La prima pronuncia della Cassazione in tema di trust liquidatorio e procedure concorsuali

Beatrice Armeli
28 Ottobre 2014

Il trust liquidatorio, in presenza di uno stato preesistente d'insolvenza della società disponente, non è riconoscibile nell'ordinamento italiano, a nulla rilevando il fine dichiarato di provvedere alla liquidazione della società nell'esclusivo interesse del ceto creditorio beneficiario, né la clausola per la quale, in caso di sopravvenuto fallimento del settlor, i beni conferiti in trust siano consegnati al curatore; il negozio, quindi, non ha l'effetto di segregazione desiderato e l'atto di trasferimento dei beni è nullo, in quanto privo di causa perché operato in esecuzione di negozio non riconoscibile.
Massima

Il trust liquidatorio, in presenza di uno stato preesistente d'insolvenza della società disponente, non è riconoscibile nell'ordinamento italiano, a nulla rilevando il fine dichiarato di provvedere alla liquidazione della società nell'esclusivo interesse del ceto creditorio beneficiario, né la clausola per la quale, in caso di sopravvenuto fallimento del settlor, i beni conferiti in trust siano consegnati al curatore; il negozio, quindi, non ha l'effetto di segregazione desiderato e l'atto di trasferimento dei beni è nullo, in quanto privo di causa perché operato in esecuzione di negozio non riconoscibile.

Il caso

Una s.r.l. in liquidazione costituiva un trust liquidatorio, conferendo in esso l'intera azienda, affinché il liquidatore, nominato trustee, potesse liquidarne il patrimonio a favore dei creditori, beneficiari del trust. Successivamente, entro un anno dall'iscrizione della cancellazione dal registro delle imprese, veniva dichiarato il fallimento della stessa società estinta, ma per fictio iuris considerata esistente ai sensi dell'art. 10 l. fall. Avverso la sentenza di fallimento veniva proposto reclamo ex art. 18 l. fall., rigettato però dalla Corte d'appello competente. La società soccombente presentava quindi ricorso in Cassazione, la quale conferma oggi la decisione di merito impugnata, pronunciandosi per la prima volta sul trust liquidatorio di fronte all'insolvenza del disponente, in linea con l'orientamento prevalente nella giurisprudenza di merito, seppure apportando significative precisazioni.

La questione giuridica

La vicenda in esame impone la valutazione della compatibilità dello strumento di autonomia negoziale proprio dei sistemi di common law, il trust, con l'ordinamento giuridico italiano, per quel che concerne la disciplina delle procedure concorsuali e, nella specie, del fallimento, ove il negozio fiduciario intervenga con finalità di liquidazione del patrimonio segregato dell'imprenditore disponente in stato di insolvenza, sostituendosi di fatto alla procedura fallimentare. Appurata l'incompatibilità in concreto del c.d. trust anti-concorsuale, occorre poi far luce sulle implicazioni giuridiche che la stessa comporta.

Il quadro normativo

La Convenzione dell'Aja del 1° luglio 1985 (di seguito, Convenzione), resa esecutiva in Italia con la L. 16 ottobre 1989, n. 364 (in vigore dal 1° gennaio 1992), regola la possibilità di riconoscere nell'ordinamento interno gli effetti del trust disciplinato dalla normativa ad esso applicabile – nella specie la legge di Jersey (Channel Islands), legittimamente scelta dalle parti (art. 6) –, da un lato consentendo agli Stati aderenti di negare il riconoscimento del trust qualora il ricorso all'istituto e alla disciplina straniera appaia fraudolento (art. 13), e dall'altro prevedendo essa stessa plurimi limiti di efficacia, tra cui il rispetto delle disposizioni individuate dalle norme del foro sul conflitto di leggi in materia di protezione dei creditori in caso d'insolvenza. In particolare, ove dette disposizioni siano di ostacolo al riconoscimento del trust, spetta al giudice attuare gli scopi dello stesso in altro modo (art. 15). La Convenzione, invece, non riguarda le questioni relative alla validità degli atti di trasferimento dei beni in trust, soggetti alla lex fori (art. 4).

