La durata massima del piano concordatario

12 Dicembre 2014

Ai fini della risoluzione del concordato occorre considerare anche la componente temporale dell'adempimento, tenuto conto che, seppure i tempi indicati dalla proponente possono risultare meramente indicativi e non essenziali, tale aspetto compone la causa concreta del concordato; nell'ambito di quest'ultima rientra non solo il riconoscimento in favore dei creditori di una qualche sia pur ridotta (purché apprezzabile) forma di soddisfacimento del credito, ma anche che ciò avvenga in tempi di realizzazione ragionevolmente contenuti.
Massima

Ai fini della risoluzione del concordato occorre considerare anche la componente temporale dell'adempimento, tenuto conto che, seppure i tempi indicati dalla proponente possono risultare meramente indicativi e non essenziali, tale aspetto compone la causa concreta del concordato; nell'ambito di quest'ultima rientra non solo il riconoscimento in favore dei creditori di una qualche sia pur ridotta (purché apprezzabile) forma di soddisfacimento del credito, ma anche che ciò avvenga “in tempi di realizzazione ragionevolmente contenuti” (Cass. SS.UU. sentenza n. 1521 del 23/01/2013).

Anche nel concordato con cessione dei beni hanno rilievo i tempi di adempimento, che il debitore deve necessariamente indicare nel piano (come oggi peraltro esplicitato dall'art. 161, comma 2, lett. e), l. fall.), in quanto gli stessi non possono complessivamente superare la ragionevole durata prevista per le procedure liquidatorie.

Considerato che la funzione del concordato preventivo è quella di risolvere la crisi mediante il soddisfacimento dei creditori in misura non irrilevante o in tempi irragionevoli, l'impossibilità di raggiungere tale obiettivo costituisce, a monte, motivo ostativo all'ammissione del debitore alla procedura o, in ogni caso, all'omologa della proposta (cfr. Cass, SS.UU. n. 1521 cit.) mentre, a valle, l'accertamento di uno scostamento di non scarsa importanza tra previsione astratta e realizzazione concreta costituisce motivo per decretare la risoluzione del concordato omologato.

Può costituire inadempimento di non scarsa importanza il mancato rispetto dei tempi prospettati nel piano e di quelli accettabili per una proposta meramente liquidatoria (che il Tribunale ha stabilito in massimo tre anni dall'omologa con decreto 13 giugno 2013).

Il caso

Il Tribunale di Modena si è trovato a dover decidere della risoluzione o meno di un concordato preventivo con cessione dei beni, una volta decorso l'arco temporale di circa tre anni previsto per il soddisfacimento anche dei crediti chirografari e con parte cospicua dei beni e dei crediti non venduti o incassati, senza che vi fosse la prospettiva di addivenire a dette entrate nel breve termine e quindi alla percentuale di soddisfacimento minimale ipotizzata in sede di omologazione. Ad avviso della debitrice concordataria la risoluzione era da escludersi, in considerazione del carattere meramente indicativo e non vincolante dei tempi dell'adempimento esplicitati nel ricorso, della giustificazione del ritardo alla luce della generalizzata crisi economica e quindi, in ultima analisi, dell'impossibilità di ritenere inficiata la concreta realizzabilità della proposta. Il Tribunale, in virtù del percorso argomentativo racchiuso nella massima sopra riportata, ha decretato la risoluzione del concordato e dichiarato il fallimento, pendendo un'istanza a tale scopo.

