Oneri probatori nella revocatoria delle rimesse su c/c bancario

07 Novembre 2014

La banca convenuta in giudizio con azione revocatoria fallimentare avente ad oggetto le rimesse sul conto corrente operate dal fallito, non ha l'onere, né in base all'art. 119 del D.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, né in base al principio di buona fede, di produrre la documentazione bancaria allo scopo di dimostrare quale fosse la situazione del conto al momento delle rimesse, fermo restando l'obbligo di provvedere alla relativa esibizione ove questa sia ordinata dal giudice.
Massima

La banca convenuta in giudizio con azione revocatoria fallimentare avente ad oggetto le rimesse sul conto corrente operate dal fallito, non ha l'onere, né in base all'art. 119 del D.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, né in base al principio di buona fede, di produrre la documentazione bancaria allo scopo di dimostrare quale fosse la situazione del conto al momento delle rimesse, fermo restando l'obbligo di provvedere alla relativa esibizione ove questa sia ordinata dal giudice.

Il caso

Con la pronuncia in commento la Suprema Corte affronta il tema della revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente bancario, sotto il profilo specifico degli oneri probatori.
In via preliminare, conviene ricostruire brevemente i tratti salienti della vicenda, originatasi nell'ambito di una procedura iniziata prima dell'entrata in vigore del D.l. 14 marzo 2005, n. 35, e rispetto alla quale trova, quindi, applicazione la disciplina dell'azione revocatoria fallimentare nella formulazione precedente all'entrata in vigore di detto decreto (il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, poi convertito nella L. 14 maggio 2005, n. 80, prevede infatti che l'art. 67 l. fall. si applichi, nella sua nuova formulazione, soltanto alle azioni revocatorie fallimentari proposte nell'ambito di procedure iniziate dopo la data di entrata in vigore del decreto stesso; analoga disciplina transitoria si ritrova all'art. 22 del D.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, che ha parzialmente modificato l'art. 70 l. fall.; ciononostante, non è mancato in dottrina chi ha attribuito alla nuova disciplina sulla revocabilità delle rimesse bancarie una valenza interpretativa: cfr. G.OLIVIERI, La revocatoria dei pagamenti, in Banca borsa, 2007, I, 528; E.GRANATA, Le nuove procedure concorsuali per la prevenzione e la sistemazione delle crisi di impresa, in Quad. giur. comm., 2006, 47 ss.)..
In primo grado, dinanzi il Tribunale di Livorno, la curatela proponeva azione revocatoria fallimentare avverso due rimesse su conto corrente bancario effettuate dal fallito nell'anno precedente all'ammissione al concordato preventivo, poi sfociato in fallimento. Il Tribunale accoglieva parzialmente la domanda.
Avverso la sentenza di primo grado proponeva appello la banca. Tuttavia, la Corte di Appello di Firenze rigettava l'appello proposto e riteneva adeguatamente assolti dal curatore gli oneri probatori su di esso gravanti, giudicando in particolare che:
a) la natura solutoria delle rimesse (e quindi la loro revocabilità) risultasse tanto dal fatto che, alla chiusura, il conto registrava un saldo negativo, quanto dal comportamento tenuto dalla Banca; questa, infatti, non aveva trasmesso al curatore gli estratti conto anteriori alla chiusura del conto, in contrasto con la normativa che impone all'istituto di credito l'obbligo di comunicare al cliente (e per lui al curatore) la documentazione bancaria relativa agli ultimi dieci anni, ed inoltre, in contrasto con il generale principio di buona fede, aveva mancato di “collaborare” al fine di colmare le eventuali carenze della prova offerta dalla curatela (v. mancata indicazione degli estremi del conto corrente bancario);
b) la prova della conoscenza dello stato di insolvenza emergesse dal comportamento dell'istituto di credito che, pochi giorni dopo le consistenti rimesse, aveva esercitato il diritto di recesso; inoltre, in una sua lettera, la banca dava prova di essere a conoscenza del fatto che, già due anni prima che il fallito venisse ammesso alla procedura di concordato, questi aveva subito grosse perdite economiche.
L'istituto di credito proponeva ricorso per cassazione, in accoglimento del quale la Suprema Corte si è pronunciata con la sentenza in commento.
