Natura e revocabilità di rimesse in c/c bancario per anticipazioni dietro fattura

Marco Terenghi
02 Dicembre 2014

I versamenti corrispondenti ad anticipazioni dietro presentazione di ricevute bancarie o fatture su conto affidato non integrano atti solutori anormali, bensì un ordinario atto di ripristino della provvista assicurata dall'affidamento, secondo una dinamica che risponde, oltre che al regolamento contrattuale in essere tra banca e cliente, alla fisiologia dei rapporti tra questi ultimi.
Massima

I versamenti corrispondenti ad anticipazioni dietro presentazione di ricevute bancarie o fatture su conto affidato non integrano atti solutori anormali, bensì un ordinario atto di ripristino della provvista assicurata dall'affidamento, secondo una dinamica che risponde, oltre che al regolamento contrattuale in essere tra banca e cliente, alla fisiologia dei rapporti tra questi ultimi.
Sono al più le operazioni bancarie considerate nella loro globalità, comprensive quindi della contestuale cessione di credito, o della compensazione tra il credito della banca originato dall'anticipazione ed il debito della banca dipendente dall'incasso del credito per conto del cliente, che possono essere considerati atti di pagamento anomali.
Poiché le anticipazioni sono prestiti ad utilizzo ripetuto, in cui ad una pluralità di finanziamenti consegue una pluralità di estinzioni, gli accrediti, considerati isolatamente, possono essere revocati solo se risultati a copertura di precedenti anticipazioni rimaste insolute, e mai in quanto atti solutori anormali, bensì come atti solutori normali, ex art. 67, comma 2, l. fall.

Le rimesse su conto corrente possono essere revocate, ex art. 67, comma 2, l. fall., solo se aventi natura solutoria, e non ripristinatoria, all'ulteriore condizione che l'effetto di riduzione dell'esposizione debitoria del fallito sia stato durevole e consistente.

La riduzione dell'esposizione debitoria è durevole quando il versamento non risulta compensato da successivi prelevamenti per un lasso di tempo apprezzabile, intendendosi quale tale un periodo la cui determinazione risente della frequenza della movimentazione del conto sul quale il versamento intervenne.
Nel determinare se la riduzione dell'esposizione debitoria sia consistente, il giudice, la cui discrezionalità sul punto è inevitabilmente ampia, deve aver riguardo a parametri interni al rapporto di conto corrente in essere tra banca e correntista, quali l'entità massima dell'esposizione debitoria del conto corrente nel semestre antecedente al fallimento, l'entità media delle rimesse (ed eventualmente anche dei prelevamenti) sul conto, nel periodo sospetto o nel periodo immediatamente antecedente al semestre, l'ammontare dell'esposizione debitoria nel momento in cui la rimessa della cui consistenza si tratta è stata effettuata, e infine l'importo massimo di cui possa essere chiesta la restituzione, così come individuato applicando il principio di cui all'art. 70, ult. comma, l. fall.

Il caso

La pronuncia del Tribunale di Bergamo ha ad oggetto accrediti affluiti sul c/c di una società dichiarata fallita nel dicembre del 2006. Si tratta, quindi, di una causa di revocatoria fallimentare già interamente disciplinata dalla nuova normativa introdotta, in particolare, dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito dalla L. 14 maggio 2005, n. 80, e dal D. Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, che, come noto, hanno tra l'altro profondamente ridisegnato i contorni della revocatoria fallimentare in generale, e di quella delle rimesse in conto corrente, in particolare.
Nello specifico, dalla narrativa del provvedimento si evince che la Curatela ha distintamente impugnato due differenti serie di accrediti: un paio di rimesse isolatamente considerate, inquadrate nella fattispecie dell'art. 67, comma 2, l. fall., ed alcuni versamenti affluiti in conto a seguito di operazioni di anticipazione su ricevute bancarie/fatture corredate da mandati all'incasso in rem propriam, ritenuti dal curatore revocabili ex art. 67, comma 1, n. 2, l. fall.. Dopo la prospettazione, da parte della banca, di tutte le classiche difese di prammatica (tra cui l'eccezione di nullità dell'atto di citazione per indeterminatezza del petitum), la fase istruttoria è culminata nell'espletamento di una CTU contabile, all'esito della quale la causa è parsa matura per venire decisa senza il ricorso a prove orali. Il Tribunale, dopo avere preliminarmente rigettato l'eccezione di nullità della convenuta, ha accolto solo in parte le domande del Fallimento: in particolare, ha rigettato quella fondata sull'art. 67, comma 2, n. 1, negando natura di mezzo anormale di pagamento agli accrediti delle anticipazioni s.b.f., ed ha dichiarato l'inefficacia di una sola delle rimesse impugnate, relativamente alla quale sono stati ritenuti sussistere la prova della scientia decoctionis nonché i requisiti di consistenza e durevolezza prescritti dalla legge.