Le questioni di diritto

Il tema affrontato dalla pronuncia in commento è quello dell'esistenza o meno di limiti massimi di durata del piano concordatario, con riverberi sulle valutazioni spettanti al Tribunale nelle varie fasi in cui si snoda la procedura, l'ammissione, l'omologa e infine l'eventuale risoluzione. Per di più, esso è stato esaminato non solo in via generale, a valere per qualsivoglia fattispecie di concordato preventivo (vista la libertà di forme contrattuali utilizzabili ai sensi del novellato art. 160 l. fall.), ma anche con riguardo specifico al caso al contempo più controverso e più comune nella pratica, quello del concordato liquidatorio per cessione dei beni, quando nella proposta non siano indicati impegni vincolanti sulla percentuale di soddisfacimento dei creditori chirografari e sui tempi di esecuzione.
Il Tribunale di Modena, declinando con riguardo al giudizio da compiere in sede di risoluzione del concordato quanto già affermato con un precedente decreto di diniego dell'ammissione alla stessa procedura (Trib. Modena, 13 giugno 2013), giunge a ritenere “del tutto superata la tesi, sostenuta anche da parte minoritaria della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4177 del 5/4/2000) secondo cui nel concordato con cessione il debitore assolve i propri obblighi mettendo tutti i beni a disposizione dei creditori e non assume alcuna responsabilità in ordine al risultato e alla tempistica della liquidazione, essendone esclusivo responsabile il liquidatore”. E ciò perché, quand'anche i tempi indicati dalla proponente risultino solo “indicativi e non essenziali”, come espressamente ricordato nelle motivazioni, l'aspetto temporale “compone la causa concreta del concordato”, secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite. Non sarebbe dunque impedita alla ricorrente la possibilità di impostare la proposta contrattuale sul modello della cessione dei beni ex art. 1977 c.c. e ss., senza assumere alcuna obbligazione sulla misura del soddisfacimento e sui tempi del medesimo, ma tale costruzione sarebbe comunque sottoposta al vaglio del tribunale sotto il profilo della causa concreta, e quindi della possibilità che la soluzione indicata sia idonea a determinare un soddisfacimento anche minimale dei creditori entro tempi ragionevolmente contenuti. Nel giudizio volto alla eventuale risoluzione, il superamento sia dell'arco temporale di attuazione indicato nella proposta - peraltro ora in forza di legge, alla luce della modifica intervenuta alla lett. e), comma 2, dell'art. 161 l. fall. (come ricordato nella pronuncia in commento) – sia della “accettabile tempistica di una proposta meramente liquidatoria”, qualora in quella fase permangano tempi significativamente incerti e quindi anche potenzialmente ampi circa la possibilità, a sua volta di conseguenza incerta, di addivenire a un soddisfacimento di qualche misura a beneficio dei creditori chirografari, dovrebbe dunque portare alla risoluzione della procedura, dovendo a quel punto l'inadempimento essere considerato rilevante.
Una siffatta impostazione, indubbiamente radicata sul noto arresto delle Sezioni Unite proprio in materia di concordato con cessione dei beni, vede tuttora forti resistenze in dottrina, soprattutto in chi ritiene che nessun inadempimento vi possa essere laddove nessun impegno sui tempi, così come sulla percentuale, sia stato assunto (cfr. P. Genoviva, Note minime in tema di risoluzione del concordato preventivo, in Fallimento, 2014, 813; M. Ferro (a cura di), La Legge Fallimentare – Commentario Teorico – Pratico, Cedam, 2014, 2685).
