell'art. 296 c.p.c. (Cass. SS.UU., n. 1521/2013; Cass. n. 18190/2012; Corte di Appello di Genova, 20 febbraio 2014).
Né appare condivisibile la tesi di chi propende per la dichiarazione di inammissibilità e/o improcedibilità dell'istanza di fallimento ex art. 168 l. fall. (Cass. n. 14684/2013 che, con riferimento ad un'ipotesi di ammissione dell'impresa debitrice al concordato preventivo con riserva, ha affermato che “in caso di ammissione del debitore alla procedura minore e di contestuale presentazione di un'istanza di fallimento, l'unica soluzione alternativa alla c.d sospensione impropria sia quella di dichiarare detta domanda improcedibile, ai sensi dell'art. 168 l. fall.”).
Si ritiene non superabile, al riguardo, il tenore letterale della norma da ultimo citata, la quale si riferisce solo alle procedure esecutive individuali, oltre che alle azioni cautelari (Cass. 15440/2011; Corte di Appello di Torino 9 luglio 2013; Tribunale di Terni 25 febbraio 2013 in ilFallimentarista.it).
Neppure la riunione dei procedimenti di cui all'art. 274 c.p.c. – pur presentando degli indubbi vantaggi in termini di contestuale valutazione delle due domande - appare una soluzione giuridicamente percorribile al fine di garantire l'auspicato coordinamento tra le procedure in questione, non essendo ravvisabile alcuna ipotesi di connessione ai sensi degli artt. 31 e ss. c.p.c.tra la procedura di concordato e quella per la dichiarazione di fallimento (in senso analogo, Trib. Terni, cit..Contra, Trib. Napoli, 26 febbraio 2013 secondo cui “il prescritto coordinamento organizzativo tra i due procedimenti può realizzarsi o a mezzo della riserva della decisione sulla domanda di fallimento e del suo scioglimento immediatamente dopo il decreto di ammissione (o di non ammissione) della domanda di concordato preventivo ex art. 163 l. fall. (e ciò, evidentemente, nel senso o di dichiarare, nel caso di ammissione alla procedura di concordato, la sostanzialmente temporanea improcedibilità della domanda di fallimento, ovvero in ipotesi di non ammissione, di fissare una nuova udienza prefallimentare, per le eventuali ulteriori difese delle parti) ovvero, più propriamente, a mezzo della formale riunione dei due procedimenti (connessi) ex art. 274 c.p.c. con la trasmissione di quello prefallimentare agli atti di quello conseguente alla domanda di concordato preventivo, in modo che, ove sia ritenuta (e dichiarata) l'inammissibilità della proposta (se del caso perché ritenuta espressione di un abuso…), il tribunale adito a norma dell'art. 161 l. fall. possa, come disposto dall'art. 162, comma 2, l. fall., procedere all'accertamento dei presupposti previsti dagli artt. 1 e 5 l. fall., ed, in caso positivo, dichiarare il fallimento del debitore”).
L'unica via utilmente perseguibile appare, invece, quella del rinvio dell'istruttoria prefallimentare calibrato sulla durata della procedura di concordato in modo da verificarne costantemente il possibile esito (App. Genova, 20 febbraio 2014; App. Trento, 18 giugno 2013).
In tal modo – pur senza ricorrere alla sospensione del procedimento prefallimentare - si garantisce che la gestione delle due procedure avvenga in modo razionale e rispettoso della consequenzialità logica del fallimento rispetto al concordato.
Detto rinvio in relazione all'evoluzione della procedura di concordato preventivo, invero, consente, da un lato, di evitare che si giunga ad una sentenza dichiarativa del fallimento prima che venga valutata la domanda di concordato preventivo (in coerenza con il favor che l'ordinamento accorda alla soluzione concordata della crisi di impresa) e dall'altro, che il giudice fallimentare vigili costantemente sull'andamento delle due procedure al fine di evitare, come affermato dalle Sezioni Unite, che la facoltà per il debitore di proporre una procedura concorsuale alternativa al suo fallimento costituisca un mezzo per disporre unilateralmente e potestativamente dei tempi del procedimento fallimentare, venendo così a paralizzare le iniziative recuperatorie del curatore e ad incidere negativamente sul principio costituzionale della ragionevole durata del processo.
Con l'ulteriore precisazione che, in concreto, è preferibile non un unico rinvio, ma diversi rinvii intermedi calibrati rispetto ai distinti momenti in cui si svolge la procedura concordataria e soprattutto rispetto ai distinti momenti in cui il Tribunale svolge un controllo sullo svolgimento della stessa (deposito degli obblighi informativi periodici, ai sensi dell'art 161 l. fall.; scadenza del termine assegnato al debitore, ai sensi dell'art. 162 l. fall., per apportare modifiche o integrazioni al piano o produrre nuovi documenti; deposito della relazione del commissario giudiziale).