Le questioni giuridiche e le relative soluzioni

La varietà degli argomenti trattati rende preferibile una loro esposizione per singoli punti.
a) Una delle modalità più diffuse per la concessione di credito al correntista consiste in quell'operazione che, nella prassi, viene variamente definita come “anticipazione”, “anticipo di portafoglio commerciale” e simili, finalizzata allo smobilizzo dei crediti vantati dal cliente verso terzi attraverso il pagamento anticipato, da parte della banca, di una quota proporzionale di essi, previa deduzione dell'interesse, delle commissioni e dei costi in genere (sull'argomento, in generale, G. Tarzia, I contratti bancari di credito tipici e atipici, in Fall., 2005, 300 e segg.; S. Bonfatti, Revocatoria delle rimesse e “castelletti” nelle fattispecie di “conto evidenza” e “conto unico”, ivi, 2001, 95 e segg.; R. Teti-P. Marano, I contratti bancari. Apertura di credito. Anticipazione. Sconto, Milano, 1999, 49 e segg.). Nello schema tipico, l'anticipazione non costituisce il corrispettivo di uno sconto o comunque di una cessione del credito, poiché il cliente rimane titolare di quest'ultimo; il meccanismo dell'anticipo prevede infatti normalmente il conferimento dal correntista alla banca di un mandato irrevocabile (in quanto in rem propriam) alla riscossione del credito stesso, accompagnato da un patto di compensazione tra il credito derivante dall'erogazione dell'anticipazione ed il debito per la restituzione di quanto incassato dal terzo debitore (Cass., 27 aprile 2011, n. 9387; Cass., 30 gennaio 2003, n. 1391; si veda anche Cass., 3 maggio 2007, n. 10208). Al momento della riscossione, attuando la compensazione, la banca incamera il controvalore di quanto anticipato, mentre il correntista beneficia della quota residua originariamente non coperta dalla banca (solitamente il rapporto è intorno a 80%-20%); se la fattura o la ri.ba. risultano insolute, la banca ha ovviamente azione nei confronti dell'anticipatario per la restituzione di quanto erogato (ma non verso il debitore inadempiente, non essendoci stato trasferimento della titolarità del credito), il cui controvalore viene a quel punto normalmente addebitato sul c/c a titolo di insoluto. Per rafforzare la propria posizione creditoria, talvolta la banca esige dal cliente anche una cessione in garanzia del credito anticipato, con ciò dando origine ad una fattispecie negoziale ancora più complessa, la cui configurazione giuridica suscita spesso qualche difficoltà concettuale (soprattutto in relazione alla convivenza tra anticipo e cessione, istituti che presuppongono pur sempre un'alterità soggettiva nella titolarità del credito).
In concreto, ben difficilmente l'anticipazione si pone come un'operazione isolata, poiché la sua caratteristica è proprio la serialità continuativa che scaturisce da un'iniziale analisi del profilo di rischio del cliente da parte della banca. In questo caso, tra le parti viene istituito un c.d. “castelletto” (strumento generalmente utilizzato anche per gli sconti), negozio privo di disciplina sia codicistica, sia di derivazione bancaria uniforme, il quale si pone sostanzialmente come una convenzione che rappresenta il limite massimo di finanziabilità di un certo correntista in vista di future operazioni di anticipo (S. Bonfatti, Revocatoria delle rimesse cit., 95 e segg.; A. Silvestrini, Brevi note in materia di castelletto di sconto e prova della scientia decoctionis, in Fall., 2006, 322 e segg.. In giurisprudenza, Cass. 5 maggio 2000, n. 5634). Il castelletto, secondo la migliore interpretazione, non costituisce un semplice atto organizzativo interno della banca, privo di effetti obbligatori in capo a quest'ultima, ma integra un vero e proprio contratto-quadro che conferisce al correntista il diritto di presentare “portafoglio commerciale” per l'anticipazione, fino a concorrenza dell'ammontare concordato; specularmente, la banca è tenuta ad accettare la distinta di presentazione del cliente, con il solo limite della buona fede (evidente insolvenza del terzo debitore, irregolarità formale degli eventuali titoli emessi da quest'ultimo, e simili; si veda Tarzia, I contratti bancari cit., 305-306).
Generalmente, l'anticipo erogato dalla banca viene accreditato in conto corrente, perché il titolare di quest'ultimo se ne serva secondo i propri bisogni. In questo caso esso risulta assimilato, almeno formalmente, ad una qualunque altra rimessa, tanto da rientrare molto spesso tra i possibili obiettivi revocatori della curatela, laddove utilizzato per ridurre lo scoperto di conto. A stretto rigore, l'accredito dell'anticipazione rappresenta il momento iniziale di una più ampia operazione negoziale, ragion per cui solo la revoca di quest'ultima potrebbe avere l'effetto di renderlo inefficace nei confronti della massa: conseguentemente, le pretese del curatore andrebbero estrinsecate contro l'anticipazione in sé considerata, vista quale atto a titolo oneroso ai sensi del secondo comma dell'art. 67 l. fall., oppure ritenuta configurare una modalità anomala di pagamento in forza del primo comma, n. 2, poiché preordinata ad estinguere una preesistente passività. In concreto, data la sua natura di rimessa in c/c, l'accredito dell'anticipo viene perlopiù ritenuto atto revocabile autonomamente ai sensi del secondo comma, in quanto solutorio di un debito liquido ed esigibile verso la banca (tra le pronunce più recenti, Cass., 20 giugno 2011, n. 13449; Cass., 17 ottobre 2005, n. 20101). Deve per contro escludersi che, salvi casi particolari, esso possa venire inquadrato di per se stesso quale atto anormale ai sensi del primo comma, n. 2, anche perché la sua natura “autoliquidante” gli conferisce una connotazione esattamente opposta, vale a dire di strumento abituale di approvvigionamento del credito da parte del correntista (secondo Cass., 30 settembre 2005, n. 19217, può semmai essere assoggettata a revoca la complessiva attività negoziale di conferimento del mandato in rem propriam insieme ai suoi atti esecutivi; nello stesso senso, Cass. 8 settembre 2004, n. 18057).

Il Tribunale di Bergamo, nella pronuncia in esame, fa puntuale applicazione dei principi sinteticamente esposti poco sopra, a dimostrazione dell'ormai evidente raggiungimento, quantomeno ad opera di parte della giurisprudenza, di un sostanziale equilibrio nella valutazione delle fattispecie di revocatoria bancaria e dei reciproci interessi contrapposti; equilibrio che, per contro, era talvolta mancato in alcuni orientamenti ante-riforma, i quali avevano effettivamente condotto a revocare pagamenti per somme di denaro spropositate rispetto alla lesione della par condicio concretamente determinatasi a seguito della loro esecuzione.
b) Assume rilievo anche l'ulteriore ed ancor più caratterizzante tema relativo agli attuali presupposti di revocabilità delle rimesse in c/c, che secondo il Tribunale, non si esauriscono nel carattere consistente e durevole della riduzione dell'esposizione debitoria, ma debbono essere integrati con il requisito della natura solutoria dell'accredito, in consonanza con il portato dell'elaborazione giurisprudenziale ante-riforma. E' noto come la maggior parte degli interpreti, nel commentare la nuova disciplina post D.L. 35/2005, avesse segnalato quale elemento di novità il superamento della tradizionale distinzione tra rimesse “solutorie” (revocabili) e “ripristinatorie” del fido (irrevocabili), fondando una simile conclusione sull'assenza di ogni previsione normativa sul punto ed evidenziando il carattere peculiare della rimessa in c/c rispetto al “pagamento” tradizionalmente considerato (tra gli altri G. Terranova, La nuova disciplina delle revocatorie fallimentari, Padova, 2006, 28; F. Angiolini, La “nuova” revocatoria fallimentare, in Riv. not., 2005, 993 e segg.; S. Bonfatti, La disciplina della revocatoria delle rimesse su conto corrente bancario nella nuova legge fallimentare, in La disciplina dell'azione revocatoria nella nuova legge fallimentare e nei “fallimenti immobiliari”, a cura di S. Bonfatti, Milano, 2005, 117 e segg.; M. Arato, Fallimento: le nuove regole introdotte con la l. 80/2005, in Dir. fall., 2006, I, 185; B. Meoli, Vecchie e nuove esenzioni dalla revocatoria fallimentare, in Giur. comm., 2006, I, 207 e segg. Per una panoramica delle varie posizioni, P. Menti, La revoca delle rimesse bancarie dopo il decreto correttivo della riforma fallimentare, in Il Fallimento, 2007, 1279 e segg.). In base a questa impostazione definita “continuista”, che da un punto di vista pratico avrebbe l'effetto di riespandere, ancorché poco significativamente, l'ambito di revocabilità delle rimesse (ormai compresso ed anzi quasi azzerato dal disposto dell'art. 70 e del terzo comma dell'art. 67), potrebbe venire assoggettata a revoca anche la rimessa pervenuta su conto affidato in situazione intrafido, laddove idonea a determinare una riduzione consistente e durevole del debito del correntista. Le poche voci dissonanti (A. Patti, L'esenzione da revocatoria delle rimesse bancarie, in Fall., 2006, 240-241; S. Fortunato, La natura dell'azione revocatoria nella nuova legge fallimentare: profili generali (art. 67, co. 1 e 2), in La riforma della legge fallimentare, a cura di S. Bonfatti e G. Falcone, Milano, 2005, 3 e segg.; U. De Crescienzo e L. Panzani, Il nuovo diritto fallimentare, Milano, 2005, 101), tra le quali si inserisce a buon diritto la decisione in commento, superano l'affermata abrogazione normativa della nozione di “rimessa solutoria” attraverso una lettura sistematica regola-eccezione dell'art. 67, che, da un lato (secondo comma), riafferma in generale la revocabilità endosemestrale dei pagamenti di debiti liquidi ed esigibili (ivi compresi gli accrediti, per quanto particolari quoad naturam), e, dall'altro (terzo comma, lett. b), ne esenta in via eccezionale le rimesse “consistenti e durevoli”, con ciò sottintendendo una sorta di pre-requisito di loro sindacabilità, costituito appunto dalla compresenza di un preesistente credito scaduto della banca.
Per quanto poi concerne la nozione di “durevolezza” e “consistenza”, il Tribunale ha buon gioco sia nel disattendere le interpretazioni eccessivamente integraliste, in un senso o nell'altro, comparse tra gli interpreti (su cui si tornerà brevemente in seguito), sia nel riaffermare, per contro, la necessità di un'applicazione relativistica dei due concetti, la cui chiave di lettura va desunta dall'osservazione dello svolgimento del rapporto di c/c. In questo modo, la riduzione del debito non risulta “durevole” solo se dopo la rimessa incriminata non vi sono stati altri addebiti in conto (situazione-limite di fido revocato o conto congelato: G. Cavalli, Considerazioni sulla revocatoria delle rimesse in conto corrente bancario dopo la riforma dell'art. 67, legge fallimentare, in Banca, borsa, tit. cred., 2006, I, 8; G. Tarzia, Le esenzioni (vecchie e nuove) dall'azione revocatoria fallimentare nella recente riforma, in Fall. 2005, 841), bensì ogniqualvolta l'accredito non sia funzionalmente controbilanciato da un successivo addebito di cui abbia costituito la provvista (D. Galletti, Le nuove esenzioni dalla revocatoria fallimentare, in Giur. comm., 2007, I, 178; Meoli, Vecchie e nuove esenzioni, cit., 228), oppure laddove il conto non registri altre movimentazioni passive entro un periodo ragionevolmente inusuale rispetto alle normali operazioni di segno opposto desumibili dall'e/c (M. Arato, Fallimento: le nuove regole, cit., 182; A. Dolmetta, Sulla revocatoria fallimentare riformata: problemi applicativi su “termini” ed “esenzioni”, Relazione Convegno Paradigma, giugno 2007, in ilcaso.it, 17). Parallelamente, la consistenza non va necessariamente desunta in termini assoluti o comunque rigidamente predeterminati (come accadrebbe se la si volesse percentualizzare in modo fisso o comunque a priori: così M.R. Grossi, La riforma della legge fallimentare, Milano, 2006, 872), bensì valutata alla luce di una serie di elementi a loro volta desumibili dall'andamento del c/c, quali l'entità massima dell'esposizione debitoria del c/c tanto nel semestre anteriore al fallimento, quanto al momento dell'afflusso degli accrediti, l'ammontare medio di questi ultimi (ed eventualmente anche degli addebiti), l'importo massimo restituibile dalla banca in forza del disposto dell'art. 70, ult. comma. Il risultato medio evincibile dall'interazione di tutti questi fattori costituisce poi materia di apprezzamento da parte del giudice, rispetto al quale la discrezionalità rappresenta una componente ampia ed ineliminabile, come sempre accade laddove il testo normativo non fornisca regolamentazioni sufficientemente precise (Bonfatti, La disciplina della revocatoria, cit. 127; Tarzia, Le esenzioni, cit., 841).
A corredo delle argomentazioni logico-giuridiche ritenute più convincenti, la pronuncia in commento si connota anche per l'equilibrio, derivante, da un lato, dalla considerazione dimostrata per lo spirito della riforma del 2005, diretto a temperare gli eccessi restitutori cui il sistema bancario era stato spesso sottoposto per diversi anni, e, dall'altro, dall'esigenza di inibire alla vigente normativa (sicuramente più conservativa degli interessi delle banche, nonostante il successivo intervento del decreto correttivo D. Lgs. 12 settembre 2007, n. 169) un effetto di aprioristica salvaguardia anche in relazione a prassi, lesive della par condicio, dirette ad aggirare gli ormai sparuti presidi posti a tutela del correntista e, di riflesso, della massa dei creditori.