Il Supremo Collegio ha cassato la sentenza di secondo grado e, pronunciandosi nel merito, ha respinto la domanda di revocatoria fallimentare delle rimesse, ritenendone non provata la natura solutoria. In particolare, la Corte chiarisce che il curatore che agisce in revocatoria fallimentare è tenuto a fornire la prova tanto della conoscenza dello stato di insolvenza, quanto della natura solutoria delle rimesse. Di conseguenza, afferma testualmente la Corte, “eventuali carenze della prova offerta dal curatore non possono essere superate con uno spostamento dell'onere della prova” (cfr. G. TARZIA, Le azioni revocatorie nelle procedure concorsuali, Torino, 2003, 233 ss.). Nel caso di specie, la Corte esclude che la scopertura del conto possa ritenersi provata dalla presenza di elementi (non certi), che pure sembrerebbero deporre in tal senso. Neppure il riferimento agli obblighi di comunicazione gravanti sugli istituti di credito o il richiamo al principio di buona fede consentirebbero di invertire l'onere probatorio e di porlo a carico della banca, la quale è obbligata a produrre la documentazione solo ove ciò le sia ordinato dal giudice (l'istanza di esibizione, rigettata in primo grado, non era stata riproposta come motivo di appello) e non, spontaneamente e in buona fede, per colmare le carenze probatorie dell'avversario.

Le questioni giuridiche

Il tema della revocatoria delle rimesse bancarie ha costituito uno dei punti nodali del dibattito sulla revocatoria fallimentare (cfr. G. GUERRIERI, sub. art. 67 l. fall., in MAFFEI ALBERTI, Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2013, 431 ss.; M. ARATO, Operazioni bancarie in conto corrente e revocatoria fallimentare delle rimesse, in Quad. giur. comm., Milano, 1995, 115 ss.; S.BONFATTI-G.FALCONE, La riforma urgente del diritto fallimentare e le banche. Problemi risolti e irrisolti, Milano, 2003, 33 ss.; V. PAPAGNI, Azione revocatoria fallimentare dopo le recenti riforme, Milano, 2013, 118 ss.; G. TARZIA, Le azioni revocatorie, cit., 163 ss. Importante la ricostruzione di G. TERRANOVA, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in Comm. Scialoja-Branca. Legge fallimentare., Art. 67,GALGANO (a cura di), Torino, 2002, III, 204 ss., secondo il quale la stessa idea della revocabilità delle rimesse andrebbe ripensata in una prospettiva dinamica. L'A. osserva come, da un lato, debbano distinguersi le diverse fasi della vita del rapporto di conto corrente e come, dall'altro, risulti “più consono alle esigenze della prassi e, in definitiva, più equo, sottoporre le attività reiterative e complesse ad un trattamento revocatorio differente da quello che di solito si riserva alle operazioni isolate […]”).
Tale dibattito e le numerose pronunce sul tema hanno riguardato diversi aspetti della questione. E cioè, in primo luogo, la stessa revocabilità delle rimesse in conto corrente (per la revocabilità di tutte le rimesse, cfr. Cass. S.U., 15 aprile 1976, n. 1333; Cass., 20 ottobre 1975, n. 3415; Cass., 18 marzo 1975, n. 1043. Per la distinzione tra rimesse revocabili e non, cfr. le innumerevoli pronunce, che hanno seguito quella più nota del 1982, tra cui Cass., 6 novembre 2007, n. 23107; Cass., 23 novembre 2005, n. 24588; Cass., 9 dicembre 2004, n. 23006; Cass., 20 giugno 2011, n. 13445); quindi, la determinazione dell'esposizione debitoria (il riferimento è alla questione se il saldo di riferimento sia quello per valuta - cfr. Cass., 29 luglio 1992, n.9064; Cass., 15 maggio 1991, n. 5448; Cass., 29 maggio 1990, n. 5023 -, quello contabile - cfr. Trib. Torino, 21 gennaio 1992, in Fall., 1992, 535; App. Milano, 20 gennaio 1987, in Banca borsa, 1987, II, 404 -, o, secondo l'orientamento più recente, quello disponibile - cfr. Cass., 4 maggio 2012, n. 6789; Cass., 15 luglio 2010, n. 16608; Cass., 6 novembre 2007, n. 23107; App. Roma, 17 ottobre 2011, n. 4309. Sul punto cfr. G. TARZIA, Le azioni revocatorie, cit., 173 ss.e, più direttamente, 191 ss), l'individuazione delle rimesse revocabili (il riferimento è al problema della revocabilità delle rimesse provenienti da un terzo. Sul tema cfr. S.BONFATTI-G.FALCONE, op. cit., 622; G. GUERRIERI, sub art. 67 l.fall., cit., 434) e la qualificazione della loro natura (solutoria o ripristinatoria). Il legislatore è poi intervenuto nel 2005 (d.l. 35/2005), introducendo al terzo comma dell'art. 67 l. fall. specifiche ipotesi di esenzione, tra cui appunto le rimesse effettuate su conto corrente bancario (lett. b), salvo che “abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l'esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca” (nel qual caso esse saranno revocabili; la formulazione generica ed il riferimento ai criteri della “consistenza” e della “durevolezza” hanno posto numerosi dubbi interpretativi. Cfr. L. GUGLIELMUCCI, Diritto fallimentare, 6a ed. (a cura di Padovini), Torino, 2014, 158, secondo il quale il senso della disposizione sarebbe quello di volere esentare le rimesse effettuate nell'ambito di un andamento normale del rapporto di conto corrente. In virtù di questo andamento l'esposizione non verrebbe mai a ridursi appunto in maniera consistente, ma “può tutt'al più ridursi in qualche peraltro modesta misura per effetto delle variabili esigenze di cassa nel quadro dell'ordinaria gestione dell'impresa”).
