Trusts liquidatori e disciplina concorsuale dell’insolvenza

Salvo Leuzzi
29 Ottobre 2014

In presenza di uno stato preesistente di insolvenza il trust liquidatorio non è riconoscibile nell'ordinamento italiano, onde il negozio non ha l'effetto di segregazione desiderato; l'inefficacia non è esclusa nè dal fine dichiarato di provvedere alla liquidazione armonica della società nell'esclusivo interesse del ceto creditorio, nè dalla c.d. “clausola di salvaguardia“ in forza della quale, in caso di procedura concorsuale sopravenuta, si preveda la risoluzione del rapporto e la consegna dei beni al curatore. Detta clausola rimane inoperante al pari del negozio, privo in via assoluta di effetti, in quanto ab origine non riconosciuto.
Massima

In presenza di uno stato preesistente di insolvenza il trust liquidatorio non è riconoscibile nell'ordinamento italiano, onde il negozio non ha l'effetto di segregazione desiderato; l'inefficacia non è esclusa nè dal fine dichiarato di provvedere alla liquidazione armonica della società nell'esclusivo interesse del ceto creditorio, nè dalla c.d. “clausola di salvaguardia“ in forza della quale, in caso di procedura concorsuale sopravenuta, si preveda la risoluzione del rapporto e la consegna dei beni al curatore. Detta clausola rimane inoperante al pari del negozio, privo in via assoluta di effetti, in quanto ab origine non riconosciuto.

Il caso

Con la pronuncia in commento la S. Corte affronta l'inedita questione della liceità e dell'efficacia del c.d. trust liquidatorio. Della fattispecie del trust liquidatorio e dei profili connessi alla sua liceità, il giudice del diritto non aveva ancora avuto occasione di occuparsi.
Nel caso di specie, la Corte d'appello di Roma aveva respinto il reclamo proposto avverso la sentenza del tribunale dichiarativa del fallimento di una s.r.l. in liquidazione, la quale, già in stato di insolvenza, s'era curata di costituire un c.d. trust liquidatorio, conferendovi l'intera azienda, quindi provvedendo alla propria cancellazione dal registro delle imprese.
L'idea sottesa alla scelta dello strumento segregativo era quella di organizzare una proficua dismissione degli assets aziendali, nella dichiarata ottica di soddisfare i creditori sociali, “eletti” beneficiari della segregazione. In realtà, la valorizzazione delle circostanze connesse allo stato di messa in liquidazione e alla subitanea cancellazione dal registro delle imprese, rivelava, secondo i magistrati d'appello, “il concreto pericolo che il trust fosse stato utilizzato al solo fine di eludere la disciplina imperativa concorsuale”.
La Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'appello.

La fisionomia del trust in generale

In astratto il trust è strumento d'eccellenza, se si tratta di istituire patrimoni destinati a scopi predeterminati, derogando al principio di responsabilità patrimoniale universale, per cui il debitore risponde delle obbligazioni con tutti i propri beni presenti e futuri (art. 2740 c.c.).
È istituto che storicamente sorge nella contrapposizione tra i due sistemi normativi del common law e dell'equity, tanto da non conoscere omologhi nei sistemi di civil law. In questi ultimi, difatti, l'esigenza di attribuire rilevanza autonoma ad una porzione separata di patrimonio (ossia ad un "sottoinsieme" individuabile come massa autonoma e distinta rispetto alle restanti posizioni riconducibili al disponente) è stata risolta attraverso più farraginose soluzioni di secondo grado, implicanti la costituzione di distinti soggetti (esemplificativamente, la c.d. newco).
Negli ordinamenti di common law quella medesima istanza è stata valorizzata conferendo rilevanza allo scopo perseguito, ossia obbligando taluno a perseguire le finalità indicate da un disponente nell'atto negoziale e riconoscendo ai terzi interessati la legittimazione ad agire contro di lui per vedere realizzate quelle finalità.
Nel trust, in particolare, il disponente trasferisce la proprietà di suoi beni al trustee, che ne acquista una titolarità vincolata dall'obbligo di realizzare gli scopi stabiliti nell'atto istitutivo. I beneficiari hanno il diritto di acquistare la proprietà del bene al momento dello scioglimento del trust, vantando, in costanza di rapporto (se previsto), il diritto a conseguire dazioni di denaro. I cespiti in trust rimangono insensibili rispetto alle pretese dei titolari di ragioni di credito sorte per scopi avulsi rispetto a quelli per i quali il patrimonio medesimo è stato istituito.
Può darsi oramai per scontata la legittimità dell'istituto, essendosi pronunciate affermativamente un centinaio di sentenze (per un “censimento” v. M. Lupoi (a cura di), La giurisprudenza italiana sui trust, 2011). Mediante la ratifica della Convenzione dell'Aja del 1° luglio 1985, resa esecutiva in Italia con la L. n. 364 del 1989, il nostro Paese ha aperto la strada all'impiego dei trusts, definiti e descritti, a norma dell'art. 2 della Convenzione, alla stregua di “rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa –, qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell'interesse di un beneficiario o per un fine determinato”.
Ovviamente, l‘esigenza della separazione confligge con l'interesse dei creditori del soggetto che dà vita al patrimonio separato. É fondamentale, pertanto, che la separazione sia adeguatamente giustificata sul piano causale, palesandosi strumentale alla realizzazione di uno scopo idoneo a supportare, a livello di meritevolezza, il sacrificio imposto al complesso di quei creditori, circoscrivendo l'aggredibilità di certi beni ai soli creditori i cui diritti nascano dall'attività posta in essere per il perseguimento del fine cui è connesso il patrimonio separato.

La figura del trust liquidatorio e il punto di tensione

Il trust liquidatorio attiene ai casi di impiego dell'istituto nell'ottica di conservare il valore dell‘impresa e di massimizzare il risultato economico della liquidazione , demandandola alla discrezionalità di un gestore professionale – il trustee – ed esonerandola dal controllo giudiziale. Segnatamente, il disponente destina il patrimonio in trust affinché i creditori, individuati singolarmente o per classi, vengano soddisfatti con il ricavato della vendita dei beni segregati. Attraverso il trust si articola un‘attività di liquidazione privata, nel cui contesto il ruolo del trustee è sempre comprensivo, per un verso, del potere-dovere di collocare sul mercato i beni del fondo segregato, per altro verso del potere-dovere di soddisfare i creditori con il ricavato che dall'attività di cui sopra si tragga.
Più in dettaglio, il trust liquidatorio può essere istituito da società già poste in stato di liquidazione, oppure immediatamente prima che ne venga deliberato lo scioglimento e la messa in liquidazione, quindi nella fase antecedente all'eventuale richiesta di ammissione ad una procedura concorsuale o all'utilizzo di strumenti negoziali messi a disposizione dalla legge fallimentare (parte della dottrina lo ha definito, in questi casi, "anti-fallimentare" o "anti-concorsuale: F. Galluzzo, Validità di un trust liquidatorio istituito da una società in stato di decozione, Corr. giur. 4/2010, 531); qualora, invece, il trust sia utilizzato in seno alle procedure concorsuali o a fianco degli strumenti negoziali contemplati dalla legge fallimentare, esso trova la propria finalizzazione nel tentativo di risolvere la crisi, accelerando la chiusura della procedura o consentendone uno svolgimento più efficiente, attraverso un'agevole e celere liquidazione, purchè non si sottragga, ma si esponga al pieno controllo giudiziale (in tali ipotesi è stato definito dalla medesima dottrina prima citata, come "endo-fallimentare" o "endo-concorsuale").
La specie di trust ora in discorso può involgere il trasferimento di beni da chi ne dispone a chi ne assume la gestione; alternativamente può connotarsi come "autodichiarato", imprimendo ai beni un vincolo di realizzazione dell'interesse die creditori, ma preservando la coincidenza di disponente e trustee con l‘esclusione di un trasferimento di beni propriamente detto.
Il trust liquidatorio può contemplare beneficiari, oppure connotarsi come trust di scopo. Nel primo caso, i beneficiari combaceranno con i creditori dell'impresa in crisi; nel secondo, il trust sarà mirato al fine del soddisfacimento delle ragioni dei creditori, secondo il principio della par condicio creditorum, con le limitazioni consentite dall'ordinamento.
Ora, in rapporto ad un soggetto giuridico già contrassegnato da uno stato di irreversibile decozione, appare evidente che lo strumento separativo, lungi dal rappresentare un mezzo al servizio della par condicio, corre il rischio di costituire una via di fuga dalla responsabilità. É proprio su questo punto di tensione che la pronuncia della S. Corte fissa opportunamente l'ampio compasso delle proprie argomentazioni.