Ritenuto “del tutto superato” tale ultimo orientamento e ricondotta ogni valutazione sull'aspetto temporale del piano concordatario a quello della verifica giudiziale circa la causa concreta del medesimo, il Tribunale di Modena indica senza esitazioni i tempi massimi delle procedure concordatarie, desumendoli da una stringente applicazione della legge n. 89/2001 (“Legge Pinto”), come modificata dal D.L. n. 83/2012, in materia di “ragionevole durata del processo” a fini risarcitori, in applicazione anche di precetti costituzionali (art. 111) e sovranazionali (art. 6 C.E.D.U.).
Al concordato meramente liquidatorio non si applicherebbe poi il limite previsto per le procedure concorsuali, di sei anni, ma quello dimezzato proprio dell'esecuzione forzata. Il termine lungo di sei anni potrebbe invece essere riservato a concordati in continuità, di particolare complessità.
Il richiamo alla “Legge Pinto” non è invero insolito nella giurisprudenza di merito formatisi in tema di ammissibilità, omologazione o risoluzione di concordati di lunga durata, a seguito dell'indicazione fornita dalle Sezioni Unite circa la necessità che i tempi del concordato preventivo siano “ragionevolmente contenuti” (cfr. Trib. Monza, 11 giugno 2013, in IlFallimentarista.it, con nota di L. Jeantet – G. Covino, Il concordato con continuità aziendale: compatibilità con l'affitto d'azienda e durata poliennale del piano; Trib. Siracusa, 15 novembre 2013, in IlCaso.it, poi confermata – senza tuttavia richiamo alcuno alla “Legge Pinto” – da App. Catania, 10 marzo 2014, in IlFallimentarista.it; Trib. Prato, 17 febbraio 2014, in IlFallimentarista.it, con nota di S. Leuzzi, I “tempi” del piano nel concordato preventivo e il principio di ragionevole durata del processo); ciò che tuttavia contraddistingue il Tribunale di Modena è, per un verso, un'applicazione particolarmente rigida dei termini di quella normativa in relazione al concordato preventivo, specie se meramente liquidatorio, e, per l'altro, il ritenere che essa sia pressoché l'unico riferimento, quasi fosse “autosufficiente”. Diversa è la prospettiva utilizzata nei precedenti di merito appena richiamati, ove i termini di cui alla “Legge Pinto” assumono per lo più un carattere indicativo, con invece la tenuta del piano concordatario – sotto lo stretto profilo dei tempi di attuazione – nel ruolo di “driver” principale della valutazione spettante all'organo giudicante. In tale seconda ottica, vengono in rilievo le modalità di costruzione del piano e la coerenza logica e motivazionale della attestazione dell'esperto, che devono risultare uniformate – affinché il concordato sia innanzitutto ammissibile – ai principi di carattere aziendale e professionali propri della redazione dei business-plan e delle relazioni di attestazione. In ragione delle specifiche caratteristiche del piano proposto e delle garanzie esistenti circa l'attuazione dello stesso, dovrebbe quindi per tale seconda strada ammettersi maggiore flessibilità nella valutazione dei termini, senza che questo significhi automaticamente un ampliamento dei medesimi; ben potrebbero, infatti, le specificità di un determinato piano, indurre il Tribunale a ritenere che il piano proposto e la relativa attestazione tengano solo qualora il termine di attuazione sia inferiore a quelli desumibili dalla “Legge Pinto”.
In via riassuntiva, le questioni di diritto poste dalla pronuncia in commento attengono dunque (a) alla possibilità di dichiarare la risoluzione di un concordato preventivo con cessione dei beni, il quale, superato l'arco temporale indicato (in via non vincolante) nel piano e quello massimo ammissibile in virtù delle regole vigenti in materia, presenti tempi ancora significativamente incerti circa la liquidazione di parte dell'attivo e la possibilità di determinare un soddisfacimento anche minimale dei creditori chirografari, nonché (b) alla individuazione dei detti tempi massimi di attuazione – sempre che siano individuabili in misura fissa - e delle relative fonti.

