Revocatoria contro lo straniero ed esenzione ai sensi dell’art. 13 Reg. UE 1346/2000

23 Maggio 2012

In applicazione dell'art. 13 del Regolamento Comunitario sulle insolvenze transfrontaliere n. 1346 del 2000, non può essere intrapresa l'azione revocatoria nei confronti dello straniero se questi dimostri che il contratto oggetto di revocatoria è assoggettato alla legge estera e che secondo tale legge l'atto non sarebbe impugnabile con alcun mezzo.
Massima

In applicazione dell'art. 13 del Regolamento Comunitario sulle insolvenze transfrontaliere n. 1346 del 2000, non può essere intrapresa l'azione revocatoria nei confronti dello straniero se questi dimostri che il contratto oggetto di revocatoria è assoggettato alla legge estera e che secondo tale legge l'atto non sarebbe impugnabile con alcun mezzo.

Il caso

Il Tribunale di Roma affronta con la sentenza qui annotata la questione - sinora relativamente poco trattata - dei limiti di esperibilità della revocatoria fallimentare nei confronti del soggetto estero, come fissati dal Regolamento Comunitario sulle insolvenze transfrontaliere n. 1346 del 2000. In particolare, i giudici capitolini pervengono alla declaratoria di improponibilità dell'azione revocatoria in applicazione dell'art. 13 di detto Regolamento, che così testualmente dispone: “Art. 13. Atti pregiudizievoli - Non si applica l'articolo 4, paragrafo 2, lettera m), quando chi ha beneficiato di un atto pregiudizievole per la massa dei creditori prova che: - tale atto è soggetto alla legge di uno Stato contraente diverso dallo Stato di apertura, e che - tale legge non consente, nella fattispecie, di impugnare tale atto con alcun mezzo”.

Nella fattispecie, l'azione revocatoria era stata intrapresa dalla procedura di amministrazione straordinaria (ex D.Lgs. n. 347/2003) in relazione ad un contratto stipulato da Alitalia con una società inglese appartenente ad un gruppo finanziario elvetico, anche al fine di contestare gli atti (in particolare la concessione di valori in garanzia) posti in essere dalla società italiana insolvente in forza del medesimo contratto.
La domanda viene respinta in quanto il Tribunale - accogliendo l'eccezione in tal senso formulata dalla finanziaria estera - dà atto che il contratto da cui scaturiscono gli atti revocandi risulta effettivamente soggetto alla legge inglese e rileva come, in base ai rilievi della convenuta, si possa affermare che, in forza delle norme vigenti in quell'ordinamento, il contratto in esame non avrebbe potuto essere impugnato con alcun mezzo.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Con la pronuncia in commento il Tribunale si discosta dalla conclusione cui sono pervenute altre sentenze, sancendo anzitutto che la norma comunitaria vale a limitare l'ammissibilità dell'azione revocatoria anche nell'ambito della procedura concorsuale italiana, prevalendo in tal senso la considerazione della lex contractus, se in quell'ordinamento non sussista alcun mezzo per rendere inefficace l'atto impugnato.
Anche se sul punto specifico manca, pervero, un orientamento della Suprema Corte, si deve anzitutto sottolineare che le pronunzie dalle quali si potrebbe ricavare qualche utile spunto (e che per lo più concludono in senso opposto alla statuizione del Tribunale romano) muovono proprio da una diversa impostazione di fondo - suggestiva, ma poco convincente -, in quanto ritengono irrilevante verificare la legge che regola il negozio controverso e ciò sul presupposto che il giudizio di revocatoria non si svolge tra le parti negoziali, ma con il curatore fallimentare che agisce in giudizio in qualità di terzo, giungendo per tale ragione alla conclusione che le limitazioni connesse all'applicazione della normativa straniera non valgono a precludere l'azione avviata dall'organo concorsuale italiano.
Uno spunto a supporto di tale ragionamento può essere rinvenuto forse in una pronunzia della Suprema Corte, la quale - peraltro decidendo una questione di giurisdizione - in merito all'interpretazione del Regolamento comunitario rileva che questo «se è vero che stabilisce all'art. 13 che “non si applica l'art. 4, par. 2, lett. m., quando chi ha beneficiato di un atto pregiudizievole per la massa dei creditori prova che l'atto è soggetto alla legge di uno Stato contraente diverso dallo Stato di apertura e che tale legge non consente nella fattispecie d'impugnare l'atto con alcun mezzo”, nel successivo art. 18, comma 2, prevede che "il curatore può in ogni altro Stato membro esercitare ogni azione revocatoria che sia nell'interesse dei creditori”. Secondo il combinato disposto di tali norme, ad avviso della dottrina, il legislatore comunitario ha inteso attribuire al curatore il potere di agire anche verso residenti all'estero senza porre vincoli alla giurisdizione interna, laddove essa consenta l'esercizio dell'azione nel territorio interno dello Stato dove si è aperta la procedura» (Cass., 4 agosto 2006, n. 17706).