La soluzione

Secondo gli accertamenti di merito, il trust è stato costituito in una situazione d'insolvenza del disponente. La nazionalità italiana di quest'ultimo importa che la riconoscibilità del trust nel nostro ordinamento sia subordinata, ai sensi dell'art. 15 della Convenzione, al rispetto delle disposizioni in materia di protezione dei creditori dettate dalla legge fallimentare interna. Posto che il trust – ossia l'insieme di beni e rapporti istituito, con effetto di segregazione patrimoniale, dal disponente e posto sotto il controllo di un trustee, nell'interesse di uno o più beneficiari o per un fine determinato – rappresenta uno strumento negoziale che può essere astrattamente piegato al raggiungimento dei più svariati scopi, per valutarne la compatibilità con le inderogabili norme interne di ordine pubblico in materia di procedure concorsuali, occorre ricercare la causa concreta dell'operazione. Qualora, come nella specie, la stessa consista nel segregare tutti i beni dell'impresa, eludendo la procedura fallimentare in pregiudizio dei creditori, l'ordinamento italiano non può accordarvi tutela e il giudice è tenuto ex officio a disconoscere il negozio ogni volta che sia dichiarato il fallimento del disponente in ragione di uno stato d'insolvenza preesistente all'atto istitutivo del trust. Conseguentemente quest'ultimo, risultando tamquam non esset, non è in grado di produrre in detto ordinamento alcun effetto giuridico. E pertanto, l'atto di trasferimento dei beni in trust, regolato, in virtù dell'art. 4 della Convenzione, dalla legge italiana, deve ritenersi nullo ai sensi dell'art. 1418, comma 2, c.c., in quanto privo di causa per essere stato posto in esecuzione di un negozio, il trust, non riconoscibile. In tal modo, il curatore può procedere materialmente all'apprensione dei beni inefficacemente trasferiti.