Osservazioni

Circa la prima questione appena ricordata, si crede – seguendo su tale aspetto il Tribunale di Modena - che l'arresto di Cass. SS.UU. n. 1521/2013, proprio in materia di concordato con cessione dei beni, non possa essere ignorato. E ciò non solo per l'autorevolezza dell'organo giurisdizionale da cui promana e per il fatto che il medesimo si è espresso a Sezioni Unite, ma anche perché il punto di equilibrio raggiunto appare condivisibile. La Cassazione ha infatti riconosciuto, sul solco della giurisprudenza ante Riforma, le specificità del concordato con cessione dei beni e la conseguente proponibilità di un concordato che segua il tipo contrattuale di cui all'art. 1977 c.c. e seguenti, confermando come – qualunque sia la percentuale di soddisfacimento ipotizzata per i chirografari nella proposta e nella attestazione – questo debba essere omologato o successivamente non risolto anche qualora detta percentuale sia anche solo minimale. Confermando tale indirizzo, essa sembra aver disatteso l'opinione giurisprudenziale di merito, espressa anche assai autorevolmente (Trib. Milano, 21 giugno 2010, in Fall. 2010, 314), che riteneva di carattere necessario e vincolante l'indicazione di una percentuale di pagamento, escludendo che potesse avere una funzione meramente indicativa.
Tuttavia al tempo stesso questa conclusione è stata ridimensionata dalle stesse Sezioni Unite che hanno in effetti superato – come ricorda il Tribunale di Modena proprio nella pronuncia in commento – l'orientamento emergente anche da qualche anteriore decisione del Supremo Collegio, secondo cui nel concordato con cessione il debitore non assumerebbe alcuna responsabilità in ordine ai tempi della liquidazione. Esse hanno invece riconosciuto ciò su cui appare non esservi dubbio, e cioè che laddove si verta sul soddisfacimento di obbligazioni pregresse, questo si compone indissolubilmente di due aspetti essenziali: la misura del pagamento e i tempi del medesimo. Se questo punto è acquisito, così come impongono elementari principi di carattere economico-finanziario, prima che giuridico, nessun senso ha sostenere - così come si era talora fatto in precedenza - che un concordato con cessione dei beni possa essere risolto se tutti i beni sono venduti e non si raggiunga un soddisfacimento alcuno per i chirografari, e che invece alla risoluzione non si possa giungere qualora determinati beni siano semplicemente risultati invendibili in un arco temporale sufficientemente prolungato. L'elemento temporale, prima di comporre la causa concreta del concordato, costituisce infatti un elemento essenziale e caratterizzante del soddisfacimento delle obbligazioni.
Considerato dunque che prima e dopo la Riforma del diritto fallimentare non vi erano essenzialmente dubbi sulla possibilità di risolvere un concordato qualora – una volta liquidati i beni – non fosse stato possibile giungere a un qualche soddisfacimento dei chirografari, alla stessa conclusione occorre pervenire qualora l'assenza di ogni pagamento permanga allo spirare di un tempo ragionevole per la liquidazione, senza che vi siano le prospettive di giungervi nel breve termine. Tale approdo della Cassazione, qui condiviso, trova un solido appiglio anche nella precisazione aggiunta nel 2012 dal Legislatore all'art. 161, comma 2, lett. e), l. fall., laddove si prevede che il piano debba contenere una “descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta”.
Si è consci di come l'impostazione fatta propria dalle Sezioni Unite e dal Tribunale di Modena limiti la libertà contrattuale della società proponente il concordato preventivo, che si trova sì a poter ricorrere al tipo contrattuale di cui all'art. 1977 c.c. e ss., ma senza prevedere che l'alea circa la misura e i tempi del realizzo ricada esclusivamente sui creditori; o meglio, con tale possibilità solo parzialmente limitata, visto che il rischio di una riduzione della percentuale sino ad una misura minimale e/o di una dilatazione dei tempi sino a quelli massimi ragionevoli può essere fatta ricadere sui medesimi, ma con i limiti indicati dalla Cassazione, proprio quelli di un soddisfacimento anche minimo e di tempi ragionevolmente contenuti. Ciò non dovrebbe sorprendere, poiché la possibilità di risolvere un concordato con cessione dei beni, laddove non si giungesse ad un qualche pagamento ai chirografi, costituiva un principio sostanzialmente acquisito già prima della Riforma.
Al debitore, come si è osservato (S. Leuzzi, I “tempi” del piano nel concordato preventivo … etc., cit.), resta la possibilità di utilizzare lo schema di cui all'art. 1977 c.c., con liberazione immediata o differita, qualunque sia l'esito della liquidazione (il che sostanzia una clausola di non fallibilità), anche nell'ambito di un piano di risanamento ex art. 67 l. fall. o di un accordo di ristrutturazione dei beni ex art. 182-bis l. fall., ma non all'interno del concordato preventivo. In quest'ultimo contesto, infatti, la proposta contrattuale non è limitata solo dal principio di legalità, ma anche dalla causa concreta del concordato preventivo, emergente dalle disposizioni specifiche di questo e ricordata dalle Sezioni Unite.