La sottospecie del trust liquidatorio autodichiarato

S'è veduto che, nell'articolare il trust liquidatorio, il disponente può decidere di disporre verso sè stesso, separando e vincolando i propri beni, piuttosto che trasferirli a un fiduciario. È proprio questo il caso di specie giunto al vaglio della Corte, nel quale la società, in stato di liquidazione, istituiva in trust l'azienda, assumendo le veci di trustee.
Il dettato dell'art. 2 della Convenzione de L'Aja disegna una "struttura" dilatatissima di trust, entro cui è agevole ricomprendere anche il tipo di trust in questione. La nozione convenzionale non pretende alterità fra disponente e trustee, nè enuclea siccome indefettibile il trasferimento di beni dal primo al secondo. Consustanziale alla fattispecie è soltanto che taluni beni siano posti sotto il "controllo" del gestore. Peraltro è significativo che l'ultimo paragrafo dell'art. 2 permetta largamente al disponente di conservare "diritti e facoltà" sul trust.

La tripartizione dei trusts liquidatori enucleata dalla Suprema Corte

Merita riflettere dunque aul fatto che il trust liquidatorio è uno schema ampio e variamente articolabile, all'interno del quale finiscono per collocarsi ipotesi differenti. Esaminando nello specifico il trust liquidatorio, ridefinibile per sforzo di sintesi come la segregazione patrimoniale di tutto il patrimonio aziendale per provvedere, in forme privatistiche, alla liquidazione dell'azienda sociale, la Cassazione individua tre astratte possibili situazioni: a) il trust viene concluso per sostituire in toto la procedura liquidatoria, al fine di realizzare con altri mezzi il risultato equivalente di recuperare l'attivo, pagare il passivo, ripartire il residuo e cancellare la società; b) il trust è concluso quale alternativa alle misure concordate di risoluzione della crisi d'impresa (c.d. trust endo-concorsuale); c) il trust viene a sostituirsi alla procedura fallimentare ed impedisce lo spossessamento dell'imprenditore insolvente (c.d. trust anticoncorsuale).
In definitiva è triplice il piano d'incidenza possibile entro il quale il trust “della crisi d'impresa” può ordinariamente presentarsi: i) o esso viene concluso per sostituire la procedura liquidatoria per realizzare con altri mezzi gli obiettivi di recupero dell'attivo, pagamento del passivo, riparto del residuo e cancellazione della società; ii) o esso viene percorso come strada alternativa alle misure concordate di soluzione della crisi d'impresa; iii) o esso viene sostituito alla procedura fallimentare (alla quale si contrappone), impedendo finanche lo spossessamento dell'imprenditore insolvente.
La prima delle ipotesi segnalate attiene al caso in cui tutto il patrimonio di una società in fase di scioglimento viene conferito in un trust allo scopo di procedere ad una liquidazione negoziale che, nei fatti, surroga e rimpiazza quella codicistica, esautorando il liquidatore dal suo ruolo, svuotato, in fatto, di contenuti. In questa ipotesi il problema è quello – efficacemente affrontato da una nota giurisprudenza di merito – di stabilire se l'autonomia privata possa conquistare un àmbito presidiato dalla disciplina legale della liquidazione: la costituzione del trust potrebbe essere diretta a schivare i penetranti meccanismi di controllo e di responsabilità, posti a tutela dei soci e dei creditori, cui il liquidatore è soggetto (cfr. Trib. Reggio Emilia, 14 marzo 2011, in ilcaso.it).
Più in dettaglio e a onor del vero, sembra rilevare, perlomeno in astratto, la legittimità dell'istituto, alla luce del favore dimostrato dai diversi stadi della riforma che si sono succeduti in questi anni, tutti orientati all'incentivazione delle gestioni concordate delle crisi d'impresa. I giudici di legittimità ne sono assolutamente consapevoli, tanto da osservare: nel primo caso ”potrebbe dirsi lo strumento vietato, qualora si esiga che esso, per essere riconosciuto nel nostro ordinamento, assicuri un quid pluris rispetto a quelli già a disposizione dell'autonomia privata nel diritto interno. Non sembra però che l'ordinamento imponga questo limite, alla luce del sistema rinnovato dalle riforme attuate negli ultimi anni, che ammettono la gestione concordata delle stesse crisi d' impresa”. Negli altri due casi, il problema si aggrava, in quanto la verifica della rispondenza dello strumento ad una causa concreta lecita, quindi meritevole, va sottoposta ad un vaglio particolarmente attento, potendo di fatto contrastare con i fini di cui siano espressione norme imperative interne.

La criticità del fallimento sopravvenuto e la metodologia della causa concreta

Allorchè il debitore-disponente "programmi" nell'atto istitutivo la sopravvivenza del trust al proprio fallimento, il trust ingenera un insanabile attrito con le norme sulla liquidazione fallimentare, che impongono al curatore di acquisire per intero i beni del fallito, in virtù dello spossessamento generale previsto dall‘art. 42 l fall. (v. F. Dimundo, Trust interno istituito da società insolvente in alternativa alla liquidazione fallimentare, in Fallimento, Profili del trust nelle procedure concorsuali, 2010, 10).
Su questa premessa, veniamo al nucleo centrale della pronuncia. La pronuncia della Corte d'appello di Milano aveva ritenuto che il successivo fallimento della società disponente rendesse inefficace il trust, adoperato in una prospettiva di evidente elusione della disciplina concorsuale, avuto riguardo all'intervenuta cancellazione della società dal registro delle imprese a strettissimo giro rispetto all'istituzione del patrimonio segregato.
È il caso di ricordare che, da quasi un decennio, la giurisprudenza di legittimità ha accolto, in àmbito negoziale, la teoria della causa concreta, quale funzione economico-individuale del contratto o "sintesi degli interessi reali che il contratto è diretto a realizzare" (si ricorderà Cass., 8 maggio 2006, n. 10490, in Foro it., Rep., 2006, voce Contratto in genere, n. 438; Cass., 24 luglio 2008, n. 16135, in Contratti 2008, 3, 241; Cass., 20 dicembre 2007, n. 26958, in Giust. Civ. Mass., 2007, 12).
È proprio la causa “concreta” ad assurgere, nella lucida lettura della Suprema Corte, ad elemento discretivo e discriminante fra trusts riconoscibili e trusts inservibili. Ciò sul presupposto, puntualmente rammentato in sentenza, che lo strumento d'origine anglosassone si presta ad esser piegato al raggiungimento degli scopi pratici più disparati. Ed è tale circostanza a rendere ineludibile, nell'ottica di valutarne la liceità, un'analisi degli specifici interessi perseguiti e dell'assetto ultimo e delle dinamiche che li articolano compiutamente. Detta verifica è quel che consente di cogliere la ragione pratica dell'operazione e di rilevarne, nel raffronto coi principi dell'ordinamento, l'effettiva liceità.
Per riprendere le incisive parole della Prima Sezione: “al fine di valutarne la liceità, occorre esaminare le circostanze del caso da cui desumere la causa concreta dell'operazione: particolarmente rilevante in uno strumento estraneo alla nostra tradizione di diritto civile e che si affianca, in modo particolarmente efficace, ad altri esempi di intestazione fiduciaria volti all'elusione di norme imperative”.
Mossa da quest'approccio, la Corte di cassazione approda ad una conferma: qualora la causa concreta del trust sia quella di segregare tutti i beni dell'impresa, a scapito delle forme di liquidazione disciplinate dalla legge fallimentare, il trust assume un carattere “anti-concorsuale”, che non può considerarsi ammissibile.
Pertanto, nell'ottica della Suprema Corte “il negozio non ha l'effetto di segregazione desiderata” e la sua inefficacia “non è esclusa né dal fine dichiarato di provvedere alla liquidazione armonica della società nell'esclusivo interesse del ceto creditorio (od equivalenti), né dalla clausola che, in caso di procedura concorsuale sopravvenuta, preveda la consegna dei beni al curatore”.
D'altronde, il nostro sistema giuridico non può “fornire tutela ad un regolamento di interessi che, pur veicolato da negozio in astratto riconoscibile in forza di convenzione internazionale, in concreto contrasti con i fini di cui siano espressione norme imperative interne”.
Il trust istituito dal debitore insolvente si pone, in definitiva, “oggettivamente in contrasto con il principio di tutela del ceto creditorio” e “non consente il normale svolgimento della procedura a causa dell'effetto segregativo, il quale impedirebbe al curatore di amministrare e liquidare l'azienda e, in generale, i beni conferiti in trust”.
La riflessione della S. Corte è appropriata al tema. Il fatto che la Convenzione de L'Aja abbia riconosciuto che il trust e il trasferimento o la destinazione di beni, che ne riassumono il profilo funzionale, legittimamente rispondano ad una astratta causa segregativa "fiduciaria", non esclude che, nel singolo caso, debba verificarsi a quale causa in concreto il trust e la segregazione diano corso.
L'interesse da perseguirsi non può ragionevolmente coincidere con la mera segregazione dei patrimoni, essendo quest'ultima l'effetto dell'istituto, non già il fine in sè considerato.
Volta per volta non è dato sottrarsi all'interrogativo seguente: per quale specifica dinamica di interessi "pratici" in gioco il disponente opta per il vincolo segregativo nel contesto di una liquidazione di beni?
L'interesse meritevole di tutela va perseguito in concreto e, nella generalità delle applicazioni del trust della crisi, di tale interesse è offerta una ricorrente traccia: rendendere "insensibili" taluni beni alle aggressioni immediate dei singoli creditori e consentirne la monetizzazione secondo un modulo gestionale "dinamico", qual è quello consustanziale al trust nella disciplina delle principali leggi regolatrici. Rimane da vedere se detto interesse trovi uno spazio finale utile nell'orizzonte pubblicistico compresso della legge fallimentare.