Da un'argomentazione similare sembrano muovere alcune pronunzie di merito (Trib. Busto Arsizio, 21/23 gennaio 2009 in causa Volare Airlines in A.S. / CEPSA Compagnia Espagnola de Petroleos, inedita e Trib. Busto Arsizio, 27 giugno 2008, in Fall., 2009, 476, che peraltro contiene l'assorbente rilievo che anche nella legge straniera applicabile era consentita la revocatoria) per escludere tout court la rilevanza della norma comunitaria nell'ambito delle azioni intraprese dall'organo concorsuale.
Peraltro, come detto, la tesi non convince sino in fondo: anzitutto, perché se così fosse, la normativa comunitaria sarebbe di fatto disapplicata nella maggior parte dei casi (opererebbe invero solo quando l'organo concorsuale dia seguito al contratto contenente la pattuizione che assoggetta il negozio alla normativa estera, ma in quel caso la revocatoria sarebbe nella maggior parte dei casi esclusa per altra ragione) e, in secondo luogo, perché in tal modo verrebbe tradita la ratio espressa del regolamento comunitario, insita nella tutela dell'affidamento dell'accipiens estero - che appartenga ad un ordinamento nel quale non è prevista l'impugnabilità dell'atto in funzione della sorte futura dell'impresa - alla conservazione degli effetti di un atto che questi ha compiuto senza poterne pronosticare la revocabilità. Evidentemente, se questa è la finalità della disposizione, è difficile giungere a sostenere che la stessa subisca un limite a fronte della “terzietà” dell'organo concorsuale, posto che, al contrario, il legislatore comunitario ha espressamente voluto far prevalere l'interesse alla sicurezza dei traffici - e quindi la posizione del soggetto estero revocando - rispetto alla tutela degli interessi dei creditori dell'impresa insolvente.
D'altro canto, la pronunzia della Suprema Corte sopra richiamata sancisce unicamente che il Regolamento UE consente al curatore di avviare le azioni revocatorie avanti al foro concorsuale e, quindi, pare limitata ad affermare la sussistenza della giurisdizione del giudice italiano; l'argomento peraltro non pare decisivo ai fini della questione decisa dalla sentenza in commento, in quanto altro è la giurisdizione, altro è la individuazione della legge applicabile, altro ancora è la possibilità che la normativa comunitaria detti disposizioni direttamente applicabili negli Stati membri, ivi compresa la facoltà di limitare l'operatività di norme di diritto interno nei confronti dello straniero.
In tal senso, più coerenti con un'interpretazione conservativa del significato e della vigenza della norma comunitaria appaiono altre sentenze e, tra esse, quella in commento (ma si veda anche Trib. Roma, 2 febbraio 2011), e, più in generale, la dottrina prevalente, le quali ritengono che l'art. 13 Reg. CE n. 1346/2000, nel derogare all'art. 4, par. 2, lett. m), fondi una vera e propria ipotesi di esenzione da revocatoria (per certi versi assimilabile a quelle disciplinate nella normativa italiana riformata al terzo comma dell'art. 67 l. fall., come osserva M. FABIANI, La revocatoria fallimentare fra lex concursus e lex contractus nel reg. Ce 1346/2000, in Corr.Giur., 2007, 1323), che opera a favore dello straniero, a patto che questi fornisca la prova di un doppio presupposto: a) l'applicabilità al contratto della legge straniera; b) che nella normativa di quel Paese l'atto revocando non potrebbe essere impugnato con alcun mezzo. La disciplina verrebbe, in tal senso, estesa anche agli atti esecutivi del rapporto disciplinato dalla lex contractus, quali i pagamenti, pur se essi costituiscono nel diritto concorsuale interno atto solutorio revocabile in totale autonomia rispetto al negozio giuridico sottostante (su questo principio, v. per tutte: Cass., 20 gennaio 2006, n. 1195; Cass., 9 febbraio 2001, n. 1839; Cass., 7 marzo 1997, n. 2088).