Così esaminata la prima questione posta dalla pronuncia in commento, occorre trattare quella immediatamente conseguente, consistente nell'individuazione dei tempi massimi del piano concordatario, atteso che questi devono essere “ragionevolmente contenuti”.
Su questo secondo aspetto, si anticipa sin d'ora come l'opinione di chi si scrive sia difforme da quella racchiusa nella sentenza in commento.
Si crede infatti che non possano essere individuati limiti temporali a valere per qualsivoglia piano, e che tantomeno sia possibile fissare la durata massima di tre anni per qualsiasi piano meramente liquidatorio. Il ragionevole contenimento dei tempi può essere valutato solo in relazione alla fattispecie in concreto, poiché è evidente – per restare solo ai piani “meramente liquidatori” – come un piano che consista nella vendita di un solo immobile e un altro che preveda la liquidazione di un'azienda complessa, fatta di crediti, di rapporti giuridici pendenti, di cause in corso e da avviare, di beni di varia natura da liquidare, non possano essere equiparati, né tantomeno rientrare entrambi nel termine triennale. La ragionevolezza dei tempi va valutata in relazione al piano, e – come si vedrà – ben di rado difetterà, laddove il piano concordatario, comunque si caratterizzi, appaia nel complesso costruito su ipotesi ragionate e secondo adeguati standard professionali, e sia assistito da una attestazione rispettosa degli stessi principi.
Occorre tuttavia affrontare il tema con ordine.
In primo luogo, è evidente come il Legislatore non abbia inteso imporre limiti temporali rigidi. Egli si è limitato, infatti, come già ricordato, a richiedere l'indicazione nella proposta dei tempi dell'adempimento. Ciò consegue – si crede – ad una scelta consapevole, visto che la previsione di limiti fissi avrebbe rischiato di pregiudicare il ricorso allo strumento, attesa la mutevolezza dei piani aziendali in genere, liquidatori o conservativi che siano, in ragione del settore di appartenenza, delle caratteristiche dei beni e del mercato, degli obiettivi del piano, etc. Una siffatta consapevolezza appare del tutto coerente con gli scopi del concordato, specie in continuità, ma non solo, visto che – come si è osservato in dottrina (G. Bozza, Liquidazione dell'attivo in funzione di recupero dei valori aziendali, in Fall., 2014, 850) – “la mancanza di un limite temporale di durata prefissato dalla legge per attuare il risanamento nel concordato con continuità fa sì che il nuovo concordato si ponga come un vero e proprio strumento di ristrutturazione dell'impresa, in quanto tende, mediante la gestione diretta da parte dell'imprenditore, alla riconduzione dell'impresa nell'area della redditività e, attraverso il raggiungimento di questo obiettivo, al ripristino della capacità dell'imprenditore di far fronte alla proprie obbligazioni, anche a quelle pregresse”.
Ma tale scelta del Legislatore - e si addiviene così al secondo motivo di critica della tesi sostenuta dal Tribunale di Modena - è in qualche modo necessitata, atteso che i principi di carattere economico-aziendale che regolano la redazione dei piani di ristrutturazione e il loro controllo non prevedono termini fissi, oltre i quali ai piani non è possibile attribuire la necessaria affidabilità. Non solo, laddove essi individuano il termine di tre/cinque anni quale termine fisiologico, i medesimi si riferiscono esplicitamente ai tempi per il riequilibrio, non a quelli per il completo soddisfacimento dei debiti pregressi. Le note “Linee-guida” emanate nel 2010 dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, unitamente a Assonime e all'Università di Firenze, affermano infatti quanto segue: “Raccomandazione n. 5 (Arco temporale del piano). L'arco temporale del piano, entro il quale l'impresa deve raggiungere una condizione di equilibrio economico-finanziario, non deve estendersi oltre i 3/5 anni. Fermo che il raggiungimento dell'equilibrio non dovrebbe avvenire in un termine maggiore, il piano può avere durata più lunga, nel qual caso è però necessario motivare adeguatamente la scelta e porre particolare attenzione nel giustificare le ipotesi e le stime previsionali utilizzate; occorre comunque inserire nel piano alcune cautele o misure di salvaguardia aggiuntive, tali da poter compensare o quanto meno attenuare i possibili effetti negativi di eventi originariamente imprevedibili”. Esse poi specificano, come già anticipato, che “il raggiungimento di condizioni di equilibrio non implica il rimborso di tutto il debito, che può essere consolidato anche con date di rimborso successive, ma solo il ripristino della piena capacità di sostenere