Le norme di applicazione necessaria sulla liquidazione

La S. Corte ricorda opportunamente che la Convenzione dell'Aja regola la possibilità di riconoscere gli effetti in Italia del trust, assoggettandolo alla legge scelta dalle parti o a quella individuata secondo le regole della stessa convenzione (art.6-10), mentre l'atto di trasferimento dei beni in trust è disciplinato dalla lex fori (art. 4).
In ragione dell'originalità ed atipicità del trust rispetto alla tradizione di molti ordinamenti, la Convenzione dell'Aja contiene plurime limitazioni alla sua efficacia, negli articoli 13, 15, comma 1, lett. e), 16 e 18.
Due norme hanno speciale rilievo: l'art. 15 lett. e) teso a far prevalere la legislazione interna nel caso in cui l'istituto sia in contrasto con le tutele in materia di protezione dei creditori in caso d'insolvenza; l'art. 18 della Convenzione volto ad escludere l'osservanza delle disposizioni in essa contenute, quando la loro applicazione è manifestamente incompatibile con l'ordine pubblico.
Dall'art. 15 è d'uopo evincere che un trust in conflitto con la protezione dei creditori in casi di insolvibilità può non essere riconosciuto, ma non può certo reputarsi inficiato nella sua validità, atteso che la sua disciplina sostanziale è perspicuamente rimessa, ex art. 8 della Convenzione, proprio alla legge regolatrice optata dal disponente.
È nel contesto della "causa concreta" che l'atto istitutivo del trust interno non deve cozzare con i limiti stabiliti dalle regole di conflitto, richiamate dall'art. 16 della stessa Convenzione de L'Aja, in forza del quale la Convenzione "non pregiudica quelle norme sui conflitti di legge la cui applicazione s'impone anche alle situazioni internazionali qualunque sia la legge designata dalle norme di conflitto stesse".
Il "filtro" dell'art. 16 esclude che l‘atto istitutivo di un trust possa soppiantare con regole diverse le norme di c.d. applicazione necessaria. In tal caso – come si dirà poco oltre, più ampiamente – il trust sarebbe destinato, infatti, a non essere "riconosciuto" dall'ordinamento interno, nel cui ambito non avrebbe àdito e non diverrebbe "operativo".
Del resto, l'art. 13 della medesima Convenzione, atteggiandosi eminentemente a "norma di chiusura", nega sic et simpliciter che il trust, anche interno, possa essere "riconosciuto", allorchè la legge regolatrice prescelta null'altro appaia se non il mezzo per l‘aggiramento di norme interne imperative, plasmandolo a modalità negoziale di perseguimento di finalità interdette dal sistema giuridico
Le considerazioni svolte segnano un punto fermo: ove la causa concreta del regolamento del trust sia quella di segregare tutti i beni dell'impresa nell'intento di obliterare le forme pubblicistiche della liquidazione fallimentare, che è strutturata su procedure e requisiti a tutela dei creditori del soggetto insolvente, l'ordinamento non può per vero accordarvi tutela.
II trust, infatti, smarca il patrimonio o l'azienda, tanto rispetto al suo titolare, quanto rispetto al curatore (quale rappresentazione ellittica dei creditori), impedendo la liquidazione “vigilata” dei beni secondo il sistema prefigurato dalla legge fallimentare, in ossequio a principi di rilevanza pubblicistica, quali la par condicio.
Nella misura in cui la liquidazione dei beni della debitrice insolvente venga tolta dal quadro dei compiti propri del curatore e ricollocata su un incerto piano “negoziale”, parallelo agli schemi della legge fallimentare, si determina l'effetto inammissibile di scostare il patrimonio del debitore dall'alveo dei procedimenti pubblicistici di gestione concorsuale delle crisi d'impresa irreversibili.
L'aberrazione insolubile sta in ciò, che il curatore viene disimpegnato dal ruolo di direzione della liquidazione, in un rapporto che è insieme costante e virtuoso con il giudice delegato controllante. A rimpiazzare il curatore è l'incertezza comunque connessa alla discrezionalità di un trustee.
La prospettiva è nitida: l'impiego del trust crea un comodo esonero dalle forme della liquidazione fallimentare e dei meccanismi che ne scandiscono indefettibilmente i momenti, il che si pone in patologica frizione tanto con le norme inderogabili ed i principi di ordine pubblico in materia di procedure concorsuali, tanto con l'articolo 15 della Convenzione il quale espressamente prevede che la Convenzione non possa costituire ostacolo all'applicazione delle disposizioni della legge designata dalle norme del foro sul conflitto di leggi in tema di "protezione dei creditori in caso di insolvenza", aggiungendo, all'ultimo comma, che "qualora le disposizioni del precedente paragrafo siano di ostacolo al riconoscimento del trust, il giudice cercherà di attuare gli scopi del trust in altro modo".
Se si guarda, come suggerito dalla Cassazione, alla “causa concreta” del regolamento del trust, ci si avvede come, ove essa sia quella di “segregare tutti i beni dell'impresa, a scapito di forme pubblicistiche quale il fallimento, che detta dettagliate procedure e requisiti a tutela dei creditori del disponente, l'ordinamento non può accordarvi tutela”.
Al curatore non può esser preclusa, in definitiva, la disponibilità dell'attivo societario; è al curatore che spetta irrinunciabilmente il “pallino” della liquidazione concorsuale. Al giudice delegato, dal canto suo, non può esser precluso per un solo istante il controllo pubblicistico della monetizzazione dei beni, del recupero dell'attivo, della sua susseguente ripartizione.
È il complesso omogeneo di questi profili ad assommarsi in un dato d'orientamento complessivo dell'operatore del diritto, prima ancora dell'interprete: il trust può agevolare, non sostituire – neppure parzialmente – forme che il legislatore assume come irrinunciabili. Prosegue incisivamente la pronuncia che “il trust, sottraendo il patrimonio o l'azienda al suo titolare ed impedendo una liquidazione vigilata – in quanto rimette per intero la liquidazione dell'attivo alla discrezionalità del trustee – determina l'effetto, non accettabile per il nostro ordinamento, di sottrarre il patrimonio del debitore ai procedimenti pubblicistici di gestione delle crisi d'impresa ed all'attivo fallimentare della società settlor il patrimonio stesso”.
Dunque, il trust non consente di pervenire ad una sua positiva valutazione, quando la struttura dell'operazione evidenzia il perseguimento d'interessi proprî del disponente, piuttosto che dei creditori, benché si dichiari il contrario. E non può trascurarsi, a ben vedere, che taluni indici possono valere ad escludere il buon esito di detta valutazione: si pensi, principalmente, alla coincidenza di disponente e trustee; si pensi alla previsione di figure di guardiani del trust coincidenti con soggetti riconducibili alla compagine azionaria della stessa disponente; si immaginino protectors “disabilitati” alla revoca del trustee o privi di reali prerogative di esercizio in concreto di un controllo sull'operato del gestore.