Osservazioni

Le soluzioni adottate dal Tribunale di Bergamo appaiono puntuali e convincenti; anche laddove si discosta dall'orientamento prevalente, la sentenza in commento adotta infatti un iter logico dotato di innegabile coerenza interna, sicuramente interessante da esaminare.
a) Si è succintamente visto in precedenza come la concessione di finanza a breve abbia ormai quali prevalenti valvole di sfogo le varie forme di smobilizzo del credito, attraverso le macrocategorie dell'anticipo (prevalente: artt. 1842 e segg. c.c.) e dello sconto (oggi meno frequente: artt. 1858-1860 c.c.).
In teoria, la differenza tra i due strumenti è chiara: nello sconto la titolarità del credito passa alla banca, mentre nell'anticipazione essa rimane in capo al correntista. Pertanto, nel primo caso, quando viene incassato il pagamento proveniente dal debitore, l'istituto va ad estinguere un credito proprio; nel secondo caso, per contro, la banca riceve il versamento quale mandataria all'incasso del correntista, a cui dovrebbe ritrasferire il denaro percepito. Senonché, in forza del patto di compensazione stipulato al momento della convenzione di anticipazione, la banca è legittimata a compensare il proprio debito ex mandatu con il proprio credito nascente dall'anticipo erogato in favore del cliente.
Conseguentemente, sempre in teoria, non è possibile assoggettare a revocatoria il pagamento eseguito dal debitor debitoris in relazione ad un credito precedentemente ceduto alla banca, poiché quest'ultima ha incassato “denaro proprio”, per così dire (sul punto, di recente, Cass., 12 luglio 2013, n. 17268). Laddove ne ricorrano i presupposti, quindi, la curatela potrà semmai rivolgere le proprie pretese di revoca (anche ai sensi del primo comma, n. 2, ove fattibile) al negozio di sconto o di cessione del credito propriamente inteso, di cui il successivo pagamento costituisce una mera conseguenza, o comunque un momento esecutivo (Cass., 30 settembre 2005, n. 19217, cit.). L'utilizzo dell'espressione “in teoria” dipende dal fatto per cui, in concreto, non è sempre agevole accertare se un determinato negozio intercorso tra banca e cliente rappresenta una mera anticipazione, o un vero e proprio sconto. La modulistica adottata dagli istituiti di credito, al riguardo, è talvolta poco chiara e contiene spesso diciture tra loro contraddittorie, utilizzando ad esempio il termine “anticipo” contestualmente alla parola “cessione”, oppure intitolando come “anticipazione” un patto contrattuale che, al suo interno, contiene riferimenti al trasferimento della titolarità del credito. La ricorrente opacità della prassi, a questo riguardo, finisce talora per generare possibili difficoltà anche a livello di ricostruzione teorica. Si è per esempio affermato, in giurisprudenza, che, in caso di cessione del credito da cliente a banca, il successivo pagamento del debitore ceduto alla banca sarebbe revocabile limitatamente alle “eccedenze di tali pagamenti rispetto alle anticipazioni a fronte delle quali le cessioni erano state stipulate” (si veda Cass. 17268/2013, cit.). Sorge spontaneo il rilievo per cui, se vi è cessione, la somma di denaro che la banca eroga al correntista non è una “anticipazione” in senso stretto (anche se l'art. 1858 C.C. in tema di sconto bancario utilizza espressamente il termine “anticipa”), bensì il sostanziale corrispettivo per il trasferimento del credito stesso, che non è mai pari al valore nominale di quest'ultimo, poiché dal medesimo vengono “scontati” (da qui la denominazione di “sconto”) l'interesse anticipato sull'importo del credito, la provvigione e le spese accessorie. Di conseguenza, se alla fine il debitor debitoris paga il valore nominale del credito ceduto, non sembra che la differenza tra quest'ultimo ed il corrispettivo anticipato possa venire assoggettata a revocatoria, trattandosi di un diritto ormai entrato nel patrimonio della banca.
Lo sconto e l'anticipazione, comunque, risultano accomunate da una struttura e da un'operatività per molti aspetti molto simili, di cui il c.d. “castelletto” costituisce l'indice più emblematico. Spesso parafrasato come “fido per smobilizzo crediti”, nel predominante orientamento giurisprudenziale il castelletto è visto come uno strumento attraverso il quale, a differenza dell'apertura di credito, la banca non attribuisce al cliente la facoltà di disporre immediatamente di una somma di denaro, ma si obbliga ad accettare per lo sconto o l'anticipazione, entro un ammontare predeterminato, il portafoglio commerciale che l'affidatario presenterà (Cass. 5 maggio 2000, n. 5634; Cass. 10 aprile 1999, n. 3526; Cass. 20 marzo 1999, n. 2589; Trib. Milano 15 marzo 2005, in Fall., 2006, 317). Conseguentemente, esso non rappresenta l'ammontare delle somme di cui il correntista può disporre, bensì il limite entro il quale la banca è tenuta ad accettare le fatture o i titoli presentati dal cliente; inoltre, la sua presenza non può far ritenere coperto un conto corrente bancario, né escludere il carattere solutorio delle rimesse affluite sul conto stesso, come il consolidato orientamento giurisprudenziale ante-riforma ha ripetutamente affermato trattando della c.d. “non cumulabilità” dei fidi (Cass. 7 marzo 2003, n. 3396; si veda altresì la giurisprudenza citata in B. Quatraro-M. Giorgetti-A. Fumagalli, Revocatoria ordinaria e fallimentare. Azione surrogatoria, Milano, 2009, 1448 e segg.).
Non di rado, in concreto, l'esistenza di un “fido” per lo smobilizzo dei crediti a breve determina l'accensione, a fianco del conto corrente ordinario, di un conto collaterale variamente denominato nella prassi (le espressioni più utilizzate sono “conto anticipi” o “conto evidenza”), ove vengono annotati le anticipazioni di volta in volta erogate dalla banca ed il successivo incasso dei crediti erogati. Si tratta di una modalità che presenta il vantaggio, per il correntista, di poter disporre subito delle somme anticipate, e quello, per la banca, di percepire interessi sull'intero controvalore anticipato e di poter monitorare costantemente il rispetto da parte del cliente del massimale di fido accordato, attraverso un suo utilizzo “autoliquidante” o “rotativo”, come si è soliti descriverlo nella prassi (sul punto, G. Tarzia, Revocatoria fallimentare delle anticipazioni “girate” sul conto corrente ordinario, in Fall. 2011, 1302 e segg.). In questo caso, la tracciabilità dell'operazione di anticipo si articola sostanzialmente come segue: l'importo anticipato dalla banca viene registrato “a debito” nel conto anticipi e contestualmente trasferito mediante giroconto “a credito” del c/c ordinario, in modo che il cliente possa immediatamente utilizzarlo. Quando poi il debitore del correntista esegue il pagamento del dovuto, l'incasso viene annotato a credito nel conto collaterale fino a concorrenza della somma anticipata, ripristinando così per pari importo l'eventuale castelletto; l'eventuale esubero rispetto all'anticipo (quasi sempre accordato in valore percentuale rispetto al valore nominale del credito) affluisce a credito del c/c ordinario. Se il debitor debitoris non adempie, si assisterà all'addebito del c.d. “insoluto” sul c/c ordinario, con conseguente diminuzione della disponibilità o aumento dello scoperto su quest'ultimo.
In sostanza, quindi, dall'esame degli estratti del c/c ordinario può normalmente evincersi l'accredito dell'anticipo e l'addebito dell'eventuale insoluto; dall'analisi degli estratti del conto anticipi possono invece riscontrarsi il “caricamento” iniziale della somma anticipata e la restituzione di quest'ultima da parte del debitore anticipato, in caso di regolare “chiusura” dell'operazione, mentre nell'ipotesi di insoluto non viene registrato alcun rientro, ed il conto continua a riportare la voce a debito ordinaria, corrispondente al credito anticipato e non rimborsato.