Il legislatore è poi intervenuto nel 2007 (d.lgs. 169/2007) limitandosi a ritoccare il disposto dell'art. 70 l. fall. che, al suo terzo comma, recepisce la regola c.d. del “massimo scoperto” (la soluzione al problema del rapporto tra le due disposizioni si pone in stretta connessione con quello della retroattività della nuova normativa. Secondo Cass., 7 ottobre 2010, n. 20834, in Foro it., 2010, 12, I, 3315, “il disposto dell'art. 70 l. fall. ha natura innovativa e non di interpretazione autentica, e non ha perciò efficacia retroattiva”. A. NIGRO-D.VATTERMOLI, op. cit., 167, ipotizzano che la funzione dell'art. 70 l. fall. potrebbe essere quella di delimitare l'ambito di operatività dell'art. 67, nel senso che la pronuncia di revoca riguarderebbe tutte le rimesse che abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l'esposizione debitoria, mentre l'obbligazione restitutoria sarebbe da calcolarsi secondo la regola del massimo scoperto. Per una lettura critica del D.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, con specifico riferimento all'integrazione dell'art. 70, terzo comma, l.fall., cfr. P. MENTI, La revoca delle rimesse bancarie dopo il decreto correttivo della riforma fallimentare, in Fall., 2007, XI, 1279 ss. Sulla portata della nuova formulazione dell'art. 70, comma 3, l. fall. e sulle principali questioni inerenti l'ambito di applicazione dello stesso cfr. G. GUERRIERI, sub art. 67 l.fall., cit., 432; ID., sub art. 70 l. fall., cit., 454).
La pronuncia in commento offre lo spunto per affrontare un altro importante aspetto dell'azione revocatoria fallimentare: la ripartizione dell'onere della prova.
Preliminarmente, conviene ricordare quel filone giurisprudenziale, inaugurato dalla pronuncia della Cassazione del 1982, secondo il quale sono revocabili soltanto quelle rimesse che hanno natura solutoria, perché effettuate su un conto scoperto (il richiamo è alla sentenza 18 ottobre 1982, n. 5413, in cui la Suprema Corte inaugurò un nuovo orientamento in tema di revocatoria di rimesse bancarie adottando una soluzione di compromesso: cfr. F. BONELLI, La revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente bancario: la giurisprudenza della Cassazione a partire dal 1982, in Giur. comm., 1987, I, 217. Fino ad allora, si erano registrati in dottrina e in giurisprudenza due orientamenti principali: secondo un primo orientamento, tutte le rimesse affluite su un conto corrente con saldo debitore sarebbero state revocabili; un secondo orientamento limitava, invece, la revocabilità delle rimesse alla differenza tra l'esposizione massima raggiunta nel momento in cui la banca era venuta a conoscenza dello stato di insolvenza del correntista e il saldo risultante alla chiusura del conto. Per una ricostruzione dell'evoluzione giurisprudenziale sul tema cfr. M. ARATO, Operazioni bancarie, cit., 132 ss.; F. BONELLI, Relazione al convegno svoltosi il 17-19 ottobre 1986 al CIS, in La revocatoria fallimentare dei versamenti in conto corrente bancario - Atti del convegno , Padova, 1987, 41 ss. In giurisprudenza cfr. Cass., 26 febbraio 1999, n. 1672; Cass., 11 settembre 1998, n. 9018; Cass., 17 luglio 1997, n. 6558; e, più recentemente, Cass., 23 novembre 2005, n. 24588; Cass. 15 luglio 2010, n. 16608; Trib. Palermo, 22 gennaio 2013.). Al contrario, non sarebbero revocabili le rimesse meramente ripristinatorie di un fido concesso dalla banca. Tenuto conto di questa differenza di fondo, della disciplina, così come può essere desunta dal coordinamento degli artt. 67, terzo comma, e 70, terzo comma, l. fall. e della disciplina transitoria di cui ai decreti correttivi del 2005 e del 2007, si pone il problema di comprendere se gravi sulla curatela l'onere di provare, oltre alla conoscenza dello stato di insolvenza, anche la natura solutoria delle rimesse oggetto di revocatoria.