Osservazioni

Alla luce di queste considerazioni, il principio giuridico da cui muove il Tribunale di Roma appare in linea di massima corretto; peraltro, qualche perplessità permane sull'interpretazione dei limiti di applicazione della disposizione comunitaria e, in particolare, sul senso da attribuire all'espressione “tale legge non consente, nella fattispecie, di impugnare tale atto con alcun mezzo”. Se, infatti, il richiamo alla singola fattispecie sembra implicare di giudicare secondo il diritto straniero in merito alla specifica proponibilità dell'impugnazione contro gli atti oggetto del giudizio, il riferimento ad un qualsiasi mezzo di impugnazione (e si potrebbe trattare di un'azione del tutto difforme da quella intrapresa dalla procedura secondo le norme interne) induce a ritenere che l'esenzione da revocatoria non implichi una vera e propria prevalenza della lex contractus sulla lex concursus, bensì una verifica preventiva circa l'impugnabilità dell'atto nell'ordinamento straniero, cui non segue peraltro un giudizio retto di per sé dalle norme estere.
Sotto tale profilo, come già accennato, occorre valutare quindi quale sia la valenza da attribuire alle norme comunitarie con riferimento: i) alla sussistenza o meno della giurisdizione del foro concorsuale; ii) alla individuazione della legge applicabile alle azioni concorsuali; iii) alla previsione di norme preclusive all'accoglimento di tali azioni.
In quest'ottica, analizzando più approfonditamente la sentenza in commento, si deve anzitutto segnalare che il Tribunale romano sembra prendere le mosse da un'affermazione poco comprensibile, laddove sancisce che “in via pregiudiziale deve essere affermato il difetto di giurisdizione del Giudice italiano a decidere la presente causa in favore delle Corti Inglesi”. Si tratta evidentemente di una svista, poiché se si trattasse di un vero e proprio difetto di giurisdizione il Tribunale non avrebbe poi potuto verificare nel merito la carenza di mezzi di impugnazione del negozio secondo la normativa britannica. Il prosieguo della sentenza, comunque, chiarisce che i giudici capitolini hanno inteso in tal modo sancire che la revocatoria doveva dichiararsi improponibile, in quanto avviata in forza dell'art 67 l. fall., una volta rilevato che il contratto da cui nasceva la costituzione di una garanzia contestata risultava pattiziamente regolato dalla legge inglese e, per l'effetto, la fattispecie di causa doveva essere esaminata alla luce di detta normativa, con il risultato che - avendo ritenuto il Tribunale che l'ordinamento inglese non consentisse nel caso di specie la revocatoria - sussisteva l'esenzione prevista dall'art. 13 Reg. CE n. 1346/2000.
Del resto, che si tratti di un refuso è evidente, atteso che, come già si è detto, nei primi orientamenti giurisprudenziali sorti sul punto non pare sia mai stata messa in dubbio la sussistenza della giurisdizione interna in relazione alle azioni che traggono origine dalla procedura concorsuale, confermandosi la prevalenza della competenza funzionale come prevista dall'art. 24 l. fall., anche in applicazione delle norme antevigenti al Reg. CE n. 1346/2000 (e, secondo taluni, prescindendo dal regolamento sull'insolvenza transfrontaliera, se si voglia accedere alla tesi secondo la quale esso non detterebbe criteri attinenti alla giurisdizione).
Evitando, quindi, di sopravvalutare il riferimento iniziale al difetto di giurisdizione, al fine di valutare la condivisibilità della soluzione adottata dal Tribunale romano si deve anzitutto rilevare che, in linea generale, non sarebbe corretto affermare che la normativa comunitaria sia ispirata ad un principio generale, in forza del quale la proponibilità delle azioni revocatorie risulta condizionata dalla legge regolatrice del contratto oggetto di revocatoria, ovvero del negozio in esecuzione del quale vengono compiuti gli atti revocandi.
Anzi, proprio in applicazione della disciplina comunitaria, sembrerebbe potersi affermare l'opposto: dall'art. 4, par. 2, lett. m) del Reg. CE n. 1346/2000 si evince che la legge che regola le azioni concorsuali dirette ad ottenere l'inopponibilità degli atti pregiudizievoli per la massa dei creditori è quella del Paese in cui la procedura si è aperta (il testo della norma citata così dispone: “La legge dello Stato di apertura determina le condizioni di apertura, lo svolgimento e la chiusura della procedura di insolvenza. Essa determina in particolare (…) m) le disposizioni relative alla nullità, all'annullamento o all'inopponibilità degli atti pregiudizievoli per la massa dei creditori”). Del resto, a favore dell'applicabilità della lex concursus viene giustamente invocata la vis attractiva delle norme concorsuali - aventi natura lato sensu “processuale” - che impone di attribuire anche alle disposizioni sugli effetti degli atti pregiudizievoli la medesima natura, il che conduce all'applicazione della legge interna anche per la proponibilità delle azioni revocatorie fallimentari.