Più recentemente, nella prassi ha cominciato ad affermarsi una diversa modalità di gestione del “foglio commerciale” e dei relativi affidamenti, quella del c.d. “conto unico”, che spesso si sposa con l'utilizzo di castelletti “a disponibilità differita”, anziché immediata. In estrema sintesi e necessariamente generalizzando, essa prevede che la banca conceda al correntista un'apertura di credito di un determinato ammontare, utilizzabile in c/c, condizionata alla presentazione di portafoglio da incassare, con maturazione di interessi passivi sugli importi effettivamente utilizzati, anziché sull'intero ammontare del portafoglio presentato (come invece si verifica nel caso del castelletto “a disponibilità immediata”). Se ciò accade, il cliente beneficia di una provvista per importo e durata corrispondenti a quelli dei titoli o delle fatture effettivamente presentati all'incasso, senza però che, sotto il profilo contabile, alcuna operazione venga annotata in conto all'atto della presentazione: solo al momento della scadenza del portafoglio presentato il relativo importo verrà accreditato sul “conto unico”, ovviamente nella misura in cui esso sarà stato incassato da parte della banca (a differenza dell'altro sistema, in cui l'insoluto va necessariamente addebitato in conto ex post). Durante il periodo ricompreso tra presentazione ed incasso, il foglio commerciale viene rilevato in un conto separato indisponibile, destinato a registrare l'ammontare complessivo dei crediti posti all'incasso e non ancora scaduti, che rappresenta nel contempo la provvista riconosciuta al correntista (se del caso in aggiunta all'apertura di credito già eventualmente esistente), su cui maturano interessi passivi nella misura in cui viene utilizzata (Bonfatti, Revocatorie delle rimesse e “castelletti”, cit., 98; Silvestrini, Brevi note in materia di castelletto di sconto, cit., 324).
In una variante operativa del “conto unico”, la banca accredita subito in c/c la somma anticipata in favore del cliente. Successivamente, al momento del pagamento da parte del terzo debitore, vengono registrati il corrispondente movimento in avere ed un contestuale addebito di pari importo, per neutralizzare quella che, altrimenti, costituirebbe una duplicazione del finanziamento al correntista; laddove, per contro, l'anticipato non paghi, sul c/c compare esclusivamente l'addebito.
Come interagisce la revocatoria fallimentare con le operazioni di finanziamento “autoliquidanti” tratteggiate in precedenza? Per meglio dire, in quali termini si pone l'eventuale pretesa di inefficacia della curatela in relazione ad attività negoziali caratterizzate da una simile specificità tecnica?
Per quanto riguarda lo sconto di crediti o cambiali, la risposta è già trapelata poco sopra: in linea di principio, lo sconto realizza un trasferimento, in favore della banca, della titolarità del credito, con la conseguenza per cui il pagamento finale del debitore scontato non integra nemmeno più il passaggio di una somma di denaro proveniente dal correntista fallito, bensì un adempimento posto in essere dal debitore originario a favore del nuovo titolare del credito (Cass., 12 giugno 2009, n. 13762). Immediata conseguenza di questo rilievo è che l'atto solutorio eseguito dal soggetto scontato, sia che pervenga sul c/c, sia che venga incassato in altro modo ad opera dell'istituto erogante, non può venire assoggettato di per se stesso ad un'eventuale revocatoria, proprio in quanto momento esecutivo di una pregressa attività negoziale, che lo rende insuscettibile di essere considerato atomisticamente rispetto a quest'ultima. Laddove ne sussistano i presupposti, il curatore potrà rivolgere la propria domanda di revoca nei confronti del contratto di sconto/cessione propriamente detto, da intendersi se del caso quale atto anormale ex art. 67, comma 1, n. 2, oppure quale atto a titolo oneroso concluso dal fallito ai sensi dell'art. 67, comma 2, l. fall., valutando peraltro preventivamente quale risultato utile potrebbe ritrarsi da una simile iniziativa giudiziale (Cass. Civ. 5 ottobre 2000, n. 13278; Trib. Napoli 26 settembre 1984, in Fall. 1985, 537).
La questione si profila più complessa, per contro, in relazione alle operazioni di anticipazione o di “smobilizzo” esaminate in precedenza.
Un approccio apparentemente semplicistico, sul tema, potrebbe quasi prendere le mosse dall'adattamento, alla materia bancaria (chiedo fin d'ora venia per la blasfemia), di quel principio filosofico che ha reso famoso Berkeley, vale a dire “esse est percipi”: una cosa esiste solo nella misura in cui la si percepisce. Traslato nell'orticello della revocatoria di rimesse in c/c, esso si potrebbe tradurre in qualcosa del genere: “sono revocabili tutti e solo quegli accrediti che transitano sul c/c ordinario e si evincono dal relativo e/c, perché il conto collaterale è un semplice conto di evidenza contabile, insuscettibile di realizzare effetti solutori e semplicemente descrittivo della situazione degli anticipi erogati in un dato momento al correntista”.
Ironia a parte, si tratta in realtà di un'impostazione niente affatto banale, che ha anzi trovato ampio diritto di cittadinanza nella giurisprudenza di legittimità, ad avviso della quale l'accredito per “giroconto” dal c/anticipi a quello ordinario di somme erogate dalla banca a titolo di anticipazione va considerato revocabile, laddove utilizzato a riduzione dello scoperto esistente sul conto ordinario, e sempreché la riscossione del credito anticipato abbia successivamente avuto luogo (si tratta di un orientamento risalente e riaffermato periodicamente anche di recente: Cass. 11 dicembre 1978, n. 5836; Cass. 11 settembre 1994, n. 9307; Cass. 17 ottobre 2005, n. 20101; Cass. 20 giugno 2011, n. 13449, in Fall., 2011, 1299, con commento di E. Staunovo Polacco, Giroconto e revocatoria fallimentare; Cass. 13 febbraio 2013, n. 3507. Sulla necessità di dedurre i successivi insoluti dal computo delle rimesse astrattamente revocabili, si vedano App. Torino, 16 maggio 2007, in Fall. 2007, 843; Trib. Napoli, 7 gennaio 2010, ivi, 2010, 624; Trib. Milano, 11 gennaio 2006, ivi, 2006, 607). La Cassazione perviene ad una simile conclusione partendo dal presupposto per cui i conti collaterali utilizzati per rappresentare la dinamica degli anticipi e dei relativi rientri non sono conti normalmente operativi, ma semplici evidenze contabili dei finanziamenti per anticipazioni concesse al correntista; pertanto, il saldo passivo da essi risultante non è indicativo di uno scoperto, così come gli accrediti ivi contabilizzati non rappresentano rimesse solutorie. Per contro, prosegue la Corte, il rapporto di dare/avere tra banca e cliente trova rappresentazione esclusiva e costante nel conto corrente ordinario, sul quale affluiscono anche gli anticipi provenienti dal conto di evidenza mediante giroconto; anticipi, va evidenziato, da considerarsi alla stregua di ogni altra rimessa eseguita da terzi, e come tali revocabili nel momento in cui affluiscono sul c/c ordinario, laddove finalizzati a ridurre o estinguere uno scoperto. In senso contrario, conclude la Cassazione, non può sostenersi che l'estinzione del debito preesistente costituisca l'effetto di una compensazione ex art. 1853 c.c. tra il saldo attivo e passivo di due conti distinti, poiché: a) il conto di evidenza, come detto, non costituisce un “conto” vero e proprio; b) i rapporti tra i due conti in questione vanno inquadrati nelle categoria delle “mere operazioni di conguaglio”; c) non avrebbe senso affermare una compensazione laddove si assiste all'accredito di netti ricavi di anticipi erogati in favore del medesimo debitore, che creano corrispondenti passività su di un altro conto. Ad abundantiam, il Tribunale di Milano (in Fall. 2000, 573) ha rafforzato la tesi dell'inapplicabilità dell'art. 1853 c.c. osservando che quest'ultimo presuppone l'effettivo potere, in capo al correntista, di movimentare denaro dall'uno all'altro dei conti ivi menzionati; circostanza, questa, che non ricorre nel c/anticipi, privo di consistenza numeraria e le cui appostazioni contabili rientrano nell'esclusiva potestà della banca.
Ritenere revocabili gli accrediti delle anticipazioni significa, tra l'altro, “smontare” le relative operazioni a partire dal loro momento iniziale, disinteressandosi, in linea di principio, di quanto accade dopo. Se, infatti, il debitore anticipato paga, il relativo accredito transita solo sul c/anticipi a “rientro” del saldo passivo corrispondente, e non compare sul c/c ordinario; se il debitore non paga, l'insoluto viene addebitato su quest'ultimo, e va ad aumentare l'esposizione debitoria del correntista. In ogni caso, da un punto di vista sostanziale, l'accredito del giroconto dal c/anticipi viene equiparato in tutto e per tutto al pagamento che il debitore del correntista avrebbe eseguito sul c/c ordinario laddove non vi fosse stata alcuna anticipazione; le uniche differenze sono date dalla data della rimessa (ovviamente antergata rispetto alla scadenza originaria del debito) e dall'importo della stessa (inferiore rispetto al valore nominale del credito: in questo senso, se l'anticipo ha riguardato solo una quota di quest'ultimo, in sede di chiusura l'anticipatario avrà ovviamente diritto alla corresponsione della differenza inizialmente non anticipata).