Prima dell'intervento legislativo del 2005, la revocabilità delle rimesse bancarie su conto corrente, ove ammessa, si fondava sull'equivalenza fra rimessa ed atto solutorio. Ed infatti, la versione precedente dell'art. 67 l. fall. non conteneva alcun riferimento specifico alle rimesse, la cui disciplina era quindi ricavata dal secondo comma, che considera revocabili “i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili e gli atti a titolo oneroso”. Atteso l'orientamento inaugurato con la già citata sentenza del 1982, la qualificazione della rimessa come solutoria dipendeva dall'esistenza di un conto “scoperto”, e cioè non assistito da apertura di credito, oppure assistito da un'apertura di credito a termine già scaduta, oppure un conto che registrasse uno sconfinamento del correntista rispetto al fido concesso.
Non vi era unanimità di opinioni su chi dovesse sopportare quest'ulteriore onere della prova. Se cioè dovesse essere il curatore a fornire la prova della natura solutoria delle rimesse ovvero se spettasse alla banca l'onere di provare l'esistenza di un'apertura di credito e, quindi, la natura meramente ripristinatoria delle rimesse. La questione non mancava di avere riflessi sociali ed economici per l'evidente peso degli istituti di credito rispetto alla crisi dell'impresa (l'ammontare complessivo dei crediti vantati dalle banche, e soggetti al rischio di revocatoria, rappresenta una posta significativa del bilancio delle aziende. Osserva G. BOZZA, L'azione revocatoria nel fallimento, in Giur. Comm., 2013, V, 1026, che, nel vigore della precedente normativa, la revocatoria fallimentare delle rimesse bancarie era diventata uno strumento di “facile” finanziamento delle curatele fallimentari. D'altra parte, le modifiche hanno incontrato le critiche di chi ha, invece, letto nel favor assegnato alle banche una violazione del principio di parità di trattamento rispetto agli altri creditori, cfr. G. BOZZA, cit., 1026 e in questo senso anche A. NIGRO-D. VATTERMOLI, op. cit., 165, che vi leggono una sorta di ius singulare in termini di vera e propria immunità in favore delle banche e dei rapporti bancari. In giurisprudenza, cfr. Cass., 7 ottobre 2010, n. 20834, cit., secondo cui “il complessivo assetto dell'istituto” pare “ispirato ad indiscusso favor per la stabilità dei rapporti bancari”. Gli interventi modificativi del 2005 e del 2007 segnano un mutamento nella concezione stessa dell'azione revocatoria e nel trattamento da riservare a protezione di coloro che, con prestazioni di tipo diverso, hanno consentito la sopravvivenza dell'impresa in crisi. In quest'ottica di garanzia della continuità aziendale e di “temperamento” del principio della par condicio creditorum - cfr. Cass., 7 ottobre 2010, n. 20834, cit., secondo cui il complessivo impianto dell'azione “pone in posizione recessiva la regola della par condicio creditorum” -, il legislatore ha introdotto specifiche ipotesi di esenzione, tra le quali, si è già detto, quella relativa alle rimesse bancarie su conto corrente. Tuttavia, anche dopo gli interventi normativi richiamati, il problema della natura delle rimesse e del relativo onere della prova ha continuato a porsi tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, specie nell'ambito delle procedure iniziate prima dell'entrata in vigore dei decreti modificativi del 2005 e del 2007, cui, in via transitoria, continua ad applicarsi la disciplina previgente. Sull'irretroattività della nuova normativa, cfr. Cass., 7 ottobre 2010, n. 20834, cit.; Cass. 8 giugno 2012, n. 9375)..
In dottrina si ravvisavano principalmente due orientamenti.
Secondo una corrente (talora etichettata come “filo-bancaria”), di poco successiva alla pronuncia del 1982, sarebbe stato possibile dedurre già dal secondo comma dell'art. 67 l. fall. un onere probatorio aggiuntivo per il curatore: l'onere di provare la natura solutoria delle rimesse (G. TARZIA, Le azioni revocatorie, cit., 234 ss., esprime qualche perplessità rispetto a quella giurisprudenza che fa incombere sulla banca convenuta l'onere di provare la natura solutoria delle rimesse. Ed infatti, afferma l'A., non potendosi presumere a priori la natura ripristinatoria o solutoria della rimessa, sarebbe semmai onere di chi agisce in giudizio, e quindi del curatore, dimostrare che il correntista ha effettuato un “pagamento revocabile” e, quindi, dimostrare che vi è stata una rimessa solutoria, «perché solo in tal caso l'oggetto dell'impugnazione sarebbe equiparabile ai “pagamenti di debiti liquidi ed esigibili” menzionati dalla norma dell'art. 67, secondo comma, l. fall.». Osserva l'A., senza per questo retrocedere dalla propria posizione, che, d'altra parte, questo vorrebbe dire far gravare sul curatore il ben più difficile onere di provare un dato negativo, ovvero che la rimessa è affluita su un conto non assistito da apertura di credito, o da aperture inferiore al saldo passivo).