Il problema è, semmai, di stabilire se l'art. 13 del Reg. CE n. 1346/2000, nel prevedere che il sopra indicato art. 4, par. 2, lett. m) non si applica nell'ipotesi in questione, voglia dettare una deroga piena al principio dell'applicazione della lex concursus (come afferma FARINA M., La vis attractiva concursus nel regolamento comunitario sulle procedure di insolvenza, in Fall., 2009, 667), ovvero un quid minoris.
Sul punto, è anche interessante prendere spunto dalla motivazione di una recente pronunzia della Corte di Giustizia UE che - pervero, occupandosi anche in quel caso dei criteri di riparto della giurisdizione - ha ribadito che “l'art. 3, n. 1, Regolamento n. 1346/2000 deve essere interpretato nel senso che i giudici dello Stato membro sul cui territorio la procedura di insolvenza è stata avviata - anche se non necessariamente gli stessi giudici che hanno dichiarato l'insolvenza - sono esclusivamente competenti a statuire su un'azione revocatoria fondata sull'insolvenza e diretta contro il convenuto avente la sua sede statutaria in un altro Stato membro: azione, questa, che rientra senz'altro nel campo di applicazione del predetto Reg., in quanto derivante direttamente dal fallimento, e la cui concentrazione dinanzi ai giudici dello Stato membro competente per l'avvio della procedura di insolvenza risulta conforme agli obiettivi del miglioramento dell'efficacia e della rapidità delle procedure d'insolvenza che presentano effetti transfrontalieri, nonché della prevenzione del forum shopping” (Corte Giustizia Comunità Europee, Sez. I, 12 febbraio 2009, n. 339, in Giur. It., 2009, 2241).
Ebbene, tralasciando l'oggetto specifico della pronunzia, occorre dare atto che quella dell'utilizzo delle clausole pattizie con finalità elusive delle disposizioni che regolano il concorso costituisce una preoccupazione tutt'altro che peregrina, atteso che in periodi di crisi economica non è di certo infrequente che un contraente possa temere e tentare di prevenire gli effetti dell'assoggettamento a procedura della controparte negoziale (se vogliamo, ne è, ad esempio, espressione nel diritto italiano la nuova disposizione dell'art. 72, comma 6, l. fall., che dichiara del tutto inefficaci le pattuizioni che prevedono la risoluzione dei contratti per il caso di fallimento di un contraente).
Orbene, sarebbe singolare che - nel mentre si cerca di evitare il forum shopping con una normativa che prevenga ogni contrasto sulla giurisdizione - si crei una situazione che potrebbe consentire invece ad un creditore di eludere le azioni revocatorie con la scelta di assoggettare il contratto e gli atti esecutivi del medesimo alla legge di un Paese che non ne consente l'impugnazione, dando così luogo ad un fenomeno che potremmo definire di law shopping.
In particolare, si consideri l'ipotesi in cui si ravvisino i presupposti della revocatoria prevista dall'art. 67 della nostra Legge Fallimentare proprio in relazione ad un contratto assoggettato dalle parti alla normativa estera: poiché il presupposto per la declaratoria di inefficacia è anche la conoscenza (presunta o provata a cura della procedura, a seconda dei casi) dell'insolvenza, ci si troverebbe di fronte ad un contratto stipulato tra due soggetti pienamente coscienti del fatto che quel negozio lede la par condicio, ma che le stesse parti - e non è improbabile che il contraente non insolvente abbia un forte ascendente sul soggetto prossimo al dissesto - possono esonerare da revocatoria semplicemente assoggettandolo alle legge di uno stato estero che “non conosce” quell'istituto o prevede comunque un regime revocatorio meno rigoroso.
La preoccupazione vale, a maggior ragione, quando il rapporto negoziale coinvolge - come nel caso in esame - una società che “professionalmente” svolge la sua attività in campo finanziario e che, quindi, non solo riserva una particolare attenzione alle situazioni di crisi (tanto da consentire una valutazione più rigorosa degli indici di scientia - arg. per tutte, da ultimo, da Cass. 18 aprile 2011, n. 8827, in Fall., 2012, 125), ma si giova di una peculiare esperienza in tema di azioni derivanti dal concorso, potendo la stessa ben conoscere come ovviare in via preventiva al rischio di subire gli effetti di una revocatoria. Non solo, ma nella fattispecie è interessante notare come il contratto sia stato stipulato da una società con sede nel Regno Unito, ma appartenente ad un gruppo che notoriamente fa capo a tutt'altra nazione (oltretutto non aderente alla UE, situazione che precluderebbe l'applicazione del regolamento comunitario del 2000; cfr. Cass., sez. Un., 7.2.2007, n. 2692, in Fall., 2007, 629), ipotesi che non a caso si presenta in molte revocatorie che coinvolgono, come nella fattispecie, linee aeree o comunque attività in settori “delicati”.