Nel sistema del “conto unico”, invece, la revocatoria può ragionevolmente dispiegarsi sull'accredito in conto eseguito al momento della riscossione del credito da parte della banca, vale a dire nella fase terminale dell'operazione di anticipazione (nella variante del c.d. “doppio accredito” vista in precedenza, peraltro, sarà invece la prima rimessa ad essere assoggettata a revoca, poiché la seconda risulta elisa dal contestuale addebito per pari importo).
Non si può dire che, all'interno del mondo bancario e tra gli interpreti, non siano mancate voci critiche in ordine alla ricostruzione prevalente in giurisprudenza, e che non siano stati proposti modelli alternativi rispetto a quest'ultima. In particolare, si è sostenuto (anche giudizialmente) che l'atto revocabile andrebbe individuato nel pagamento eseguito dal terzo ed incassato dalla banca, il quale sì costituirebbe un vero e proprio “rientro” del preesistente credito e quindi un pagamento, alla stregua di qualunque altro incasso di crediti del correntista affluito in conto, magari tramite assegno o bonifico; inoltre, accedendo a questo ragionamento, ritenuto comunque più aderente dell'altro al disposto dell'art. 1853 c.c., si supererebbe l'imbarazzo (effettivamente percepibile “a pelle”) di sottoporre a revoca somme di denaro provenienti dalla banca stessa, e non da terzi, come normalmente accade (Tarzia, Revocatoria fallimentare delle anticipazioni “girate”, cit., 1305. Sul punto, Trib. Napoli 7 gennaio 2010, in Fall. 2010, 624). Per quanto precisato poco sopra, l'impostazione ora ricordata si adatta particolarmente bene alla fattispecie del “conto unico”, condividendone la peculiarità di spostare alla fine dell'operazione di anticipo, anziché all'inizio di questa, il trasferimento di denaro potenzialmente revocabile.
Rimane da aggiungere che l'attuale formulazione dell'art. 67, comma 3, l. fall. in materia di revoca delle rimesse in c/c sembra suggerire alcune riflessioni finali, la cui sostenibilità non potrà tuttavia essere testata, verosimilmente, nelle aule giudiziarie, poiché ormai le revocatorie di questo tipo sono rarissime, e quelle poche vengono per la maggior parte transatte in corso di causa. Da un lato, infatti, la norma in questione contempla testualmente le rimesse “effettuate su un conto corrente bancario”: ora, poiché tradizionalmente i “conti correnti bancari” sono solo quelli “ordinari”, i quali assicurano la disponibilità di denaro, e non anche quelli collaterali o di evidenza, risulta difficilmente sostenibile, in base all'art. 67, che il pagamento da revocare sarebbe quello ricevuto dalla banca a chiusura dell'anticipazione, e non invece l'accredito iniziale sul c/c ordinario (sempreché, ovviamente, non si voglia predicare anche la potenziale irrevocabilità di quest'ultimo in quanto frutto di giroconto ai sensi dell'art. 1853 c.c.). Per cercare di recuperare questa impostazione, potrebbe farsi ricorso al disposto dell'art. 70, comma 3, quasi sempre considerato unicamente come norma regolatrice e limitativa del quantum da restituire in sede di revoca, ma contenente in realtà una dizione (“atti estintivi di posizioni passive derivanti da rapporti di conto corrente o comunque rapporti continuativi o reiterati”) assai più ampia della nozione di conto corrente ordinario: orbene, laddove la revoca delle operazioni di anticipazione e, in particolare, del pagamento ricevuto dalla banca a rientro di queste ultime, venisse impostata sull'art. 70, anziché sull'art. 67, comma 3, da un lato verrebbero in rilievo anche le movimentazioni dei conti collaterali e di evidenza, mentre, dall'altro, non dovrebbero invece avere pertinenza i requisiti di “consistenza” e “durevolezza” previsti dall'art. 67, comma 3, unicamente per le rimesse su c/c ordinario di corrispondenza.
La decisione in commento, pur non dilungandosi eccessivamente nella ricostruzione teorica e funzionale delle operazioni c.d. “autoliquidanti”, enuncia peraltro alcuni principi che, anche alla luce delle brevi considerazioni sopra riportate, non possono non ritenersi corretti.
Anzitutto, l'accredito di un anticipo s.b.f. non integra certamente, di per se stesso, un “atto solutorio anormale”, come la curatela sosteneva, trattandosi in realtà del momento esecutivo di una pregressa pattuizione con causa di finanziamento, per di più soggetta a “rotatività” o comunque a frequente reiterazione, data la natura autoliquidante del rapporto bancario. Non a caso, come correttamente rileva il Tribunale, il singolo anticipo si innesta abitualmente nell'ambito di un contratto più generale tra banca e correntista, definito solitamente “castelletto” e riconducibile alla categoria del contratto-quadro, il quale ha lo scopo di disciplinare le concrete condizioni della successiva operatività e di fissare il limite massimo fino a concorrenza del quale il portafoglio del cliente può venire anticipato (o “deve” venire anticipato, se si accede alla tesi per cui la banca è tenuta ad anticipare entro il massimale pattuito, senza alcuna discrezionalità o possibilità di rifiuto in ordine a taluni crediti verso terzi).
Ancora, il Tribunale dice un'altra cosa del tutto condivisibile, quando osserva che non è comunque possibile formulare un giudizio di “anormalità” in ordine all'accredito dell'anticipo atomisticamente considerato, poiché un simile rilievo può essere tutt'al più rivolto all'intera operazione di anticipazione globalmente considerata, laddove utilizzata in modo distorto o specioso per dissimulare rapporti negoziali diversi o per raggiungere finalità solutorie di una pregressa esposizione. Il pensiero corre istintivamente alla giurisprudenza formatasi in materia di mandato all'incasso in rem propriam con contestuale patto di compensazione, inizialmente ritenuto tout court mezzo anormale di pagamento in quanto diretto a raggiungere i medesimi effetti di una cessione del credito (Cass. 19 gennaio 2006, n. 1060; Cass. 10 novembre 2005, n. 21823; Cass. 6 febbraio 1999, n. 1036; Cass. 25 luglio 1987, n. 6467), e successivamente oggetto di una ricostruzione esegetica più raffinata, che distingue l'ipotesi in cui il meccanismo mandato/compensazione ha quale scopo evidentemente solutorio l'estinzione o la riduzione di una pregressa esposizione verso la banca (atto anomalo), da quella in cui esso ha funzione di garanzia della restituzione di un debito da finanziamento contestualmente creato (atto normale). In altre parole, laddove la banca, in una situazione di normale operatività, anticipi al cliente portafoglio commerciale (divenendo quindi creditrice del relativo importo) ed ottenga contestualmente mandato irrevocabile ad incassare il credito anticipato, con correlativo patto di compensazione tra il proprio credito da finanziamento ed il proprio debito ex mandatu di restituire quanto percepito, pare davvero arduo ravvisare qualcosa di anomalo, stante altresì l'enorme diffusione di un simile modus procedendi nella pratica quotidiana (Cass. 20 giugno 2011, n. 13449. Si veda anche il recentissimo Trib. Milano (decreto), 22 maggio 2014, in ilcaso.it, per una completa disamina della struttura dell'anticipazione bancaria e per i precisi rilievi circa l'opponibilità del patto di compensazione in sede di concordato preventivo, oggetto di contrastanti pronunce della Suprema Corte: la recente Cass., Sez. I, 1 settembre 2011, n. 17999, risulta infatti di segno contrario rispetto alle precedenti Cass., Sez. I., 7 maggio 2009, n. 10548 e Cass., Sez. I, 28 agosto 1995, n. 9030).