Affinché gli obiettivi esposti siano effettivamente realizzabili appare necessario che entrambi i procedimenti siano assegnati al medesimo giudice relatore, analogamente a quanto avviene nel caso della riunione.
In tal modo i procedimenti verranno trattati in maniera sostanzialmente unitaria pur rimanendo formalmente autonomi.
Il rinvio della prefallimentare in pendenza di una domanda di concordato, peraltro, appare una soluzione “obbligata” ove sia presentata una domanda con riserva ai sensi dell'art. 161, comma 6, l. fall.
Il tenore letterale della citata disposizione normativa, infatti, induce a ritenere che il giudice fallimentare sia vincolato ad assegnare i termini richiesti, limitandosi la sua discrezionalità all'indicazione di un termine contenuto entro i limiti temporali predeterminati dal legislatore e alla concessione di un'eventuale successiva proroga (cfr. Tribunale di Terni, 25 febbraio 2013, secondo cui detta obbligatorietà si desume da argomenti letterali - quali l'uso, nel comma 6 dell'art. 161 l. fall., del verbo “fissato” piuttosto che “concesso” - nonché sistematici, ricavabili dal fatto che l'attivazione del procedimento di cui all'art. 162, comma 2 e 3, l. fall. presuppone l'inutile decorso del termine fissato, in caso di mancato deposito della proposta completa di concordato, ovvero l'inosservanza degli obblighi informativi periodici imposti dal Tribunale ex art. 161, comma 8, l. fall.).
Ove penda una procedura prefallimentare è lo stesso comma 10 del citato art. 161 a stabilire che il termine assegnato dal giudice è pari a 60 giorni, salva, anche in questo caso, la possibilità di proroga in presenza di giustificati motivi, per non più, comunque, di ulteriori sessanta giorni.
In tal modo, peraltro, si consente al creditore ricorrente di valutare l'eventuale maggiore convenienza di detta proposta rispetto all'iniziativa fallimentare che potrebbe, pertanto, essere dallo stesso volontariamente abbandonata prima ancora che il giudice si pronunci per l'improcedibilità della stessa.
La concessione del termine – essendo vincolata - impedisce l'esame dell'istanza di fallimento, ripristinando così l'esistenza in concreto di una pregiudizialità del concordato preventivo sul fallimento, anche se limitata all'ipotesi di deposito nel termine concesso della proposta e del piano (v., in tal senso, F. Pedoja, Istanza di fallimento e procedimento di concordato preventivo in bianco” su ordineavvocati.ts.it ), e salvo ovviamente il caso in cui le circostanze concrete inducano a ritenere che la domanda in bianco sia meramente dilatoria.
Si ritiene, pertanto, opportuno anche in caso di concordato con riserva, disporre nell'ambito della procedura prefallimentare dei rinvii intermedi, dal momento che lo stesso legislatore affida al Tribunale, nella pendenza del termine concesso per la presentazione della proposta, poteri di vigilanza, anche per il tramite del commissario giudiziale (di contrario avviso, fra gli altri, Trib. Siena, 06 giugno 2014, secondo cui appare necessario e, comunque, ragionevole, al fine di realizzare un adeguato coordinamento tra le due procedure, che l'udienza prefallimentare sia rinviata a data successiva alla scadenza del termine fissato per il deposito della proposta di concordato e del relativo piano).
Va fatta salva, comunque, la possibilità che il giudice rifiuti la concessione del termine richiesto in presenza di situazioni di particolare gravità tali da far ritenere, con ragionevole certezza, che la domanda di concordato in bianco sia meramente strumentale ad una ingiustificabile dilazione dei termini della procedura prefallimentare con conseguente configurabilità di un abuso che, come tale, va adeguatamente sanzionato: in tale ipotesi appare giusto dare prevalenza all'esame dell'istanza di fallimento bloccando ab origine la pretestuosa iniziativa concordataria.
Occorre, infine, segnalare che è sempre possibile il rigetto dell'istanza di fallimento in pendenza di una procedura di concordato. La tendenziale prevalenza accordata alla domanda di concordato, invero, va intesa nel senso che è preferibile esaminare la domanda di concordato prima di dichiarare il fallimento dell'impresa al fine di evitare che si perda la possibilità di addivenire ad una valida soluzione concordata della crisi, finalità che certamente non è preclusa ove l'istanza di fallimento, esaminata con priorità, venga rigettata.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Per comodità espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti, i contributi dottrinari e le disposizioni normative interessate, direttamente nel commento.

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