l'onere di quello che gravi a tale data. Il termine di 3/5 anni deve quindi essere riferito alle sole misure “straordinarie” (quali la cessione di cespiti, la dismissione o razionalizzazione di linee produttive, la messa in mobilità di dipendenti, ecc.), mentre non implica che in quel termine siano estinte tutte le passività esistenti al momento della stesura del piano, che possono anzi essere riscadenzate a termini più lunghi. Parimenti, è del tutto legittimo che il piano preveda, anche in termini lunghi, rinunzie a crediti o nuovi finanziamenti da effettuarsi a scadenze molto differite, nell'eventualità che l'impresa risulti averne necessità e al fine di prevenire, ora per allora, il riemergere di una crisi”. La bozza della seconda edizione delle stesse Linee Guida, attualmente in consultazione (reperibile su Assonime.it; sul punto si veda anche: Presentate le bozze delle nuove linee guida per il finanziamento delle imprese in crisi, nelle news de IlFallimentarista), conferma in toto gli approdi della versione precedente, precisando anzi nella stessa raccomandazione che «eventuali pagamenti ai creditori possono essere previsti in tempi più lunghi», rispetto all'arco temporale del piano entro il quale l'impresa deve raggiungere una condizione di equilibrio economico-finanziario, che non deve estendersi oltre i 3/5 anni.
Il termine di tre/cinque anni dunque, si ripete, attiene al riequilibrio finanziario e non all'integrale soddisfacimento dei debiti pregressi. Dall'esame degli ulteriori principi in materia, non è possibile trarre indicazioni più precise. Circa la durata del piano, i “Principi di attestazione” (emanati il 6 giugno 2014 a cura, fra gli altri, di AIDEA e IRDCEC, in Irdcec.it., 38) si limitano ad affermare, ai sensi anche del novellato art. 161 l. fall., che essa costituisce un elemento fondamentale del piano e della proposta, specificando che “l'arco temporale (…) deve pertanto attestarsi a data non anteriore al momento in cui, in base al piano, è previsto che siano soddisfatti i creditori, ovvero, nel caso di continuità aziendale siano ripristinate le normali condizioni di finanziamento (e di fido) (…)”. I richiamati principi nazionali traggono poi la propria ispirazione, in modo del tutto conforme, dal principio internazionale ISAE 3400, che circa il “period covered”, afferma che il piano può avere una durata variabile, purché si osservi il precetto che questa non possa eccedere il periodo con riferimento al quale il management possiede ragionevoli basi per determinare le “assumptions”, in ragione del ciclo operativo del business, della sua tipologia, delle modalità di esercizio e di vendita. Essi avvertono anche che maggiore è la durata del piano, maggiore è la difficoltà per il management di individuare “best-estimate assumptions”, così che aumenta l'incertezza, ricordando come “Prospective financial information can be in the form of a forecast, a projection or a combination of both, for example, a one year forecast plus a five year projection”. Tale esemplificazione sembra peraltro aver ispirato il Tribunale di Milano, allorquando, con riguardo al celebre “caso Risanamento” (Trib. Milano, 10 novembre 2009, in IlCaso.it, 29), riconobbe che "tutto ciò che si colloca nel presente e nell'immediato futuro può e deve essere scrutinato in dettaglio e con adeguato livello di concretezza; per contro, fatti e circostanze destinati a verificarsi a distanza di anni, sono maggiormente esposti a variabili non controllate e si prestano quindi ad un apprezzamento di portata più generale, rapportato quasi esclusivamente alla coerenza delle argomentazioni dell'esperto”.
Non è quindi possibile per i principi di redazione esistenti in materia individuare termini temporali fissi per i piani di ristrutturazione, fermo restando che maggiore è la durata, maggiore dovrà essere il rigore nell'esame delle assumptions, sicché sarà possibile attestare la fattibilità di piani di durata prolungata solo laddove vi siano forti elementi di garanzia, a sostegno della ragionevolezza dei dati previsionali.
Così, in via esemplificativa, difficilmente potrà essere attestato un piano concordatario della durata di sette anni, che fondi il soddisfacimento dei creditori anteriori sui flussi attesi dalla continuità; qualora tuttavia detti flussi siano assistiti da una garanzia esterna, fornita dal nuovo azionista di maggioranza della società in continuità, il piano potrebbe divenire attestabile, senza che la durata possa essere ritenuta non ragionevole, visto che essa è parametrata ai flussi attesi dal piano e che non esiste un principio che limiti la durata dei piani aziendali.