Lo spartiacque dell'insolvenza

Nel caso vagliato dalla Suprema Corte, il trust era stato sintomaticamente istituito quando l'impresa versava in uno stato di insolvenza, a cagione del quale veniva poi dichiarato il fallimento. È un dato essenziale di contesto.
Ove il trust intervenga, in concomitanza con un'insolvenza già riscontrabile, con finalità liquidatorie del patrimonio sociale, esso finisce per rispondere all'opzione di sostituire in toto le forme liquidatorie fallimentari, nell'ottica di realizzare, con altri mezzi, il recupero e la massimizzazione dell'attivo, il pagamento del passivo, la restituzione eventuale del residuo. Il trust, in tal guisa, assurge a sostituto anomalo della procedura fallimentare (almeno per quel che concerne la fase cruciale di liquidazione dei beni), escludendo finanche lo spossessamento, ex art. 42 L.F., dell'imprenditore insolvente.
Lo strumento segregativo d'importazione non può che veder pregiudicato il proprio ingresso nel contesto applicativo interno allorquando si comparano “strumenti di cui l'uno, il trust, ancorato a regole ed interessi comunque privati del disponente, e l'altro di natura schiettamente pubblicistica, qual è la procedura concorsuale, destinata a sopravvenire nel caso di insolvenza a tutela della par condicio creditorum e che non è surrogabile da strumenti che (ove pure siano trasferiti al trustee anche i rapporti passivi) nè garantiscono tale parità, nè escludono procedure individuali, nè prevedono trattative vigilate con i creditori al fine della soluzione concordata della crisi, nè contemplano alcun potere di amministrazione o controllo da parte del ceto creditorio o di un organo pubblico neutrale”.
Pertanto, la disamina della tenuta operativa del trust presuppone un'indagine, che si sposta necessariamente da un piano dogmatico-teorico ad un piano operativo, attraverso una valutazione complessiva indirizzata a soppesare la causa concreta del programma negoziale del trust e della meritevolezza degli interessi ad esso correlati, in ossequio ai principi generali che presidiano il giudizio di liceità di qualsiasi fattispecie negoziale.
L'avviso della Suprema Corte ha il pregio di delimitare un argine al ricorso abusivo alla segregazione: i trusts non possono giovare a sottrarre alle procedure concorsuali l'attivo patrimoniale di società vicine (o prossime) al fallimento in danno dei creditori, per "blindare" il patrimonio di imprenditori in difficoltà economica; né i trusts potrebbero, in ipotesi, servire a schermare beni di persone soggette a misure di prevenzione, evitando così di esporli al sequestro o alla confisca.
Il “salvataggio” del trust nel contesto di una conclamata decozione alimenterebbe intollerabili distorsioni. La prima si sostanzierebbe nello svuotamento radicale dei poteri del curatore, che in rappresentanza dei creditori finirebbe per doversi limitare a chiedere il rendiconto della gestione previsto dall'atto istitutivo del trust, oppure a perorare presso il guardiano la sostituzione del trustee con una persona di sua fiducia.
Ed allora, laddove l'insolvenza costituisca – come nel caso vagliato dalla Corte d'appello di Roma e approdato in Cassazione – un dato aprioristico rispetto alla messa in opera del congegno segregativo, quest'ultimo assume la sintomatologia propria dell'abuso, esprimendo una dimensione artificiosamente elusiva delle disposizioni concorsuali, che si esaspera nella spoliazione ai danni del curatore della disponibilità dell'attivo societario.
L'operatività del trust non potrà che essere, pertanto, ab initio interdetta, ogni qualvolta l'insolvenza, poi acclarata nella sentenza dichiarativa di fallimento, preesista all'atto istitutivo.

Il panorama giurisprudenziale edito

La mappa giurisprudenziale degli ultimi anni ha registrato numerose pronunce aventi ad oggetto il trust liquidatorio, la maggior parte delle quali ne ha negato la validità e l'ammissibilità (Trib. Milano - Sez. Dist. Legnano, 8 gennaio 2009, in Trusts e att. fid., 2009, 634; Trib. Milano, 16 giugno 2009, in Trusts e attività fiduciarie, 2009, 533; Trib. Milano, 17 luglio 2009, Trusts e attività fiduciarie, 2009, 628; Trib. Milano, 30 luglio 2009, Trusts e attività fiduciarie, 2010, 80; Trib. Milano, 22 ottobre 2009, Corr. mer., 2010, 388; App. Milano, 29 ottobre 2009, Trusts e attività fiduciarie, 2011, 146; Trib. Alessandria, 24 novembre 2009, Guida al diritto, 9/2011, n. 7, 77; Trib. Milano, 29 ottobre 2010, Guida al diritto, 9/2011, n. 7, 75; Trib. Reggio Emilia, 14 marzo 2011, Le Società, 2011, 855; Trib. Mantova, 25 marzo/18 aprile 2011, Trusts e attività fiduciarie, 2011, 529; Trib. Brindisi, 28 marzo 2011, Trusts e attività fiduciarie, 2011, 639; Trib. Bolzano, 17 giugno 2011, Trusts e attività fiduciarie, 2012, 177; Trib. Bolzano, 23 luglio 2011, Trusts e attività fiduciarie, 2012, 178; Trib. Milano, 12 marzo 2012, Le Società, 2012, 625).
L'orientamento in discorso è stato determinato dalle applicazioni distorte ed alterate dell'istituto, frequentemente riscontrabili nella prassi, frequentemente rivelatrici di un ricorso allo strumento per fini in realtà ben diversi da quelli affermati nell'atto istitutivo.