Da tale considerazione più che altro “morale” si dovrebbe altresì desumere, sotto il profilo più prettamente giuridico, che quella dettata dall'art. 13 dovrebbe rimanere una disciplina quanto mai eccezionale, che non andrebbe estesa in modo tale da costituire una via per aggirare le norme interne poste a tutela dei creditori.
Se così è, proprio l'esigenza di un'interpretazione restrittiva induce a dubitare che la disposizione in esame abbia voluto introdurre una vera e propria deroga nell'individuazione della legge applicabile al giudizio di revocatoria, anziché una mera esenzione dalla revocatoria. La distinzione è sottile, ma evidente: escludere l'applicazione dell'art. 4, par. 2, lett. m) sicuramente significa che l'azione revocatoria contro lo straniero non può essere accolta (ancorchè sussistano tutti i presupposti previsti dalla normativa interna) quando si ravvisino le due condizioni di cui all'art. 13, ma di per sé non significa che, volta che si sia esclusa in via preliminare la sussistenza di quei presupposti, si debba giudicare l'accoglibilità della domanda in base alle norme straniere (cfr. L. FUMAGALLI, Atti pregiudizievoli tra sostanza e processo: quale legge regolatrice per la revocatoria fallimentare?, in Int'l Lis, 2007, 69).

Le questioni aperte

In relazione alla specifica questione ora cennata, si deve dare atto che dal testo della sentenza in commento non è agevole comprendere in modo completo quale sia stato il ragionamento seguito dai giudici romani per ritenere applicabile alla fattispecie l'esenzione prevista dall'art. 13 Reg. CE n. 1346/2000; in via generale, il Tribunale correttamente affronta la questione sotto un duplice profilo, andando a verificare: a) se il contratto revocando sia effettivamente soggetto alla legge straniera; b) e se in quell'ordinamento il negozio non sarebbe impugnabile con alcun mezzo; giustamente, poi, l'onere di provare entrambi i presupposti viene addossato alla parte convenuta.
Nulla questio, dunque, sul metodo e sulla sussistenza del primo presupposto, ma non siamo certi che sia, viceversa, del tutto esatta l'affermazione secondo la quale la legge inglese tout court non conosce l'azione revocatoria o altro mezzo che consenta di impugnare i negozi lesivi della par condicio creditorum compiuti dall'impresa insolvente.
Anzitutto, prendendo in considerazione l'Insolvency Act del 1986 nella sua formulazione vigente, si riscontra alla sezione 238 una specifica disposizione che - in ció simile al primo comma del nostro art. 67 l. fall. - si occupa di atti pregiudizievoli inefficaci e così prevede: “Section 238.— Transactions at an undervalue (England and Wales). (1) This section applies in the case of a company where (a) the company enters administration, or (b) the company goes into liquidation; and “the office-holder” means the administrator or the liquidator, as the case may be. (2) Where the company has at a relevant time (defined in section 240) entered into a transaction with any person at an undervalue, the office-holder may apply to the court for an order under this section. (3) Subject as follows, the court shall, on such an application, make such order as it thinks fit for restoring the position to what it would have been if the company had not entered into that transaction. (4) For the purposes of this section and section 241, a company enters into a transaction with a person at an undervalue if - (a) the company makes a gift to that person or otherwise enters into a transaction with that person on terms that provide for the company to receive no consideration, or - (b) the company enters into a transaction with that person for a consideration the value of which, in money or money's worth, is significantly less than the value, in money or money's worth, of the consideration provided by the company. (5) The court shall not make an order under this section in respect of a transaction at an undervalue if it is satisfied - (a) that the company which entered into the transaction did so in good faith and for the purpose of carrying on its business, and - (b) that at the time it did so there were reasonable grounds for believing that the transaction would benefit the company”.