Il Tribunale di Modena sembra trascurare le argomentazione sinora esposte, circa l'assenza di un limite di legge o desumibile dai principi di redazione e controllo dei piani, per porre in sommo risalto i limiti temporali previsti dalla legge n. 89/2001, come modificata dal d.l. n. 83/2012, in materia di “ragionevole durata del processo”, con riguardo al procedimento di esecuzione forzata (a cui sarebbe assimilabile un concordato meramente liquidatorio) e alle procedure concorsuali in genere. Ciò in forza anche del richiamo ai tempi “ragionevolmente contenuti” operato dalle Sezioni Unite. Per di più si pretende un'interpretazione rigida dei termini temporali così individuati, resa ancora più stringente dalla assimilazione del concordato meramente liquidatorio all'esecuzione forzata.
Partendo da quest'ultimo assunto, non si comprende come il concordato per cessione dei beni possa essere assimilato all'esecuzione forzata, riguardante di regola uno o più beni individuati, anziché al fallimento. In quest'ultima direzione, infatti, dovrebbero deporre i seguenti aspetti: a) entrambe le procedure collettive riguardano di regola la mera liquidazione di complessi aziendali, costituiti da un insieme di beni, di diritti e di rapporti giuridici; b) il realizzo dei beni o di diritti, o l'incasso dei crediti, richiede spesso nel concordato, come nel fallimento, la prosecuzione o l'avvio di contenziosi in sede civile, seguiti non di rado da procedimenti esecutivi; c) ogni valutazione di convenienza del concordato (ex art. 160, comma 2, l. fall. da parte del revisore incaricato; in sede di votazione, ad opera dei creditori; in sede di omologazione – laddove ve ne siano i presupposti – da parte del Collegio) è per lo più svolta in raffronto al fallimento, proprio perché questa è l'alternativa in concreto, talvolta non dissimile; d) nella prassi, non di rado un elemento di convenienza del concordato, rispetto al fallimento, viene colto proprio nella possibilità di non provvedere alla liquidazione in tempi brevi mediante vendite competitive, con ribassi successivi e in tempi molto contenuti, ma di ricercare nell'ambito dell'arco temporale del piano modalità di vendita più meditate e potenzialmente fruttuose.
Il limite fisso di tre anni, che certo può essere appropriato per determinati piani non caratterizzati da elevata complessità, appare dunque immotivato, e pertanto non applicabile alla generalità dei concordati liquidatori.
Sempre che una indicazione possa essere tratta dalla “Legge Pinto”, questa dovrà semmai essere ricercata, anche per i concordati liquidatori, nel limite di sei anni espresso per le procedure concorsuali dalla modifica del 2012, se non nel limite di sette anni emerso dalla precedente elaborazione giurisprudenziale, in tema di applicazione della stessa legge. Valgono però, anche a tale proposito, molteplici motivi di perplessità, che tendono ad escludere che dalla “Legge Pinto” si possano trarre termini perentori, a pena di inammissibilità di concordati o di risoluzione dei medesimi. Innanzitutto, si è già posto in luce come il legislatore non abbia inteso porre limiti alla durata del piano concordatario, del tutto coerentemente con la finalità di agevolare la ristrutturazione delle imprese tramite detto strumento; appare quindi forzato il ritenere che detti limiti vadano rinvenuti nella “Legge Pinto”, volta ad altro fine. Si è altresì evidenziato come l'imposizione di termini perentori sia esclusa da ogni principio proprio della redazione o del controllo di piani aziendali prospettici, liquidatori o meno, talché non si vede come si possa pretendere di vietare la proposizione di piani concordatari ragionevoli e attestati, forieri di una possibilità concreta di soddisfacimento per i creditori, semplicemente perché superano un supposto termine di durata inderogabile. Ancora, venendo alla “Legge Pinto” e senza voler ripercorrere i motivi di critica autorevolmente mossi da altri alla irrazionalità dei limiti temporali previsti dalla medesima (cfr. F. Lamanna, Il c.d. Decreto Sviluppo: primo commento sulle novità in materia concorsuale, IlFallimentarista.it), occorre considerare – pur alla luce della giurisprudenza sviluppatasi sul punto, che in più di una occasione ha ritenuto non giustificate durate ultrasettennali - come i limiti temporali posti non siano previsti dalla legge quali fissi e inderogabili. Il superamento dei medesimi costituisce infatti semplicemente il presupposto della richiesta di risarcimento, mentre quest'ultimo è subordinato all'effettiva verifica in giudizio dell'irragionevolezza della maggiore durata nel caso di specie. Ben possono gli organi della procedura e chi è chiamato in causa dimostrare che nella fattispecie la maggiore durata è giustificata, alla luce della complessità della procedura, delle iniziative avviate e dei risultati raggiunti. Non si vede quindi, in ultima analisi, come il termine di sei anni ora previsto per le procedura concorsuali, quale semplice presupposto dell'azione di risarcimento, possa divenire – in sede di ammissione, omologa o risoluzione del concordato preventivo - il termine massimo di durata del piano, comunque questo si caratterizzi.