L'inadeguatezza del riferimento alla categoria della nullità

È accaduto, nel recente passato, che giudici di merito ritenessero nullo il trust liquidatorio, ai sensi dell'art. 1418 c.c., allorché avesse l'effetto di sottrarre, agli organi della procedura fallimentare, la disponibilità e la monetizzazione di beni aziendali, in contrasto con le norme imperative sulla liquidazione ricomprese nella legge fallimentare (la tesi della nullità del Trust istituito dall'imprenditore o dalla società in stato di insolvenza costituisce l'orientamento prevalente nella giurisprudenza: Trib. Milano, 16 giugno 2009; App. Catania, 16 novembre 2012; Trib. Milano, 27 maggio 2013).
Nello specifico, il trust liquidatorio comprensivo dell'intero patrimonio di chi dispone è stato ritenuto nullo per contrasto con gli artt. 13 e 15 della Convenzione, in quanto capace di violare una disciplina – quella della legge fallimentare – per sua natura sottratta alla disponibilità degli attori del mercato.
La tesi della nullità ab origine del trust si accompagna, nel contesto giurisprudenziale richiamato, all'asserzione secondo cui l'impresa che versi già in stato d'insolvenza sarebbe obbligata a chiedere il proprio fallimento e, quindi, a sottomettersi alla liquidazione concorsuale, stante l'intervenuta perdita dei mezzi propri.
Di converso conferendo l'intero proprio patrimonio in trust liquidatorio – nonostante il fine dichiarato nell'atto istitutivo sia quello di tutelare le ragioni di tutti i creditori attraverso la liquidazione dei beni nel loro interesse – l'impresa non farebbe altro che costituire un negozio diretto dissimulatamente a togliere agli organi della procedura la liquidazione dei beni, in assenza del presupposto sul quale immancabilmente poggia il potere dell'impresa di gestire il proprio patrimonio, ossia l'esser dotata di mezzi propri. Viene evocata, segnatamente, la figura del negozio in frode alla legge (art. 1344 c.c.).
Merita segnalare che, nel quadro concettuale in discorso, il Tribunale di Milano ha fatto uso della categoria della nullità sopravvenuta, ritenendo che il trust costituito da impresa in bonis, che vi conferisce l'intero patrimonio, per quanto originariamente lecito e rispondente ad interessi meritevoli di tutela, rinviene nell'eventuale successivo fallimento una causa sopravvenuta di scioglimento per contrasto con l'art. 15 lett. e) della Convenzione de L'Aja, che esclude possa sostituirsi una liquidazione d'impronta negoziale alla liquidazione fallimentare (Trib. Milano del 16 giugno 2009 cit.).
Va detto che la fattispecie della nullità sopravvenuta non convince ed è da sempre osteggiata dalla prevalente giurisprudenza e dottrina italiana, secondo cui l'invalidità radicale di un atto sorge contestualmente all'atto stesso e non può essere postuma, né dipendere da un evento futuro che, in alcuni casi, potrebbe non verificarsi mai (cfr., ex multis, Cass. 5 aprile 2001, n. 5052, in Foro it., 2001, I, 2185; in dottrina, Scognamiglio R., Scritti giuridici, I, p. 208).
Ancora recentissimamente, e dopo la pronuncia di legittimità in commento, affiancandosi alla prevalente giurisprudenza di merito prima indicata, il Tribunale di Napoli, con sentenza del 3 marzo 2014, ha dichiarato nullo il trust istituito da un'impresa insolvente, sottolineando che lo strumento, sebbene adoperato con il dichiarato intento di assicurare il maggiore soddisfacimento dei creditori, si mostra “elusivo della disciplina fallimentare e in particolare delle norme inderogabili che presiedono alla liquidazione concorsuale”. Anche in questo arresto di merito, l'esito negativo della valutazione viene mutuato dall'art. 15, lett. e.
Ora, se quella narrata è la prospettiva prevalente tra le corti di merito, mette punto osservare che il discrimen tra trust liquidatorio valido o invalido non può essere individuato nell'esistenza o meno dell'insolvenza del disponente, al momento della sua costituzione. Ed infatti – come è stato acutamente osservato (D. Galletti, Il trust e le procedure concorsuali: una convivenza subito difficile, Giur. comm., 2, 2011, 900) – se l'imprenditore insolvente avesse il dovere di richiedere il proprio fallimento, allora tutte le soluzioni ad esso alternative (piani di risanamento, accordi di ristrutturazione, concordato preventivo), alle quali la nuova legge fallimentare consente di ricorrere, si muoverebbero in uno spazio illecito e partorirebbero accordi nulli, perché preordinati per propria indole ad eludere la legge concorsuale.
Nè si comprende come un avvenimento successivo (nella specie il fallimento), attinente al disponente – la cui presenza, nella dinamica operativa del trust, perde sostanzialmente rilevanza una volta avvenuto il trasferimento dei beni in capo al trustee – possa incidere su un istituto, che più non lo riguarda (quanto meno direttamente), tanto da costituire causa sopravvenuta di scioglimento dell'atto istitutivo.
In realtà, a parte queste considerazioni, la tesi della nullità si sgretola già al cospetto dei dati normativi.
In primo luogo, la categoria della nullità è disadatta, sol che si consideri che il trust è, per definizione, anche avuto riguardo al suo "momento" d'origine, quindi all'atto istitutivo, disciplinato dalla legge straniera scelta dal disponente ex art. 6 della Convenzione, l'unica, d'altronde, che "lo conosce".
In secondo luogo, l'art. 15, lett. e), della Convenzione dell'Aja prevede che quest'ultima, nell'obbligare i singoli Stati al riconoscimento del trust, non ostacola l'applicazione delle disposizioni poste a tutela dei creditori, rimandando, dunque, integralmente ad esse per la qualificazione della fattispecie e per l'individuazione dei rimedi attivabili.
Ora, dire che la costituzione di un trust può contrastare con la disciplina che assoggetta l'impresa insolvente alla procedura fallimentare è affermazione fin troppo generica. Occorre, infatti, individuare qual è l'interesse leso e quali siano i meccanismi approntati dall'ordinamento per tutelarlo. Il pregiudizio che la costituzione del trust determina si risolve nel sottrarre al fallimento beni che altrimenti sarebbero stati oggetto di liquidazione concorsuale. Un pregiudizio non diverso, a ben vedere, da quello arrecato da qualsiasi atto di disposizione, non rilevando la dimensione quantitativa quale ragione di una qualificazione diversa della fattispecie. E la risposta dell'ordinamento a questo pregiudizio è l'azione revocatoria, con la conseguente inopponibilità al fallimento dell'atto.
Il riferimento alla nullità, dunque, risulta improprio, perché sovverte completamente la logica immanente al sistema che assume l'inopponibilità, non già la nullità, quale rimedio a fronte di atti che pregiudicano la garanzia patrimoniale dei creditori. Per gli atti che incidono direttamente sul patrimonio, determinandone una riduzione, il rimedio previsto dall'ordinamento è solo l'azione revocatoria e oggetto di revoca non è l'atto istitutivo del trust, ma l'atto di destinazione con il quale il singolo bene viene assoggettato al vincolo in favore dei beneficiari che individua il trust quale massa separata (v. S. Leuzzi, L'azione revocatoria in ambito di trust, in Giustizia Civile.com). Ragionando diversamente, tutti gli atti di alienazione, e più in generale tutti gli atti di disposizione, andrebbero considerati limitativi della responsabilità patrimoniale e fatti cadere sotto il divieto posto dall'art. 2740 c.c.. Il che è un'evidente aberrazione.
Orbene, se ci si convince dell'inidoneità del riferimento diffuso all'invalidità radicale del negozio, non v'è spazio, al netto delle considerazioni appena svolte sul ruolo essenziale dell'actio pauliana ex art. 2901 c.c. (e se del caso della revocatoria fallimentare), che per una presa d'atto: ove il giudice accerti che il trust è adoperato da un'impresa insolvente, esso non è "riconoscibile" ai sensi della Convenzione, sicchè non produrrà alcun effetto nel nostro ordinamento, difettando in nuce della capacità di dispiegarsi nell'ordinamento interno e di produrvi effetti giuridici.
Il cerchio si chiude e l'azione revocatoria conserva il ruolo di "valvola" del sistema: al suo esercizio non sarà, infatti, d'ostacolo neppure il mancato riconoscimento del trust liquidatorio, atteso che i negozi di trasferimento si distinguono strutturalmente dall'atto istitutivo del trust e sono integralmente sottoposti al diritto interno.

La sanzione del "non riconoscimento"