Per la traduzione del testo inglese, prendiamo in prestito in parte quella adottata in un giudizio recente da un consulente d'ufficio, che per la sua esperienza e conoscenza del diritto britannico appare di sicura affidabilità: “Art. 238.— Negozi con corrispettivo inadeguato (Inghilterra e Galles). (1) Questo articolo si applica ai casi in cui a) una società é soggetta ad una amministrazione concorsuale, b) una società è assoggettata a liquidazione concorsuale; ove per organo concorsuale si intende l'Amministratore o il Liquidatore, a seconda dei casi. (2) Ove una società, nel periodo di tempo rilevante (come definito all'art. 240), abbia stipulato un negozio con altri soggetti con una corrispettivo inadeguato, il curatore può agire in giudizio chiedendo un provvedimento ai sensi del presente articolo. (3) Salvo quanto disposto in seguito, il Giudice assumerà, sulla base di questa domanda, i provvedimenti dallo stesso ritenuti adeguati al fine di rimettere in pristino la posizione (delle parti), quale essa era se la società non avesse stipulato quel negozio. (4) Ai fini di questa norma e dell'art. 241, una società stipula un negozio con altro soggetto a controprestazione inadeguata se (a) la società fa una liberalità a tale soggetto o comunque stipula con esso un negozio a condizioni che prevedono che la società non riceva alcun corrispettivo, oppure (se) (b) la società stipula un negozio con tale soggetto per un corrispettivo, il cui valore, in denaro od in valore pecuniario, è significativamente inferiore al valore, in denaro od in valore pecuniario, della prestazione fornita dalla società. (5) Il Giudice non assumerà provvedimenti ai sensi di questa norma in caso di negozio a corrispettivo inadeguato se riterrà raggiunta la prova (a) che la società che ha stipulato il negozio lo ha fatto in buona fede ed allo scopo di continuare la propria attività commerciale, e (b) al momento in cui stipulò il negozio vi erano ragionevoli motivi per ritenere che il negozio sarebbe stato di vantaggio per la società.”
Esistono, poi, in astratto altre azioni non legate alla sussistenza di una "sproporzione", prima fra tutte quella prevista dalla successiva Sezione 239 dello stesso Insolvency Act, che consente di impugnare gli atti definiti “preferenziali” (“For the purposes of this section and section 241, a company gives a preference to a person if (a) that person is one of the company's creditors or a surety or guarantor for any of the company's debts or other liabilities, and (b) the company does anything or suffers anything to be done which (in either case) has the effect of putting that person into a position which, in the event of the company going into insolvent liquidation, will be better than the position he would have been in if that thing had not been done”; ovvero: “Ai fini di questo articolo e dell'art. 241, una società adotta un trattamento preferenziale nei confronti di un soggetto se - (a) tale soggetto è un creditore della società od un datore di garanzie reali od un fideiussore per qualsiasi debito o passività della società, e (b) la società compie atti o tollera che vengano compiuti atti che (in un caso o nell'altro) abbiano l'effetto di porre quel soggetto in una posizione che, ove la società cada in insolvenza, sarà migliore della posizione che tale soggetto avrebbe avuto, se quegli atti non fossero stati compiuti”). Peraltro, questa norma trova concreta applicazione solo in casi più limitati rispetto alla nostra disciplina, poiché l'accoglimento della domanda postula che la Corte Inglese ravvisi una sorta di dolo specifico, con una limitazione anche più rigorosa rispetto al nostro consilium fraudis, atteso che viene richiesto che l'atto abbia quale unico fine quello di favorire il creditore (“The court shall not make an order under this section in respect of a preference given to any person unless the company which gave the preference was influenced in deciding to give it by a desire to produce in relation to that person the effect mentioned in subsection 4”, che potremmo tradurre con: “Il Giudice non assumerà provvedimenti ai sensi di questa norma in caso di atto preferenziale concesso ad un soggetto, a meno che la società che ha accordato tale preferenza sia stata influenzata nella decisione di accordarla dal desiderio di causare, in relazione a tale soggetto, l'effetto descritto nel precedente comma 4”; si potrebbe poi disquisire sino alla noia sul concetto di “desire”, ovvero se la volontà preferenziale debba essere l'unico scopo perseguito dal soggetto insolvente o se sia sufficiente che si tratti dell'elemento psicologico compresente o determinante).
A tali azioni si aggiungono iniziative più generali e simili ad azioni di nullità o comunque rivenienti da un “illecito” (in senso lato), che potrebbero in linea teorica valere ad impugnare atti in ipotesi lesivi della par condicio; peraltro, anche solo soffermandoci sulle due Sezioni dell'Insolvency Act pocanzi richiamate, non pare si possa affermare in modo netto che il diritto inglese ignora in linea generale ed astratta iniziative assimilabili all'azione revocatoria, laddove sarebbe più corretto rilevare che il loro esercizio nella fattispecie concreta è soggetto a condizioni e limitazioni non previste nella legge fallimentare italiana.
Sul punto, pare pertinente l'osservazione (FABIANI, La revocatoria fallimentare, cit., 1324), che muove proprio dall'eccezionalità dell'art. 13 del Reg. CE n. 1346/2000 per escludere che esso comporti un vero e proprio mutamento della legge del processo: se così è, l'attore non dovrà mai essere chiamato a dimostrare la fondatezza dell'azione ai sensi della lex contractus (si pensi anche all'eventuale problema dei termini istruttori: l'attore imposta la propria azione per dimostrarne la fondatezza alla luce del diritto interno e quindi potrebbe doversi porre il problema del contenuto della legge estera applicabile solo dopo che il convenuto abbia compiutamente articolato le proprie difese e dedotto i mezzi di prova, con un'evidente restrizione delle facoltà defensionali), né il convenuto potrà pretendere di veder respinte le domande in funzione del mero richiamo all'applicazione delle norme straniere, ma dovrà semmai provare l'assenza totale di mezzi processuali impugnatori nella lex contractus; ove viceversa esista un mezzo per caducare l'atto impugnato, la sua revocabilità dovrà pur sempre essere giudicata in base alla lex concursus.