Infine, altrettanto impeccabile deve ritenersi il rilievo svolto a chiusura dal Tribunale, secondo cui anche un'operazione di anticipazione “non anormale” come quella ora descritta rimane pur sempre un atto a titolo oneroso ai sensi dell'art. 67, secondo comma, l. fall., e come tale revocabile in toto (non solo nel suo segmento costituito dall'accredito, dunque) laddove ne ricorrano i presupposti temporali e soggettivi (Cass. 29 luglio 2009, n. 17683).
b) Il secondo punto qualificante della sentenza in commento è costituito da una serie di principi, affermati in relazione agli aspetti più controversi della nuova disciplina in materia di “revocatoria bancaria”.
Anzitutto, il Tribunale dimostra di aderire alla tesi secondo cui, anche dopo la riforma, la revoca delle rimesse in c/c può esercitarsi solo nei confronti di quelle che hanno avuto natura solutoria, vale a dire quelle che sono state destinate ad estinguere un debito liquido ed esigibile del correntista verso la banca.
In sostanza, una simile impostazione finisce per riprendere la classica distinzione tra rimesse “solutorie” e “ripristinatorie” elaborata nel tempo dalla giurisprudenza ante-riforma, dove solo le prime potevano costituire oggetto di revoca, in quanto affluivano su di un c/c passivo privo di affidamento, oppure con fido revocato, oppure ancora con un'esposizione debitoria superiore all'apertura di credito concessa al cliente (dalla pionieristica Cass. 18 ottobre 1982, n. 5413, alle più recenti Cass. 20 giugno 2011, n. 13445; Cass. 6 novembre 2007, n. 23107; Cass. 23 novembre 2005, n. 24588). Sostanzialmente, l'orientamento in esame nutre quindi la convinzione che il pre-requisito “inespresso” (la virgolettatura verrà spiegata tra breve) dell'assoggettabilità a revocatoria di un accredito in c/c continui ad essere, anche dopo il D.L. 35/2005, il carattere solutorio di quest'ultimo, con la conseguenza per cui un giudizio di consistenza e durevolezza della riduzione dell'esposizione verso la banca possa concepirsi solo all'interno delle rimesse che hanno estinto o ridotto un credito liquido ed esigibile di quest'ultima.
Va detto, peraltro, che l'entrata in vigore della riforma del 2005 è stata invece salutata dalla maggior parte degli operatori come un consapevole abbandono, da parte del legislatore, della dicotomia “rimessa solutoria – rimessa ripristinatoria”, tanto che la tesi avversata dal Tribunale di Bergamo risulta, almeno per il momento, sicuramente prevalente in giurisprudenza e tra gli autori (G. Terranova, La nuova disciplina delle revocatorie fallimentari, Padova, 2006, 28; F. Angiolini, La “nuova” revocatoria fallimentare, in Riv. not., 2005, 993 e segg.; S. Bonfatti, La disciplina della revocatoria delle rimesse su conto corrente bancario nella nuova legge fallimentare, in La disciplina dell'azione revocatoria nella nuova legge fallimentare e nei “fallimenti immobiliari”, a cura di S. Bonfatti, Milano, 2005, 117 e segg.; M. Arato, Fallimento: le nuove regole introdotte con la l. 80/2005, in Dir. fall., 2006, I, 185; B. Meoli, Vecchie e nuove esenzioni dalla revocatoria fallimentare, in Giur. comm., 2006, I, 207; G. Rebecca, La pasticciata revocatoria delle rimesse bancarie, in ilfallimentarista.it, 3 luglio 2012. In giurisprudenza, Trib. Monza, 3 settembre 2008; Trib. Milano, 25 maggio 2009, n. 6946, in Fall. 2010, 602 e segg., con nota di G. Federico; Trib. Udine, 24 febbraio 2011, n. 293, in unijuris.it; Trib. Siracusa, 20 aprile 2011, n. 453; Trib. Bologna, 4 agosto 2011, n. 2167; Trib. Ferrara, 14 maggio 2012, n. 658; App. L'Aquila 30 marzo 2011, n. 334). Addirittura, secondo un obiter dictum piuttosto recente della S.Corte, la nuova disciplina “rimuove dallo scenario esegetico il distinguo tra natura solutoria e ripristinatoria dei versamenti affluiti sul c/c” (Cass., 7 ottobre 2010, n. 20834)
La circostanza non stupisce, poiché l'affermazione della Cassazione ha dalla propria il tenore letterale della lett. b) dell'art. 67 l. fall., il quale, nel menzionare il conto corrente bancario, non aggiunge nessun'altra aggettivazione (del tipo “scoperto”, “non affidato”, o simili), legittimando l'interprete a concludere in modo esattamente opposto rispetto a quello della sentenza in esame. Inoltre, il dato testuale normativo viene istintivamente associato dal lettore del “nuovo” art. 67 all'intento di razionalizzazione che il legislatore del 2005 ha sicuramente perseguito (riuscendoci o meno è un altro discorso…) anche in relazione all'istituto della revocatoria delle rimesse in c/c, prima nemmeno mai menzionata dalla legge fallimentare, con questo suggerendo la logica conclusione per cui, se la materia è stata disciplinata per la prima volta, ciò è avvenuto proprio per fare tabula rasa della ciclopica e spesso multiforme produzione giurisprudenziale precedente: quindi, in claris non fit interpretatio, senza possibilità di ripescare l'aggettivo “solutorio” quando la norma non lo menziona affatto.
Il ragionamento del Tribunale di Bergamo, tuttavia, dimostra che un po' di interpretatio è invece sempre stimolante, e che può ricorrersi a quest'ultima senza necessariamente stravolgere il dato normativo, anzi cercando di rispettarlo. L'importante, dice la sentenza, è non focalizzarsi esclusivamente sulla lettera b) del terzo comma, e ricordarsi che quest'ultima (alla stregua di tutte le altre lettere del terzo comma) é stata concepita come un'eccezione alla regola riconfermata invece dal secondo comma dell'art. 67, secondo cui sono soggetti a revocatoria i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili compiuti nei sei mesi antecedenti il fallimento. Ora, quando un accredito in c/c va a ripagare un debito liquido ed esigibile della banca verso il correntista? Meglio ancora, quando la banca vanta un credito liquido ed esigibile verso il proprio cliente? Tendenzialmente, allorché il c/c è in passivo senza fido (quindi è “scoperto”), oppure ha un'esposizione superiore all'affidamento concesso, oppure ancora non beneficia più di alcuna facilitazione creditizia, essendo questa stata revocata (formalmente o anche sostanzialmente, come nel caso del conto “congelato”); per contro, quando il correntista si muove entro il fido concesso, la banca non ha un credito esigibile nei suoi confronti, a meno che non receda dall'affidamento (cfr. G. Tarzia, I contratti bancari di credito tipici e atipici, in Fall. 2005, 303; A. Nigro, Revocatoria delle rimesse in conto corrente e posizione della banca nei rapporti di concessione di credito, in Giur. comm., 1980, I, 301). Naturalmente, dall'art. 67 possono evincersi anche dati testuali e sistematici in contrasto con la tesi del Tribunale di Bergamo: ad esempio, la scelta dei termini compiuta dal D.L. 35/2005 potrebbe dimostrare che le rimesse in c/c non sono considerate pagamenti né assimilate a questi ultimi (Terranova, La nuova disciplina, cit., 28), tanto da meritare una menzione ed una disciplina a sé stanti. Ancora, la lett. b) del terzo comma potrebbe venire letta come completamente disarticolata rispetto alla disciplina del secondo comma, in quanto volutamente concepita per istituire una specifica regolamentazione della materia delle rimesse del tutto autosufficiente e refrattaria a coinvolgimenti sistematici reperibili aliunde (Silvestrini, La nuova disciplina della revocatoria, cit., 847; Tarzia, Le esenzioni, cit., 841). Si tratta, anche in questo caso, di argomento sicuramente “futuribile” quanto a sviluppo esegetico-applicativo, sul quale sarebbe interessante, prima o poi, registrare un intervento della S. Corte. La pronuncia in esame si misura poi con i requisiti posti dalla lettera b) dell'art. 67 per poter sottoporre a revoca le rimesse in c/c. Preliminarmente, va notato come i termini “consistente” e “durevole” non siano riferiti alle rimesse in sé, bensì all'effetto che queste producono sull'esposizione debitoria. Il distinguo può apparire perlopiù superfluo, ma ha una sua ragion d'essere in quei casi-limite dove un'interpretazione speciosa potrebbe condurre a risultati iniqui. Si pensi ad un c/c con fido revocato ed uno scoperto di € 50.000=, non più movimentato quanto a prelievi, dove affluiscono nove rimesse di € 3.000= l'una: qui la durevolezza è in re ipsa, ma potrebbe obiettarsi che ogni rimessa singolarmente considerata non è “consistente”, quando in realtà la consistenza è sicuramente insita proprio nell'effetto che l'insieme di tali accrediti produce sull'esposizione debitoria (A Castiello d'Antonio, La revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente e degli atti estintivi dei rapporti continuativi o reiterati, in Dir. fall., 2006, 645). Va condiviso, quindi, il pensiero di chi afferma la sopravvenuta necessità di una valutazione non più atomistica di ogni singolo accredito isolatamente considerato, bensì complessiva o “di durata” dell'intero rapporto così come articolatosi nel periodo interessato dalla revocatoria (Patti, L'esenzione da revocatoria, cit., 240).