É ben possibile, dunque, che il trust liquidatorio si connoti come fraudolento. Il caso emblematico è proprio quello giunto al vaglio della S. Corte, in cui, alla messa in liquidazione di una società, facevano sèguito, in primis, il conferimento in trust da parte del legale rappresentante di tutti i beni aziendali; in secundis la chiusura immediata della società, con la richiesta di cancellazione dal registro delle imprese, all'ovvio scopo, sia pur sotto traccia, di far trascorrere l'anno di cui all'art. 10 l. fall., spirato il quale non può (non potrebbe) più pronunciarsi il fallimento della società.
La descritta scansione di atti disvela due obiettivi convergenti: bypassare elusivamente norme imperative quali sono senz'altro quelle di cui agli artt. 2484 e ss. c.c., che presidiano, a tutela della platea dei creditori, la procedura di liquidazione delle società di capitali; sottrarre la società alle norme, del pari imperative, che pubblicisticamente governano le procedure concorsuali e il fallimento in particolare.
Il trust in questione, come ogni altro cui sia avulso un interesse meritevole, si paleserà insuscettibile di riconoscimento ai sensi dell'art. 13 della Convenzione, in quanto all'evidenza immeritevole di tutela. È questo l'approdo finale e ineccepibile del ragionamento della S. Corte.
In buona sostanza, la sanzione per tutti i trust fraudolenti è quella della "irricevibilità", ossia quella fondata sull'esercizio della facoltà "convenzionale" del "non riconoscimento".
L'art. 13 possiede il rango della "norma di chiusura", adatta a far pulizia preventiva dei trusts elusivi, rendendo il giudice depositario del potere-dovere di estromettere dal sistema, ab origine, ciascun trust che dipani in concreto una somma di interessi (e di obiettivi) in fraudolento contrasto con i precetti cogenti dell'ordinamento interno.
Ora, il trust che nasce dentro al fuoco dell'insolvenza finisce per palesarsi immediatamente “non riconoscibile”, proprio nella misura in cui delinea un regolamento di interessi che, pur veicolato da un negozio in astratto riconoscibile in forza di convenzione internazionale, in concreto contrasta con i fini di cui sono espressione le norme imperative interne (o quelle di applicazione necessaria).
E la correttezza del metodo analitico, che guarda alla sintesi degli interessi correlati all'operazione negoziale, ossia alla causa concreta, è immanente alla Convenzione ratificata. Non è casuale che secondo l'art. 2 di quest'ultima, ciò che caratterizza il trust è lo scopo di costituire una separazione patrimoniale in vista del soddisfacimento di un interesse del beneficiario o del perseguimento di un dato fine. Il “programma di segregazione” del patrimonio rappresenta, in definitiva, solo lo schema astratto, dovendosi esaminare le circostanze del caso “reale”, onde valutare la liceità momento compiutamente empirico.
In quello che si potrebbe compendiare e definire, allora, come il “caso del trust dell'impresa insolvente” èconseguente e coerente che il giudice che dichiara il fallimento della società provveda incidenter tantum – come indicato dalla S. Corte – a negare il riconoscimento al trust liquidatorio, congegnato alla stregua di metodo sostitutivo (o nel migliore dei casi succedaneo) della liquidazione fallimentare, secondo le regole di esclusione espresse dall'art. 13 e dall'art. 15, lett. e), della convenzione dell'Aja dell'1 luglio 1985, ratificata con legge 364/1989.
Il ruolo di “norma-setaccio” tocca, quindi, nel sistema, all'art. 13, che consente di interdire il riconoscimento del trust laddove, al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 15, 16 e 18 della Convenzione, esso si presenti abusivamente produttivo di effetti ripugnanti per l'ordinamento, configgendo coi principi d'ordine pubblico o travolgendo norme di applicazione necessaria.
Occorrono nondimeno talune puntualizzazioni. In effetti, ove il trust sia regolato da una legge estera richiamata nell'atto costitutivo (ai sensi dell'art. 6 della Convenzione), la validità del medesimo, riguardato quale atto istitutivo, va senz'altro appurata – lo si è accennato al paragrafo che precede – alla stregua di quella disciplina. Ma al vaglio di validità secondo la disciplina straniera prescelta è preliminare – come efficacemente messo in luce nella pronuncia in commento – la formulazione di un giudizio di riconoscibilità del trust, nel raffronto con le norme inderogabili nostrane, in materia di procedure concorsuali.
Laddove, infatti, il trust si configuri oggettivamente incompatibile con queste, lo strumento sarà cassato nella sua operatività dal “non riconoscimento”: il giudice che pronuncerà il fallimento, lo disconoscerà per inciso.
In ultima analisi, la conseguenza che la Suprema Corte trae, in relazione all'attrito fra la segregazione fiduciaria e i principi di rilevanza pubblicistica disseminati nella legge fallimentare e che riconnettono alle forme di quest'ultima la non abdicabile regolazione della fase liquidatoria, costituisce il fulcro del suo ragionamento: il trust liquidatorio deve essere disconosciuto dal giudice del merito, ogni volta che sia dichiarato il fallimento per essere accertata l'insolvenza del soggetto, ove l'insolvenza preesista all'atto istitutivo.
La sanzione della nullità (ex art. 1343, 1344, 1345, 1418 c.c.) presuppone che l'atto sia stato riconosciuto dal nostro ordinamento; il conflitto fra il trust e la disciplina inderogabile concorsuale determina, invece, nella prospettiva della S. Corte, la stessa inesistenza giuridica del trust nel diritto interno.
Rovesciando la prospettiva, si può dire che l'effetto dell'applicazione delle norme “indisponibili” conduce alla privazione completa degli effetti del trust, sub specie di mancato riconoscimento, che, nel linguaggio della Convenzione, è sinonimo dell'assenza di efficacia del trust nell'ordinamento; allo strumento, in altre parole, non è concessa cittadinanza nel diritto italiano. A quel punto, l'articolo 15, comma 2, imporrà al giudice di provare a ricercare altri mezzi con cui dar corso allo scopo del trust.

Il mancato riconoscimento e le ricadute sugli atti di dotazione

Ma quale destino giuridico contrassegna i trasferimenti di beni correlati ad un trust che il giudice abbia detto non riconoscibile?
Secondo l'art. 4 della Convenzione dell'Aja, questa non si applica alle questioni preliminari relative alla validità degli “atti giuridici in virtù dei quali dei beni sono trasferiti al trustee. Dal momento che il negozio istitutivo del trust si pone come antecedente causale dell'attribuzione patrimoniale operata con l'atto di trasferimento dei beni, ove non riconoscibile il primo, diviene privo di causa il secondo (nullo ex art. 1418, comma 2, prima parte, c.c., perchè operato in esecuzione di negozio non riconoscibile). In termini sintetici, se l'atto istitutivo del trust è tamquam non esset, il trasferimento dei beni o dell'azienda in favore del trustee non può che essere nullo difettando del suo presupposto. Quella dei giudici di piazza Cavour è una precisazione concettuale di pregio essenziale.
In buona sostanza, se quello della nullità del trust è l'avviso invalso nella maggioritaria giurisprudenza di merito, la Cassazione imbocca una più condivisibile e raffinata via ermeneutica: la nullità del negozio (o dei negozi) di dotazione non discende dal contrasto diretto – dal “falso contatto”, si potrebbe dire – con talune disposizioni della Convenzione dell'Aja (art. 15 comma 1, lett. e), bensì dall'evidente assenza di una causa negoziale, la quale a sua volta può asserirsi in ragione della non riconoscibilità nel nostro ordinamento di un trust liquidatorio rogato in costanza di uno stato di insolvenza (non riconoscibilità, questa sì, conseguente all'operatività delle norme della Convenzione).
Aderire all'impostazione della giurisprudenza di legittimità non è un mero esercizio dogmatico, innescando importanti conseguenze operative, che salvano, tanto la linearità concettuale del sistema, quanto probabilmente gli spazi applicativi del trust nel contesto della crisi d'impresa.
Ad ogni modo, venuto meno il trust e con esso i trasferimenti al trustee, il curatore – è importante rammentarlo –, per effetto dello spossessamento fallimentare che priva il fallito della disponibilità di suoi beni, tra i quali sono da ricomprendere tutti i diritti patrimoniali inefficacemente trasferiti, potrà materialmente procedere all'integrale apprensione di essi.

L‘irrilevanza delle clausole di salvaguardia

La causa fiduciae astratta del trust è stata riconosciuta e tipizzata dal nostro legislatore mediante la legge di ratifica della Convenzione de L'Aja. Cionondimeno, la causa concreta andrà vagliata – lo si è visto – volta per volta dal giudice, al quale rimane assegnato il delicato compito di ponderare la meritevolezza degli interessi sottesi allo specifico impiego negoziale, dovendo egli appurare che il programma disegnato dal disponente non miri a schermare il trust dall'incidenza di norme imperative o di applicazione necessaria.
Ma se quelli riassunti sono i termini corretti di "verifica preliminare" del singolo trust, appare evidente che gli impieghi dell'istituto incapperanno nella pietra d'inciampo del non riconoscimento solo in quanto strumentalmente votati a sottrarre abusivamente la debitrice alle norme sulla liquidazione fallimentare. Laddove i trust liquidatori facciano salve, almeno sullo sfondo, nell'atto istitutivo, le norme che disciplinano la monetizzazione dei beni in costanza di procedura fallimentare, non scontano criticità nel "contatto" con i precetti ad alta densità pubblicistica contemplati dal R.D. 16 marzo 1942, n. 267.
I trust liquidatori andrebbero resi adeguati a passare in senso favorevole il descritto "filtro" del riconoscimento ex art. 13 della Convenzione. Il che sembrerebbe accadere ogni qualvolta essi contemplino l'espressa previsione della loro cessazione in concomitanza con il concretizzarsi dell'evenienza fallimentare. La cessazione andrebbe espressamente preveduta nell'atto istitutivo. L'ancoraggio del trust ad una "clausola di salvaguardia" che ne faccia venir meno l'operatività in correlazione alla pronuncia del fallimento potrebbe assumere rilevanza dirimente per le sorti del trust.
Ora, questo disegno concettuale terrebbe proficuamente se non fosse che il rigore del metodo d'approccio complessivo perorato dalla Suprema Corte fornisce un parametro di lettura tale da revocare in dubbio la riassunta impostazione.
In effetti, si era ritenuto in passato (v. Trib. Milano, 29 ottobre 2010) che il trust liquidatorio potesse armonizzarsi con la disciplina della Convenzione de L'Aja, art. 15 lett. e), semplicemente prevedendo che in caso di fallimento i beni fossero restituiti al curatore. L'istituto si prestava ad esser “salvato” attraverso l'inserimento di una "clausola di salvaguardia".
La S. Corte imbocca una via differente, attribuendo al dato dell'insolvenza una caratura decisiva e un'incidenza addirittura travolgente. Il dato della docozione preesistente genera il convincimento che un soggetto istituisca un trust solo per operare al di fuori di ogni tipo di controllo.