Muovendo da tale premessa, si deve dare atto che la sentenza in commento non chiarisce se, quando ha affermato che nel diritto inglese non sussisterebbe alcun mezzo per impugnare gli atti revocandi, intendesse escludere l'esistenza dell'azione ovvero anticipare un giudizio sulla non accoglibilità dell'azione in forza delle norme vigenti nell'ordinamento inglese.
L'impressione - ma si tratta più che altro di una supposizione - è che i giudici romani siano giunti non alla conclusione che nella legge inglese non sussista un mezzo processuale “astratto” per rendere inefficaci (ma anche nulli, inopponibili o soggetti ad annullamento) gli atti negoziali, bensì a ritenere inammissibile l'azione in quanto in concreto l'atto contestato dall'ufficio commissariale di Alitalia in forza delle norme italiane non sarebbe stato impugnabile con successo di fronte alla Corti inglesi in applicazione della normativa di quell'ordinamento.
Il dubbio è, peraltro, se sia corretto - ai fini di verificare la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 13 del Reg. CE n. 1346/2000 - che il giudice italiano giunga di fatto a giudicare la causa in forza del diritto straniero, quando è pressoché indiscusso, come pocanzi si osservava, che in generale anche nel diritto comunitario le azioni concorsuali sono rette dalla legge del paese in cui si svolgono. In altre parole, se è sicuramente doveroso verificare se la legge inglese “conosca” l'istituto revocatorio o altro assimilabile idoneo ad impugnare atti compiuti in violazione della par condicio, altro è andare a verificare se - alla luce dei mezzi istruttori dedotti e della valutazione del caso concreto - la procedura italiana sarebbe stata vittoriosa nel giudizio che si fosse svolto in Inghilterra ed in applicazione del diritto inglese. Seppure in apparenza si tratti di un'interpretazione corroborata dal dato testuale della disposizione (ove, appunto, l'art. 13 fa riferimento alla impugnabilità “nella fattispecie”) e perciò piuttosto seguita in dottrina (S.N. CARBONE - M. CATALDO M., Azione revocatoria: esercizio della giurisdizione e legge applicabile, in Fall., 2004, 961), ci pare che tale approccio si ponga in contrasto con la ratio della norma comunitaria, che, come già sottolineato, vuole evitare che il contraente estero sia “sorpreso” nella sua buona fede dall'iniziativa revocatoria che non poteva prevedere quando stipulò il contratto con l'impresa poi divenuta insolvente. Se così è, non pare meritare la medesima tutela il contraente che, potendo viceversa pronosticare un profilo di inefficacia dell'atto posto in essere, verrebbe “protetto” esclusivamente dalla impossibilità per la procedura concorsuale di supportare in concreto l'azione secondo i dettami, in ipotesi più rigorosi, del diritto straniero. L'esempio emblematico è quello dell'atto che la norma italiana ritenga impugnabile, se compiuto con scientia decoctionis, entro un periodo temporale più ampio rispetto a quello previsto dalla normativa estera: nel momento in cui il soggetto non insolvente stipula un contratto con coscienza dello stato di decozione altrui, non può di certo sapere se l'altro contraente fallirà di lì a breve o a distanza di mesi e quindi in quel momento compie un atto in astratto impugnabile secondo l'ordinamento straniero. Peraltro, seguendo il ragionamento che pare muovere il Tribunale romano nella statuizione in esame, anche in quel caso - se il fallimento intervenisse dopo il decorso del “periodo sospetto” più breve previsto dalla normativa estera applicabile - l'accipiens andrebbe esente da revocatoria sol perché in concreto l'azione non sarebbe più esercitabile con successo avanti al giudice straniero (e non a caso, in tal senso, statuisce altra sentenza del Tribunale romano - Trib. Roma 2 febbraio 2012, in Ilcaso.it - che, pur a fronte di una normativa, quella tedesca, che prevede l'istituto revocatorio, ha respinto le domande di un'amministrazione straordinaria in quanto gli atti revocandi in Italia non sarebbero stati tali in Germania, in quanto posti in essere al di fuori del “periodo sospetto”).