Quest'opinione incontrava la critica di chi riteneva che essa urtasse con la stessa distinzione tra conti “passivi” e conti “scoperti”, delineata dalla Cassazione nel 1982 (non infrequente era il timore che un'eccessiva “protezione” a favore delle banche, attuata anche tramite la ridotta operatività della revocatoria delle rimesse su conto corrente, finisse per tradire la logica della revocatoria e annacquare il principio cardine della par condicio creditorum: cfr. P. PAJARDI, Noterelle etico-sociologiche intorno alla revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente bancario, Intervento al convegno svoltosi il 17-19 ottobre 1986 al CIS, in La revocatoria fallimentare dei versamenti in conto corrente bancario - Atti del convegno , Padova, 1987, 203 ss.), e finisse per addossare al curatore una diabolica probatio, a tutto vantaggio delle banche (secondo F. LAMANNA, Critica degli orientamenti interpretativi «filo-bancari» in tema di revocatoria delle rimesse in conto corrente, in relazione all'attuale giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, Intervento al convegno svoltosi il 17-19 ottobre 1986 al CIS, in La revocatoria fallimentare dei versamenti in conto corrente bancario - Atti del convegno, Padova, 1987, 181 ss, essendo la rimessa un atto giuridico in senso stretto e, pertanto, insensibile all'intento volontaristico delle parti, avrebbe dovuto aversi riguardo alla causa contrattuale sottostante. Ove tale causa fosse stata quella dell'apertura di credito, la rimessa avrebbe avuto natura ripristinatoria coerentemente con quanto chiarito dalla Suprema Corte; ove, invece, il conto fosse stato scoperto, la causa dell'apertura di credito avrebbe dovuto escludersi, non potendosi ritenere che l'occasionale tolleranza dimostrata dalla banca di fronte a sconfinamenti e scoperture potesse implicare una tacita concessione di un'apertura di credito a favore del correntista). Piuttosto, si riteneva che, in caso di conto “scoperto”, la natura solutoria della rimessa fosse una conseguenza naturale, data l'immediata esigibilità del credito da parte della banca. L'istituto di credito convenuto in revocatoria avrebbe quindi avuto l'onere di dimostrare (critico G. TARZIA, Intervento al convegno, op. cit., 32 ss., secondo il quale l'immediata esigibilità dello sconfinamento rispetto al fido concesso contrasterebbe con l'art. 1855 c.c. che, secondo l'Autore, porrebbe il recesso come condizione di esigibilità del credito), eventualmente, che la rimessa aveva natura meramente ripristinatoria (ad es. per un accordo precedente con il cliente, con cui veniva concesso un fido o aumentato il tetto di quello già concesso). Soltanto nel caso di conti “passivi” avrebbe gravato sul curatore l'onere di provare la natura solutoria delle rimesse (cfr. F. LAMANNA, op. cit.,181 ss.).
In giurisprudenza è possibile registrare un orientamento pressoché costante sulla questione della prova del presupposto oggettivo della revocatoria fallimentare delle rimesse bancarie. In base al generale disposto dell'art. 2697 c.c., la maggior parte delle pronunce pongono in capo alla banca l'onere della prova delle circostanze atte ad escludere la natura solutoria delle rimesse (dimostrando l'esistenza di un'apertura di credito e l'esatto ammontare del fido concesso), mentre graverebbe sulla curatela l'onere di provare, oltre alla conoscenza dello stato di insolvenza, anche il fatto che le rimesse siano state effettuate nel periodo sospetto (cfr. Cass., 23 giugno 1994, n. 6031; Cass., 26 febbraio 1999, n. 1672; Cass., 11 settembre 1998, n. 9018; Cass., 1 ottobre 2002, n. 14087; Cass., 9 novembre 2007, n. 23393; Trib. Napoli, 7 gennaio 2010, in Fall., 2010, 624; Trib. Palermo, 22 novembre 2012, cit. Secondo Cass., 5 dicembre 1996, n. 10848, la prova della natura solutoria non sarebbe elemento costitutivo della fattispecie dedotta in giudizio dalla curatela, ma piuttosto atterrebbe all'eccezione sollevata dalla banca, «alla quale, pertanto, compete l'onere di dimostrare quel rapporto negoziale, nelle sue componenti e nei suoi limiti, che avrebbe fatto escludere l'elemento oggettivo della proposta azione revocatoria»).
La pronuncia in commento si distacca dall'orientamento appena richiamato e pone, invece, in capo alla curatela anche l'onere della prova della natura solutoria delle rimesse.