L'assenza di soggettività giuridica

La Cassazione coglie l'opportunità di chiarire altri aspetti relativi ai trusts interni, ossia veicolati nel nostro ordinamento dalla Convenzione dell'Aja sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento, il cui unico elemento di estraneità è rappresentato dalla legge straniera che li regola.
Per quanto non costituisca il cuore della pronuncia, di essenziale rilievo ai fini di un inquadramento concettuale congruo ed esatto dell'istituto, spesso travisato nelle ricostruzioni degli operatori e degli interpreti, è la precisazione sull'assenza di soggettività del trust: il trust non dà vita ad un nuovo soggetto dell'ordinamento.
Nel ricorso per cassazione veniva contestata la violazione dell'integrità del contraddittorio nel procedimento di dichiarazione del fallimento, in quanto il trust non era stato convocato. Sul punto della soggettività dell'istituto la Corte ribadisce che esso non costituisce una persona giuridica, ossia un soggetto a sé stante, ma solo un insieme di beni e rapporti con effetto di segregazione patrimoniale. In difetto di personalità giuridica del trust, è il trustee l'unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, e non quale “legale rappresentante” di un soggetto (che non esiste), ma come unico soggetto che dispone del diritto.

L'esclusione dell'attributo della residualità

Alcuni tribunali hanno osservato come il riconoscimento del trust (secondo l'articolo 13 della Convenzione) sia subordinato ad un suo impiego in via residuale rispetto agli istituti civilistici (v. Trib. Napoli, 19 novembre 2008, in Banca borsa tit. cred., 2010, 56 e Trib. Reggio Emilia, 14 marzo 2011, cit., con nota di Zanchi, In tema di trust liquidatorio). In altre parole, la possibilità di scelta di una legge straniera sarebbe limitata alla mancanza di strumenti noti nel nostro sistema in funzione del perseguimento di un determinato obiettivo economico. In questa prospettiva, sarebbero riconoscibili i soli trust portatori di un “valore aggiunto” rispetto ai modelli catalogati dal codice civile.
La presa di posizione della S. Corte assume con riferimento alla c.d. residualità del trust un valore assolutamente pregnante. La Cassazione dubita, infatti, della sussistenza di simile principio, rafforzando risolutivamente l'indirizzo intrapreso da due recenti provvedimenti del Tribunale di Urbino (v. i due provvedimenti, recanti la medesima data, Tribunale di Urbino, 11 novembre 2011, in Trusts e att. fid., 2012, p. 401 e p. 406).
Detti provvedimenti marchigiani si mostrano fortemente significativi nella misura in cui negano la possibilità di “affermare in via pretoria il principio della prevalenza del tipico sull'atipico”, constatando come l'autonomia contrattuale abbia una duplice portata, in quanto consente, non solo l'adozione di modelli atipici, purché assistiti da causa lecita (“intesa come scopo pratico perseguito dai contraenti, così dovendosi intendere il requisito della realizzazione di “interessi meritevoli”), ma permette anche di scegliere “tra modelli negoziali aventi analoga portata effettuale, siano essi tipici o atipici”.

I possibili spazi residui del trust liquidatorio in ambito concorsuale: i trusts endoconcordatari

La Corte di cassazione ha rilevato, nella pronuncia in discorso, che la ricerca di soluzioni alternative al fallimento è sì vista con favore dal legislatore, ma solo alla stringente condizione che le iniziative negoziate si svolgano sotto il controllo del ceto creditorio e del giudice, mantenendo la natura officiosa della procedura, anche perché – si ragiona in sentenza – la soluzione concordata non investirebbe tutte le fasi dell'accertamento dei crediti, dell'acquisizione dell'attivo, del riparto, ma solo taluni momenti specifici.
La Corte non manca ad ogni buon conto di evidenziare come pure le vicine novelle fallimentari si siano significativamente protese ad allargare il ventaglio di opportunità dell'autonomia negoziale (escludendo alcuni pagamenti dall'area di quelli revocabili e consentendo di prevedere trattamenti differenziati fra creditori appartenenti a classi diverse nell'ambito delle proposte di concordato fallimentare e preventivo: v. art. 67, comma 3, lett. d) ed e), art. 124, comma 2, lett. b), art. 160, comma 1, lett. d).
Se questo è lo sfondo concettuale della pronuncia, si tenga conto, peraltro, di un dato di fatto: l'istituzione di un trust liquidatorio è sempre un atto tendenzialmente ambivalente. Ciò in quanto lo strumento può essere funzionale a strappare beni alla garanzia patrimoniale generica, ma può anche essere funzionale a salvaguardare il patrimonio del debitore da iniziative di singoli creditori free riders, che potrebbero compromettere alla rinfusa un orizzonte di composizione della crisi di impresa.
È per questo che continua ad apparire ostico a chi scrive negare in misura generalizzata la validità di un trust di natura liquidatoria, in cui siano beneficiari i creditori del disponente e in cui l'efficacia del vincolo di segregazione sia risolutivamente condizionata al fallimento della società o alla mancata omologazione della proposta di concordato preventivo cui il trust accede.
Non può trascurarsi, in particolare, che laddove il trust si inserisca nel corpo di una proposta concordataria preventiva, esso è significativamente rimesso ad un rassicurante vaglio preventivo di legittimità del giudice nonché al consenso “informato” dei creditori, chiamati ad esprimersi sull'ipotesi di soluzione della crisi che lo contempla.
Con ciò non si escludono, nè l'elevazione delle norme previste dalla legge fallimentare al rango di norme imperative o, più correttamente, di applicazione necessaria, nè il principio di indisponibilità dell'insolvenza, che a tutt'oggi sono capisaldi del sistema, anche in base all'assunto innegabile che la gestione della crisi irreversibile tra privati dà luogo, inevitabilmente, a benefici per i creditori forti e pregiudizi per quelli deboli.
Tuttavia, in àmbito concordatario preventivo – soprattutto nel neonato contesto della continuità aziendale – non si tratta di gestire le conseguenze liquidatorie dell'insolvenza, ma di percorrere la strada dell'accordo con i creditori nell'ottica di un'operazione di uscita dalla crisi. Il fatto, poi, che ci si affidi al vaglio preventivo di un giudice costituisce una rilevante garanzia.
Ora, nel caso del fallimento il trust cede necessariamente (e subito) il passo alla liquidazione fallimentare che fa fulcro sullo spossessamento e su una procedura rigida, vigilata dall'autorità giudiziaria, condotta dal curatore, senza margini per l'autonomia privata.
Per converso, nel caso del concordato lo strumento tende alla risoluzione della crisi di impresa, in una fattispecie in cui il legislatore lascia nella disponibilità dell'imprenditore i beni e gli concede libertà nelle forme di soluzione della crisi medesima, se non irreversibile.
In tal senso, a voler applicare in senso globale la teoria della “causa in concreto”, opportunamente richiamata dalla S. Corte, si può sostenere che, se si opera in un settore, come nel fallimento, in cui si è in presenza di norme inderogabili, allora non vi sono alternative alla liquidazione disciplinata dalla legge fallimentare, nel senso che quelle medesime norme si imporranno necessariamente; qualora, tuttavia, si verta in un ambito in cui un maggior tasso di privatizzazione della procedura (concordato preventivo o piano attestato, per fare un altro esempio) consente di scegliere quelle soluzioni (fra cui può ben annoverarsi il trust) che meglio siano in grado di soddisfare gli interessi delle parti, il trust costituisce uno strumento certamente spendibile e altamente performante, nell'ottica di un recupero dell'impresa e di una continuità dell'azienda.
Nel sistema generato dalle sovrapposte, recenti riforme risalta un dato essenziale: il piano concordatario è ormai "atipizzato". Non v'è più una “forma” esclusiva o prediletta di soddisfazione dei creditori; piuttosto, ex art. 160 L.F., quella soddisfazione può avvenire "attraverso qualsiasi forma". Se il diritto concorsuale è disseminato di norme imperative, nessuna di esse, tuttavia, sembra frapporsi all'ammissibilità dell'impiego del trust nel contesto di una proposta di concordato. Sembra doversi escludere soltanto che il trust endoconcordatario, avente ad oggetto beni di una impresa in crisi e per beneficiari i creditori, sia idoneo a sopravvivere ad una eventuale dichiarazione di fallimento. Lo spossessamento ad opera del curatore dei beni ricadenti nella massa patrimoniale del soggetto fallito, ivi compresi i cespiti confluiti in un eventuale trust a sostegno del concordato preventivo, dovrà essere, infatti, integrale. In tal senso, il ricorso al trust continua a sembrare legittimo ogni qualvolta l‘atto contempli, con riferimento ai beni segregati, una "clausola di salvaguardia" che ne preveda l'automatica cessazione in concomitanza con la dichiarazione di fallimento, per aborto del concordato. Lo si è detto ampiamente: la convenzione fa salva all'art. 15 la protezione dei creditori, in caso di insolvenza, necessariamente in riferimento al disponente.
Il divieto di eludere le norme imperative dell'ordinamento italiano, evincibile dall'art. 13 della Convenzione dell'Aja, impedisce che il singolo trust possa precludere la liquidazione fallimentare, non invece che possa scongiurarla ove la crisi sia reversibile e il valore della continuità aziendale salvaguardabile.
In linea di sintesi, si potrebbe dire che i privati sono senz'altro facoltizzati ad istituire un regime liquidatorio-negoziale alternativo a quello fallimentare, in modo da tentare di evitare di ricorrere ad esso; non sono, invece, legittimati a derogare alle norme sulla liquidazione fallimentare, per l'ipotesi in cui il fallimento sia pronunciato, non potendo esse modificare l'assetto liquidatorio immaginato dal legislatore.
Ma cosa accade in ipotesi di mancata previsione nel contesto del trust concordatario di una clausola di salvaguardia? Il fallimento fa, comunque, venir meno la ragione stessa che ab origine giustificava l'istituzione del trust ed opera da fatto estintivo del trust. Il trust può essere fatto cessare dietro iniziativa unilaterale del curatore fallimentare, in forza della regola del diritto inglese dei trusts, nota come precedente di Saunders v. Vautier (il testo della sentenza resa nel precedente Saunders v Vautier é consultabile in Trusts e attività fiduciarie, 2004, 294). Secondo siffatta rule, se esiste un unico beneficiario del trust – e nel caso di specie non vi sono dubbi che unica beneficiaria sia la massa dei creditori, per il tramite del curatore che li rappresenta – e costui è capace di agire, egli può far cessare anzitempo il trust, indipendentemente dai desiderata in origine espressi dal disponente. Il principio appare senz'altro applicabile anche al trust interno di natura liquidatoria, che sia disciplinato dalla legge inglese o da quella di uno dei numerosi Paesi (anche non di common law) che vi si sono conformati. La ratio della regola sta in ciò, che il trust è istituito in favore dei beneficiari, talchè è opportuno rimettere a loro l'eventuale cessazione anticipata dell'istituto, con la susseguente distribuzione della trust property fa i destinatari “finali”.