Circa la “durevolezza” dell'effetto, è stato persuasivamente osservato che l'accezione del termine richiama un'ovvia dimensione cronologica, da cui non deve però ritenersi aliena anche una componente logico-funzionale (Patti, L'esenzione da revocatoria, cit., 241). La riduzione, quindi, deve anzitutto presentare un requisito di sostanziale “stabilità” nel fluire del c/c, cioè “durare” un tempo significativo; il che non equivale, ovviamente, ad esigerne la “definitività”, poiché in tal caso le uniche concrete ipotesi applicative della norma consisterebbero in accrediti affluiti su un c/c con fido revocato o comunque “congelato” di fatto, senza cioè alcuna movimentazione in addebito ad esclusione di quelle per così dire “automatiche” (interessi, spese, commissioni). L'individuazione del dato cronologico più appropriato, in questa prospettiva, rifugge ovviamente da assolutizzazioni precise e puntuali (un giorno – una settimana – un mese, o simili), ma evoca necessariamente una relatività di giudizio, il cui principale referente non può non essere costituito dall'andamento del conto e dalla normale operatività del medesimo (F. Clemente, La durevolezza nella revocatoria delle rimesse bancarie: ipotesi applicative, in questa Rivista, 30 aprile 2013; G. Rebecca, Revocatoria delle rimesse bancarie: la durevolezza – particolarità, ivi, 20 novembre 2012). Pertanto, per un c/c abitualmente movimentato con numerose operazioni infragiornaliere di segno opposto, anche pochi giorni di stabilità delle ultime rimesse possono costituire un elemento apprezzabile in ordine alla durevolezza dell'effetto, soprattutto laddove il trend di rarefazione venga confermato anche a posteriori e non si tratti, ad esempio, del mese di agosto; per contro, un conto caratterizzato da 3-4 movimentazioni alla settimana (ammesso che esista) necessiterà di intervalli ben più significativi per poter anche solo adombrare una riduzione durevole.
La stabilità della riduzione, peraltro, può riconnettersi anche a considerazioni più logiche che cronologiche, come accennato in precedenza: può infatti accadere che un dato accredito risulti funzionalmente collegato ad un successivo addebito pur posticipato di qualche (ma non troppo) tempo, in virtù di un previo accordo tra banca e cliente. In questa situazione, che richiama immediatamente la nozione di “rimessa bilanciata” elaborata dalla giurisprudenza ante-riforma (Cass. 17 ottobre 2005, n. 20101; Cass. 21 maggio 2004, n. 9698; Cass. 26 gennaio 1999, n. 686), l'irrevocabilità dell'accredito scaturisce dal suo essere finalizzato a priori ad un dato utilizzo, del quale si pone quale necessario antecedente logico e di creazione della provvista. In questo panorama, il Tribunale di Bergamo si “smarca” da entrambe le posizioni più estremistiche (“è durevole ciò che è definitivo”; “è durevole tutto ciò che non costituisce il frutto di bilanciamento”) per accreditare una ragionevole via di mezzo fondata sul già ricordato criterio di “apprezzabile stabilità”, necessariamente modulato sulle concrete modalità di andamento del conto ed arricchito da ogni possibile elemento cognitivo acquisito al giudizio, anche in relazione alla scientia decoctionis (una rarefazione delle movimentazioni potrebbe acquisire maggiore pregnanza se osservata in concomitanza con l'emergere di percepibili difficoltà del correntista).
Anche la “consistenza” della riduzione è un concetto estraneo a criteri quantitativi assolutizzanti, che invece, quantomeno inizialmente, qualche opinione sembrava sostenere (secondo N. Abriani-L. Quagliotti, An e quantum della “novissima” revocatoria delle rimesse bancarie, in Fall. 2008, 377, andrebbe ritenuta consistente una riduzione pari al 25% dell'esposizione, poiché i termini “notevole” ex art. 67, primo comma, n. 1 e “consistente” devono ritenersi sinonimi). Appare intuitivo che l'evocazione, da parte del legislatore, di un requisito quantitativo ispirato a misure “corpose” si ricolleghi all'esigenza di sanzionare esclusivamente le lesioni più ragguardevoli al principio della par condicio, e di un simile dato occorre sicuramente tenere debito conto nella ricerca di un filo conduttore. Tuttavia, come la pronuncia in esame correttamente osserva,
la visione complessiva del passivo fallimentare e l'analisi della sua composizione non possono costituire un efficace metro di giudizio, poiché una rimessa di importo oggettivamente rilevante, se raffrontata ad un dissesto complessivo di centinaia di milioni di euro, illanguidisce quanto ad importanza e rischia di rimanere sostanzialmente inertizzata, sotto il profilo della lesione della par condicio, proprio dalle dimensioni del passivo stesso. Così come per la nozione di “durevolezza”, quindi, i criteri di apprezzamento della consistenza vanno ricercati all'interno del rapporto di conto corrente, più che al suo esterno, anche perché solo in questo modo risulta possibile formarsi un giudizio tendenzialmente corretto sul sacrificio patrimoniale che potrebbe venire addossato alla banca in termini di obblighi restitutori (non va dimenticato che, secondo una tesi, l'espressione “consistente e durevole” andrebbe letta come una sostanziale endiadi, con la conseguenza per cui il rientro idoneo a soddisfare entrambi i requisiti sarebbe quello individuato dall'art. 70, comma 3: così S. Vincre, Le nuove norme sulla revocatoria fallimentare, in Riv. dir. proc., 2005, 883).
Nel corso degli anni si è quindi andata sviluppando una progressiva raffinazione delle tecniche di individuazione della “rimessa consistente” (anche se, come già osservato in precedenza, la consistenza è un attributo della riduzione, non della rimessa in sé), che ha condotto all'emersione di una serie di indici generalmente ritenuti significativi per un'analisi comparativa, quali l'entità massima dell'esposizione debitoria del c/c tanto nel semestre anteriore al fallimento, quanto al momento dell'afflusso degli accrediti, l'ammontare medio di questi ultimi (ed eventualmente anche degli addebiti), l'importo massimo restituibile dalla banca in forza del disposto dell'art. 70, ult. comma (P. Pajardi-A. Paluchowski, Codice del fallimento, Milano, 2009; Galletti, Le nuove esenzioni, cit., 180; Tarzia, Le esenzioni, cit., 841). Attraverso la contemporanea valutazione di simili criteri, quindi, il CTU investito del relativo quesito giudiziale dovrebbe trovarsi in grado di fornire una risposta ragionevolmente sostenibile, soprattutto laddove quest'ultima risulti declinata secondo modalità tra loro diverse ed alternative, in modo da consentire al Tribunale una scelta secondo criteri più propriamente giuridici e, tutto sommato, anche equitativi (sui possibili criteri G. Rebecca, Revocatoria delle rimesse bancarie: la consistenza – particolarità, in ilfallimentarista.it, 19 settembre 2012). Come la pronuncia in esame riconosce, infatti, la completa indeterminatezza dell'art. 67 con riferimento alla nozione di “consistenza” determina quale inevitabile contraltare un notevole grado di discrezionalità del giudice nell'apprezzamento delle circostanze di fatto, rispetto al quale i parametri tecnico-contabili descritti poco sopra possono costituire un punto di riferimento, ma non certo integrare di per se stessi il contenuto argomentativo della decisione (Clemente, La durevolezza nella revocatoria, cit., dove il riferimento all'artigianale “colpo d'occhio” su ogni specifica situazione). Mai come in questo caso, ad avviso di chi scrive, risulteranno alla fine decisive l'esperienza e la preparazione specifica del magistrato nelle materie di riferimento (fallimentare e bancaria), nonché una indispensabile dose di buon senso per evitare decisioni eccessivamente sbilanciate o comunque non in sintonia con il “nuovo” spirito che, dopo la riforma del 2005, anima la revocatoria delle rimesse in c/c.