Occorre considerare, infine, che, alla luce della nuova formulazione degli artt. 67 e 70 l. fall., la distinzione tra rimesse su conto corrente scoperto e rimesse su conto corrente passivo si ritiene superata (in favore di una loro valutazione unitaria; in mancanza di prova contraria, scatterebbe l'obbligo di restituzione secondo il criterio c.d. del “massimo scoperto”: cfr. Cass., 7 ottobre 2010, n. 20834, cit. Secondo A. PATTI, op. cit., 274 ss., un argomento testuale nel senso del superamento della distinzione tra scopertura e mera passività del conto, deriverebbe proprio dalla nuova formulazione dell'art. 70, terzo comma, l. fall., che si riferisce oggi agli atti estintivi di posizioni passive in conto corrente. Ancor più chiaramente, L. GUGLIELMUCCI, op. cit., 158 ss., secondo il quale la distinzione in parola era strettamente legata al criterio c.d. della sommatoria. Secondo l'A., “seguendo il criterio del massimo scoperto fatto proprio dalla riforma, l'esposizione debitoria va valutata con riferimento alla data del fallimento allorché assume il carattere della definitività e individua il rientro effettivo conseguito dalla banca attraverso l'insieme delle rimesse confluite sul conto nel periodo di riferimento, rientro che comporta violazione del principio della par condicio”. Nello stesso senso cfr. A. NIGRO-D.VATTERMOLI, op. cit, 166), con evidenti ricadute sull'onere probatorio (per le procedure iniziate dopo l'entrata in vigore dei decreti modificativi, graverebbe sull'istituto di credito l'onere di provare che le rimesse non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l'esposizione debitoria, mentre il curatore dovrebbe dimostrare la scopertura rispetto al limite dell'affidamento, secondo Cass., 7 ottobre 2010, n. 20834, cit. Secondo A. NIGRO-D. VATTERMOLI, op. cit., 164, atteso che il rapporto tra le singole ipotesi di esenzione e la previsione generale di cui al secondo comma dell'art. 67 l. fall. è quello di eccezione a regola, sul piano probatorio spetterà al terzo convenuto provare che ricorre un'ipotesi di esenzione. Della stessa opinione, G. TERRANOVA, La nuova disciplina delle revocatorie fallimentari, Torino, 2006, 160, secondo il quale, dopo la riforma, l'esenzione apparirebbe come sovversiva del generale principio di revocabilità di atti e pagamenti, atteso che l'irrevocabilità delle rimesse diviene la revoca, e la loro revoca l'eccezione. Nello stesso senso, cfr. A. PATTI, op. cit., 274. Secondo G. GUERRIERI, sub art. 67 l.fall., cit., 430, ne conseguirebbe che sarà il convenuto in revocatoria a dover provare l'applicabilità di una delle norma in materia di esenzioni. Nello stesso senso, cfr. V. PAPAGNI, op. cit., 127; M. ARATO, La revocatorie delle rimesse bancarie nel «nuovo» art. 67 l. fall., in Fall., 2006, 854; G.CAVALLI, Considerazioni sulla revocatoria delle rimesse in conto corrente bancario dopo la riforma dell'art. 67, legge fallimentare, in Banca borsa, 2006, I, 1).
La prova della scientia decoctionis.
A differenza di quanto si è visto per il presupposto oggettivo, è pacifico che l'onere della prova della conoscenza dello stato di insolvenza da parte dell'istituto di credito, convenuto in revocatoria, gravi sulla curatela (la questione della prova della conoscenza dello stato di insolvenza è stata, specie in passato, controversa. I termini del dibattito erano principalmente i seguenti. Ci si chiedeva se il curatore potesse avvalersi di presunzioni e se la prova potesse limitarsi all'allegazione di elementi idonei a dimostrare la conoscibilità astratta dello stato di insolvenza, ovvero se fosse necessaria la prova della conoscenza effettiva, supportata da circostanze oggettive. La giurisprudenza è copiosa. Da ultimo, l'indirizzo giurisprudenziale consolidato pare nel senso della necessaria prova della conoscenza effettiva dello stato di decozione, anche tramite presunzioni, purché supportate da circostanze oggettive e da elementi gravi precisi e concordanti: cfr. Cass., 7 febbraio 2001, n. 1719. In generale sul tema, cfr. M. ARATO, Operazioni bancarie, cit., 222 ss.; A. NIGRO-D. VATTERMOLI, op. cit., 159 ss.; G. GUERRIERI, sub art. 67 l.fall., cit., 394 ss.; G. TARZIA, Le azioni revocatorie, cit., 235 ss., G. REBECCA-G. SPEROTTI, op. cit., 13 ss.). Così, infatti, dispone il secondo comma dell'art. 67 l. fall. (osserva G. BOZZA, op. cit., che nel caso in cui la procedura di fallimento segua quella di concordato preventivo il contenuto della prova offerta dalla curatela andrebbe meglio specificato. E infatti, mentre prima della riforma vi era identità di presupposti tra le due procedure; dopo la riforma il concordato preventivo è ammissibile anche in presenza dello stato di crisi, che è concetto che ricomprende, ma non si identifica con lo stato d'insolvenza. Ai fini della revocatoria fallimentare, pertanto, sarebbe necessaria la verifica concreta che entrambe le procedure sono state determinate dalla medesima crisi, non potendo la sentenza dichiarativa del fallimento valere come accertamento ex post della retroattiva esistenza dell'insolvenza. Il problema dell'eterogeneità dei presupposti dovrebbe ritenersi superato dopo la novella di cui al D.l. 83/2012 che ha aggiunto il 2° comma all'art. 69 bis l.fall.; cfr. G. GUERRIERI, sub art. 67 l.fall., cit., 400 ss.).