Conclusioni

A voler riassumere la portata della pronuncia della Suprema Corte, se ne coglie un senso pregnante: l'imprenditore che si trovi in uno stato di crisi irreversibile non può tentare di gestirla privatamente, destinando in trust beni aziendali. La liquidazione e la distribuzione non possono che avvenire secondo la legge fallimentare, non già secondo un regolamento di genesi negoziale, contenuto nell'atto istitutivo di un trust. In altri termini: il potere di controllo sull'attività di liquidazione è inderogabilmente affidato al tribunale; quello di direzione della liquidazione al curatore.
Non ricorrerà pur tuttavia un'ipotesi di nullità trust; quest'ultimo, piuttosto, ove ne ricorrano i presupposti, potrà essere disconosciuto attraverso l'articolo 13 della Convenzione. In ogni caso, gli atti di dotazione che siano stati posti in essere in correlazione col trust potranno essere resi relativamente inefficaci dai creditori del disponente attraverso l'esercizio dell'azione azione revocatoria ordinaria o fallimentare.
E se quelli tracciati sono i confini del sistema, quel che rileva più incisivamente di tutto il resto, nell'alveo della riflessione condotta dalla S. Corte, sta, probabilmente, in ciò: che è la causa concreta del trust, quindi l'effettiva articolazione dinamica degli interessi ad esso sottesi, lo spartiacque tra legittimità e illegittimità dell'istituto, che non può contrapporsi elusivamente all'elemento infungibile della procedura pubblica di liquidazione dei beni, ma semmai trovare spazi residui mirati ad agevolare e corroborare il corso di quest'ultima, oppure a prevenire l'insolvenza, facendo sì che la crisi recuperabile non divenga irreversibile.
Il trust liquidatorio è, dunque, in linea di principio ammissibile, ma non a qualsiasi condizione. Si è cercato di spiegare come, pure al lume della pronuncia della S. Corte, esso possa e debba trovare spazio nell'àmbito delle soluzioni stragiudiziali delle crisi d'impresa, non venendo in rilievo alcuna inconciliabilità ontologica con norme inderogabili dell'ordinamento fallimentare.
L'accesso al trust, in tal senso, è anche un problema di “tempestività”: tutte le crisi sono prospettiche e vanno calcolate ed aggredite per tempo; il trust non è un rimedio elusivo per l'imprenditore decotto, ma un'opportunità strategica per affrontare la crisi.

Riferimenti giurisprudenziali e bibliografici

Sul trust liquidatorio, in dottrina v.: S. Leuzzi, Note sul trust liquidatorio, in Trusts e att. fid., 2, 138; Raganella-Regni, Il trust liquidatorio nella disciplina concorsuale, in Trusts e att. fid., 2009, 598; Tedioli, Trust con funzione liquidatoria e successivo fallimento dell'impresa, in Trusts e att. fid., 2010, 494; Dimundo, «Trust interno» istituito da società insolvente in alternativa alla liquidazione fallimentare, in Fall., 2010, S, 3; L. Panzani, Il trust nell'esperienza giuridica italiana: il punto di vista della giurisprudenza e degli operatori, Nuovo dir. soc., 2010, 7; R. Ranucci, I difficili rapporti tra il trust liquidatorio e le procedure concorsuali, in Il Fallimento, 2014, 5, 567; Gallarati, La Corte di Cassazione si pronuncia sui trust liquidatori dell'intero patrimonio del debitore, in Riv. dir. banc., dirittobancario.it, 13, 2014; Fanticini, Il trust liquidatorio e il conflitto con il fallimento: confronto sui pro e sui contro, in Atti del V Congresso Nazionale de Il trust in Italia, Sestri Levante, 2011, 535.
La pronuncia della S. Corte è sstata commentata anche da A. Di Landro, La destinazione patrimoniale nella gestione della crisi dell'impresa: il trust liquidatorio approda in cassazione, in dirittocivilecontemporaneo.com.
Più in generale, sul trust nel contesto della crisi d'impresa cfr. soprattutto C. D'Arrigo, L'impiego del trust nella gestione negoziale della crisi d'impresa, in AA.VV., La crisi d'impresa. Questioni controverse del nuovo diritto fallimentare, a cura di F. Di Marzio, Padova, 2010, 452. V. P. Pirruccio, La segregazione dell'intero patrimonio aziendale nel trust non consente il normale svolgimento della procedura concorsuale, in Giur. mer., 2010, 1596; T. Manferoce, Trust e procedure concorsuali, Relazione tenuta presso il CSM all'incontro di studio sul tema I c.d. patrimoni di scopo: fondo patrimoniale, patrimonio destinato ad uno specifico affare e “trust”" tra diritto interno e modelli stranieri, Roma 11-13 ottobre 2010; D. Galletti, Il trust e le procedure concorsuali: una convivenza subito difficile, in Giur. comm., 2011, 900; P. Basso, Fallimento della società disponente, le diverse reazioni dei curatori al trust liquidatorio: l'esperienza di Udine e Pordenone, Relazione al V Congresso Nazionale dell'Associazione "Il trust in Italia", Sestri Levante 12-14 maggio 2011.
Sul trust in àmbito concordatario, sia consentito rimandare, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, a S. Leuzzi, Il trust nel concordato preventivo, in Trusts e Att. fid., 2013, 5, 577 e S. Leuzzi, Nuova finanza ed impiego del trust, in ilFallimentarista.
In àmbito giurisprudenziale, oltre alle pronunce citate nel corpo del commentano, si vedano, per talune applicazioni del trust nel quadro dell'insolvenza: Trib. Milano, 16 giugno 2009, annotata da Di Maio, Il trust e la disciplina fallimentare: eccessi di consenso, in Dir Fall., 2009, 498; Trib. Milano, 17 luglio 2009 ilcaso.it; Trib. Milano 22 ottobre 2009, in Riv. dir. priv., 2010, con nota di Fiorani, Trust liquidatorio e tutela dei creditori, in Riv. dir. priv., 2010, 127; Tribunale di Milano 29 ottobre 2010, in Trusts e attività fiduciarie, 2011, 146; Trib. Mantova, 18 aprile 2011, ilcaso.it; Trib. Bolzano, 8 aprile 2013, in Trusts e attività fiduciarie, 2014, 49.

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