Conclusioni

Alla luce di quanto osservato, la questione dei limiti di proponibilità delle revocatorie nell'ambito comunitario non può avere una soluzione univoca, potendo assumere aspetti diversi a seconda della tipologia dell'atto revocando e dipendendo dalla normativa straniera che risulti applicabile al contratto. Peraltro, si deve ritenere che ogni analisi non possa prescindere da una scelta di campo operata a monte: se si ritiene - ed in tal senso depongono le norme che consentono l'esperimento delle azioni - che tuttora, ed anche nell'ordinamento comunitario, la par condicio creditorum costituisca un valore tutelato, si dovrà rifuggire da interpretazioni estensive che potrebbero anche comportare un'ingiustificata disparità di trattamento tra creditori “interni” e coloro che, più o meno scientemente, hanno inteso assoggettare il rapporto negoziale ad una normativa che li ponesse al riparo proprio dalle norme dettate per ragioni paritarie.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

La questione è stata sinora poco trattata; le pronunzie più direttamente riferite alla fattispecie sono già citate nel testo dell'atto. In dottrina si vedano S. BARIATTI, L'applicazione del Regolamento CE n. 1346/2000 nella giurisprudenza, in Riv. Dir. Proc., 2005, 673; A CASTAGNOLA, Regolamento CE 1346/2000 e vis attractiva concursus: verso un'universalità meno limitata?, in Riv. Dir. Proc., 2010, 925; P. CATALLOZZI, Giurisdizione e legge applicabile nelle revocatorie fallimentari transnazionali, in Fall., 2007, 635; F. CORSINI, La Corte di giustizia "inventa" una (dimezzata) vis attractiva concursus internazionale, in Int'l Lis, 2009, 65 ss.; P. DE CESARI - G. MONTELLA, Una «vis attractiva» comunitaria sulla revocatoria fallimentare?, in Foro It., 2009, IV, 397; M. FABIANI, La revocatoria fallimentare fra lex concursus e lex contractus nel Reg. Ce 1346/2000, in Corriere Giur., 2007, 1319; MONTELLA, Il regolamento Ce 1346/2000 sulle procedure di insolvenza e la legge applicabile alla revocatoria fallimentare, in Foro It., 2007, I, 2816 (ove l'Autore, criticando la sent. N. 2692/2007 della Cassazione, conclude che il criterio del Reg. CE n. 1346/2000, che fissa la giurisdizione per la revocatoria, vale anche se l'impresa convenuta non appartenga all'Unione Europea); V. PROTO, Gli atti pregiudizievoli nelle procedure di insolvenza transnazionali: giurisdizione e legge applicabile, in Fall., 2009, 477, e, più in generale sull'applicazione del Reg. CE n. 1346/2000, Id., Il regolamento comunitario sulle procedure di insolvenza e il sistema italiano nell'applicazione giurisprudenziale, in Fall., 2009, 7.
In giurisprudenza, sulla questione più generale della sussistenza della giurisdizione nei confronti dello straniero in materia di azioni derivanti da procedure concorsuali, si vedano, da ultimo: Corte giustizia Unione Europea, Sez. I (Sent.), 19 aprile 2012, n. 213, secondo la quale l'art. 3 del Reg. CE n. 1346/2000 “attribuisce ai giudici dello Stato membro competente ad aprire una procedura d'insolvenza anche una competenza internazionale a conoscere delle azioni che derivano direttamente da detta procedura e che vi sono strettamente connesse”, pronunzia che sembra confutare l'orientamento contrario espresso da Cass. Sez. Unite, 14 aprile 2008, n. 9745, in Dir. Comm. internaz., 2008, 477, che esclude che il Reg. 1346/2000 disciplini anche la giurisdizione per le azioni revocatorie, limitando, quindi, il campo applicativo alla sola determinazione della “sede” della procedura, affermazione discutibile non solo alla luce dell'art. 18 del medesimo Regolamento, ma - come osserva L. PANZANI, Azione revocatoria nei confronti dello straniero e giurisdizione del giudice che ha dichiarato il fallimento secondo il diritto comunitario. Note minime a seguito della decisione del Bundesgerichtshof del 21 giugno 2007, in Fall., 2008, 394 ss. - in quanto indicazioni sulla giurisdizione si traggono anche dall'art. 16 del Reg. CE 1346/2000, che prevede l'automatico riconoscimento delle decisioni “che derivano direttamente dalla procedura di insolvenza” anche se emesse da altro giudice, con una formula che non a caso richiama alla mente il principio dell'art. 24 l.fall.. Da segnalare anche la posizione di Trib. Monza, 15 maggio 2006, in Obbl. e Contr., 2006, 848, che invece limita l'applicabilità del Reg. CE 1346/2000 alla sola revocatoria fallimentare, non ritenendolo rilevante in relazione a quella ordinaria, che resterebbe assoggettata alla lex contractus.

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