Conclusioni

Il Tribunale di Modena, con la pronuncia in commento, appare applicare correttamente i principi statuiti dalle Sezioni Unite alla fattispecie del concordato con cessione dei beni, ove afferma che pure in tal caso ai fini della risoluzione occorre considerare anche la componente temporale dell'adempimento, tenuto conto che, seppure i tempi indicati dalla proponente possono risultare indicativi e non essenziali, tale aspetto compone la causa concreta del concordato.
Non appare invece condivisibile la pretesa di fissare limiti massimi inderogabili di durata per il concordato preventivo, nella misura di sei anni per i piani più complessi in continuità e di tre anni per quelli meramente liquidatori, applicando così in via stringente i limiti previsti dalla “Legge Pinto” rispettivamente per le procedure concorsuali e per le esecuzioni forzate. Detti limiti appaiono infatti determinati ad altro fine, con carattere peraltro non inderogabile, talché occorre considerare come i limiti di ciascun piano siano determinati, caso per caso, dalla possibilità di costruire con rigore, e secondo i principi di redazione e di controllo esistenti in materia, un piano che sia suscettibile di essere attestato.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

In giurisprudenza e dottrina, sulla durata del piano concordatario e a seguito di Cass. SS.UU. 1521/3013, cfr. Trib. Monza, 11 giugno 2013, in IlFallimentarista.it, con nota di L. Jeantet – G. Covino, Il concordato con continuità aziendale: compatibilità con l'affitto d'azienda e durata poliennale del piano; Trib. Siracusa, 15 novembre 2013, in Il Caso.it; App. Catania, 10 marzo 2014, in IlFallimentarista.it; Trib. Prato, 17 febbraio 2014, in lFallimentarista.it, con nota di S. Leuzzi, I “tempi” del piano nel concordato preventivo e il principio di ragionevole durata del processo; G. Bozza, Liquidazione dell'attivo in funzione di recupero dei valori aziendali, in Fall., 2014, 850.
Con riguardo ai principi di redazione dei piani di ristrutturazione e alla loro attestazione, cfr. Linee-guida per il finanziamento delle imprese in crisi, emanate nel 2010 dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, unitamente ad Assonime e all'Università di Firenze, reperibili sui siti di tali istituzioni; Principi di attestazione dei piani di risanamento, emanati il 6 giugno 2014 a cura fra gli altri di AIDEA e IRDCEC, in Irdcec.it.; principio internazionale ISAE 3400, The Examination of Prospective Financial Information, emanato dalla commissione appartenente all'IFAC (International Federation of Accountants) denominata IAASB (International Auditing and Assurance Standard Board), in Ifac.org; AIFI, Guida al business plan, 2002, in Aifi.it; Borsa Italiana, Guida al piano industriale, 2003, in Borsaitaliana.it; P. Mazzola, Il Piano industriale, Egea, Milano, 2003; ASSIREVI, Richieste dello sponsor relative al paragrafo 2.d) dell'art. 2.3.4. del regolamento dei mercati organizzati e gestiti dalla Borsa Italiana s.p.a., doc. di ricerca n. 114, 2007, in Assirevi.it.

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