Ci si chiede, piuttosto, se lo status di creditore qualificato dell'istituto di credito abbia l'effetto di alleggerire l'onere della prova gravante sul curatore e se, in particolare, possa giungersi a ritenere che, per il fatto stesso che la banca è istituzionalmente tenuta a monitorare le condizioni economiche dei propri clienti, la conoscenza (rectius la conoscibilità) dello stato di insolvenza possa presumersi.
Vi è chi (G.M.BUTA, Conoscenza dello stato di insolvenza e risultanze dei bilanci, in Banca borsa, 2004, II, 564) ha sostenuto la tesi, accolta da alcune pronunce (Cass., 4 novembre 1999, n. 11068; Trib. Milano, 28 maggio 2008, in Banca borsa, 2009, II, 723), secondo la quale la banca avrebbe sempre conoscenza in anticipo dello stato di insolvenza del proprio cliente (per i riflessi in termini di responsabilità per il credito concesso, cfr. A. NIGRO, La responsabilità delle banche nell'erogazione del credito alle imprese in “crisi”, in Giur. comm., 2011, III, 305), prima di ogni altro creditore. Secondo questa tesi, la scientia decoctionis deriverebbe proprio dallo status di operatore qualificato e dall'esistenza di sistemi oggettivi di rilevamento della crisi.
Altri hanno invece osservato che semplici indizi, non supportati da circostanze oggettive, non sarebbero in grado di provare la conoscenza dello stato di insolvenza da parte della banca e che, inoltre, può accadere che le difficoltà del cliente appaiano alla banca come dovute a fattori transitori, piuttosto che ad una situazione di insolvenza (E.TARTAGLIA, Intervento al convegno svoltosi il 17-19 ottobre 1986 al CIS, in La revocatoria fallimentare dei versamenti in conto corrente bancario – Atti del convegno , Padova, 1987, 23, il quale mette in guardia dal rischio di un ribaltamento dell'onere della prova).
La Suprema Corte, da parte sua, ha talora affermato che, se il soggetto convenuto in revocatoria è una banca, il giudice deve certamente tenere conto del particolare status professionale della stessa e attribuire agli elementi indiziari una valenza probatoria rafforzata (Cass., 4 febbraio 2008, n. 2557; Cass., 7 luglio 1999, n. 7064; Trib. Milano, 21 luglio 2008, in Fall., 2008, 1352). Ciononostante, i parametri di prudenza che in astratto caratterizzano l'attività e le condotte delle banche non sono di per sé determinanti, ma rilevano solo in presenza di circostanze oggettive (come segnalazione della Centrale Rischi, protesti, procedure esecutive etc.; per gli elementi a partire dai quali sarebbe possibile presumere la conoscenza dello stato di insolvenza cfr., ex multis, Cass. 05/11213; Cass., 11 novembre 2010, n. 22915; Trib. Milano, 11 dicembre 1980, in Banca borsa,1982, II, 75; Trib. Napoli, 17 febbraio 2009, in Fall., 2009, 1002; Cass. 3 maggio 2007, n.10208; Cass., 13 ottobre 2005, n. 19894. Cfr. anche G. TARZIA, Le azioni revocatorie, cit., 237), che rendano effettivamente percepibile all'istituto di credito lo stato di decozione dell'imprenditore (molto chiara in tal senso Cass., 7 agosto 1997, n. 7304, secondo la quale “[...]È invece logicamente viziato, perché salta un passaggio essenziale del percorso argomentativo, il ragionamento che, traendo spunto dall'astratta possibilità di una valutazione professionale dei sintomi, pretenda di ricavarne una presunzione di conoscenza effettiva della decozione, senza farsi carico di accertare quali fossero i sintomi che avrebbero dovuto formare oggetto di quella valutazione”. Nello stesso senso, Cass., 7 febbraio 2001, n. 1719, cit., secondo la quale “[…] la qualità di banca di colui che entra in contatto con l'insolvente rileva, non di per sé, neppure se correlata al parametro, del tutto teorico, del creditore avveduto, ma solo in presenza di concreti collegamenti di quel creditore con i sintomi conoscibili dello stato di insolvenza; in tal senso dovendosi dare rilievo ai presupposti e alle condizioni in cui si è trovato ad operare, nella specifica situazione, l'accipiens, ed in quest'ambito anche all'attività professionale da esso esercitata e alle regole di prudenza e avvedutezza che caratterizzano concretamente, indipendentemente da ogni doverosità, l'operare della categoria di appartenenza”. In senso conforme, ex multis, Cass., 3 maggio 2010, n. 10655; Cass.10 maggio 2006, n. 10800; Cass., 28 agosto 2004, n. 17213).