Questioni aperte

Tutte le principali questioni toccate dalla pronuncia in esame, relativamente all'attuale regime della revocatoria fallimentare delle rimesse in c/c, sono a ben vedere un work in progress: rilevanza o meno dell'affidamento, individuazione della “durevolezza”, determinazione della “consistenza”. Paradossalmente, però, il frutto del work in questione rischia di rimanere in progress assai a lungo, passando direttamente dall'essere acerbo all'avvizzire senza maturare mai, perché ormai scarseggiano le pronunce in materia (si vedano le statistiche circa l'effetto deflattivo prodotto dalla riforma sulle revocatorie fallimentari riportate da Menti, La revoca delle rimesse bancarie, cit., 1279): senza adeguati provvedimenti giudiziali l'elaborazione degli interpreti rimane fine a se stessa e purtroppo si involve, divenendo tralatizia e talvolta approssimativa. Chi ha seguito, anche in concreto, l'evolversi delle c.d. “revocatorie bancarie” nel corso degli ultimi decenni, non può che augurarsi una rivitalizzazione dell'argomento, pur nella consapevolezza di quanto una simile speranza appaia oggi inevitabilmente tenue.

Conclusioni

Come brevemente osservato in precedenza, le risposte date dal Tribunale di Bergamo alle principali questioni poste dall'attuale disciplina della revocatoria delle rimesse in c/c risultano sostanzialmente ragionevoli e sorrette da un filo conduttore logicamente coerente. Sarà interessante seguire la successiva elaborazione giurisprudenziale, auspicabilmente anche in sede di legittimità, per verificare i progressi nella messa a punto di un sistema di regole sufficientemente certo ed affidabile, tale da garantire agli operatori economici una sostanziale “prevedibilità” ex ante circa le conseguenze di determinati comportamenti o tecniche operative da adottarsi concretamente nella quotidiana gestione dei rapporti.

Minimi riferimenti normativi e giurisprudenziali

Per ragioni di comodità espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto preferibile inserire i riferimenti giurisprudenziali e dottrinali direttamente all'interno del commento.

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