Per inciso, secondo alcune pronunce, in assenza di segni esteriori di insolvenza, potrà farsi riferimento alla conoscenza dei bilanci depositati, con la precisazione che, in assenza di un contratto di apertura di credito, il dovere della banca di monitorare la condizione economica del cliente si farebbe meno intenso (Trib. Milano, 17 marzo 2010; Trib. Milano, 16 maggio 2003, in Banca borsa, 2004, II, 563).

La soluzione

Le posizioni della Suprema Corte nel caso di specie.
Cercando di ricondurre gli argomenti e le posizioni finora richiamati al caso in commento, è necessario precisare quanto segue.
Quanto alla prova della natura solutoria delle rimesse, la Corte afferma che questa spetti al curatore fallimentare, discostandosi dalla prevalente giurisprudenza sul punto. Ed infatti, come già ricordato, la maggior parte delle pronunce, anche di legittimità, statuiscono che spetti alla curatela soltanto la prova che le rimesse sono state effettuate nel periodo sospetto, mentre spetterebbe alla banca l'onere di provarne la natura ripristinatoria (o, per le procedure iniziate dopo l'entrata in vigore del D.l. 35/2005, che la rimessa non ha ridotto in maniera consistente e durevole l'esposizione debitoria del fallito).
Inoltre, nella pronuncia in commento, la Corte pone in capo al curatore l'onere della prova della natura solutoria delle rimesse, ma non specifica il contenuto di tale onere. Può ritenersi che esso consista - attesa, come prima evidenziato, la normativa pro tempore rilevante (anteriore all'entrata in vigore del D.l. 14 marzo 2005, n. 35) e la sua prevalente interpretazione - nella prova della scopertura del conto, da fornirsi anche per presunzioni, purché gravi, precise e concordanti. Ciò può ragionevolmente desumersi, a contrario, dal fatto che, nel caso di specie, la natura solutoria era stata presunta dalla curatela in forza di elementi che deponevano in tal senso, ma privi di certezza: e proprio per questo ritenuti non sufficienti ad assolvere l'onere probatorio.

Osservazioni

Quanto alla prova della conoscenza dello stato di insolvenza, servono due precisazioni.
In primo luogo, il ricorso conteneva uno specifico motivo relativo alla prova della conoscenza dello stato di insolvenza, che la banca ricorrente lamentava essere stata desunta “non dalle prove fornite dalla curatela, ma dal fatto che [la banca stessa] non aveva spiegato le diverse ragioni che l'avevano indotta a chiudere il rapporto”. In secondo luogo, la Suprema Corte non dedica al motivo una trattazione specifica, ritenendolo assorbito dall'accoglimento dell'altro, relativo alla prova della natura solutoria delle rimesse.
Ciò posto, può ragionevolmente ritenersi, proprio a partire della posizione assunta dalla Corte riguardo alla ripartizione dell'onere della prova della natura solutoria delle rimesse, che la pronuncia si inserisca tra quelle che richiedono che la prova della conoscenza dello stato di insolvenza, offerta dalla curatela, sia sorretta da elementi certi, fondati su circostanze oggettive. Tra le righe dell'argomentazione della Corte non pare di ravvisare alcun elemento che consenta di ritenere che, nell'opinione del Supremo Collegio, la banca sia un creditore agevolato dalla sua posizione ai fini della conoscenza dello stato di insolvenza e che, conseguentemente, l'onere della prova da parte del curatore possa, per ciò solo, considerarsi più attenuato.
Dalla parte in fatto risulta che, nel caso di specie, la prova offerta dalla curatela si fondava unicamente sul comportamento tenuto dalla banca (la quale aveva esercitato il recesso poco dopo la data delle rimesse e, in una corrispondenza precedente, dava atto di essere al corrente delle grosse perdite subite dal proprio cliente), con il risultato di invertire, nei fatti, la ripartizione dell'onere probatorio e addossare all'istituto di credito l'onere di fornire la prova contraria.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Per comodità espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti, i contributi dottrinari e le disposizioni normative interessate, direttamente nel commento.

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