Osservazioni

Sulla correttezza e anche sulla prevedibilità della conclusione cui giunge la Suprema Corte, oltrepassante talune correnti “lassiste”, eccessivamente indulgenti sull'uso del trust liquidatorio nella gestione dell'insolvenza, non pare esservi nulla da rimarcare. Già la giurisprudenza di merito ha prospettato, in linea di principio, la compatibilità del trust liquidatorio con la disciplina positiva concorsuale (Trib. Reggio Emilia, 27 agosto 2011), salvo poi, con l'esame delle cause realisticamente perseguite, disconoscerne nelle singole fattispecie la concreta operatività, ponendo così chiare e giustificate limitazioni all'impiego dell'istituto (hanno riconosciuto la nullità del trust liquidatorio eretto dall'imprenditore insolvente, ad esempio: Trib. Milano, 29 ottobre 2010; Trib. Milano, 16 giugno 2009; contra: Trib. Cremona, 8 ottobre 2013, che ha rigettato la domanda di nullità, non condividendo l'idea che un trust liquidatorio costituito quando la società già si trovi in stato di dissesto sia ab origine nullo per contrasto alla legge fallimentare; Trib. Reggio Emilia, 2 maggio 2012, secondo cui il fallimento del disponente non può incidere sull'atto di trust, in quanto il disponente “esce di scena” e qualunque vicenda ad esso attinente non può assurgere a causa sopravvenuta di invalidità dell'atto istitutivo). Interessante piuttosto è il rilievo di alcuni passaggi dell'iter argomentativo. Astraendo dalla fattispecie in esame, i giudici di legittimità provvedono a enucleare un tipo di trust i cui caratteri, ove riscontrati in concreto (come nel caso sottoposto a giudizio), comportano necessariamente il disconoscimento del trust stesso nel nostro ordinamento. Trattasi in specie del c.d. trust anti-concorsuale che, con la segregazione di tutti i beni dell'imprenditore, impedisce lo spossessamento del disponente in stato di decozione, sostituendosi alla procedura fallimentare e ostacolando i creditori nella condivisione del governo del patrimonio insolvente, in ragione dell'insindacabile amministrazione del fondo in trust, rimessa per intero, al pari della liquidazione dell'attivo, alla discrezionalità del trustee. Irrilevante al riguardo è la qualifica di beneficiario del ceto creditorio alla cui tutela il trust venga dichiaratamente preordinato, per la non equivalenza, e ancor prima per la non comparabilità, dell'istituto del trust, di carattere (aggiungo, esclusivamente) privatistico, con la procedura fallimentare, di natura pubblicistica, destinata a prevalere, in caso d'insolvenza, a tutela della par condicio creditorum e non surrogabile, a detta degli stessi giudici, da strumenti che non garantiscono tale parità (assenza comunque da riscontrare nel programma liquidatorio), né escludono procedure individuali (invero per definizione inibite da una segregazione patrimoniale generalizzata), né prevedono trattative vigilate con i creditori al fine della soluzione concordata della crisi (anche se la vigilanza sulle trattative non è prerogativa di tutti gli strumenti di composizione della crisi d'impresa), né contemplano alcun potere di amministrazione o controllo da parte del ceto creditorio (ancora, da verificare in concreto) o di un organo pubblico neutrale (ecco il punto “vero”). Del pari irrilevante, secondo la Cassazione, è la previsione, nell'atto istitutivo, della clausola di salvaguardia che ricollega al sopravvenire di una vicenda concorsuale nei confronti del disponente la risoluzione del negozio, posto che, essendo il trust non riconoscibile ab origine e dunque privo in via assoluta di effetti, la clausola stessa risulta per definizione inoperante. La Suprema Corte, dunque, preferisce a monte negare tout court il riconoscimento dell'istituto straniero contrastante (in concreto) con norme imperative interne a tutela dei creditori di fronte all'insolvenza del debitore, piuttosto che concedere l'ingresso del trust nel nostro ordinamento opzionato al non intervento della procedura concorsuale. Coerentemente, dunque, i giudici di legittimità parlano di inesistenza stessa, nel diritto interno, del trust in conflitto con la disciplina inderogabile concorsuale e non già di nullità, in quanto sanzione presupponente il riconoscimento dell'atto istitutivo. Analogamente, gli stessi giudici escludono il riferimento alle norme di applicazione necessaria della lex fori quale limite all'operatività della legge regolatrice del trust, anch'esso basato sulla riconoscibilità dello strumento straniero. L'inesistenza del trust anti-concorsuale viene in particolare assoggetta alla rilevazione officiosa da parte del giudice. Compete infatti a quest'ultimo disconoscere ex officio il trust istituito da una società italiana in contrasto con le norme dettate a protezione dei creditori dalla legge fallimentare interna, ove si riscontri l'insolvenza della stessa società disponente, in aderenza alla previsione dettata dall'art. 15 della Convenzione. Poiché è proprio detta norma ad imporre all'autorità giudiziaria, in tale situazione, di attuare gli scopi del trust in altro modo, per la Suprema Corte appare naturale che spetti al tribunale fallimentare, nel corso del procedimento per la dichiarazione di fallimento, provvedere incidenter tantum al disconoscimento del trust liquidatorio artificiosamente elusivo delle disposizioni concorsuali, attuandone conseguentemente il fine liquidatorio in modo compatibile con l'ordinamento interno per il tramite dell'avvio della procedura fallimentare, cosicché il curatore, stante la nullità del trasferimento dei beni in trust, l'inefficacia della segregazione patrimoniale e dunque la disponibilità dell'attivo societario per effetto dello spossessamento fallimentare, possa apprendere materialmente i beni del disponente insolvente.
Ciò che sembra apparentemente viziare d'incoerenza il ragionamento della Corte sta nel far derivare l'integrale non riconoscimento del trust anti-concorsuale dalla dichiarazione di fallimento, nel momento in cui si impone il rilievo officioso incidentale dell'anti-concorsualità del trust stesso, ergo il suo disconoscimento, nel procedimento volto alla dichiarazione dell'insolvenza, cosicché, proprio in virtù del non riconoscimento, il giudice può attuare in altro modo (come richiesto dall'art. 15 della Convenzione) lo scopo liquidatorio del trust inesistente, dando corso alla procedura fallimentare. L'ambiguità del rapporto tra gli elementi causa-effetto, in realtà, è superabile, sfumandosi eventuali ombre sul pensiero sotteso alla pronuncia, nella misura in cui si consideri che non è (tanto) la dichiarazione di fallimento a far disconoscere il trust anti-concorsuale, bensì (piuttosto) la sussistenza dell'insolvenza, giudizialmente accertata con prognosi postuma, al tempo dell'istituzione del trust medesimo. Il che consente pure di spiegare perché non vale la clausola di salvaguardia, senza scivolare in una sorta di “accanimento terapeutico” nei confronti dell'istituto straniero. Non ha importanza infatti la previsione dello scioglimento del trust al sopravvenire della procedura fallimentare se, al momento dell'istituzione del trust medesimo, il disponente già versava in stato di decozione (in effetti poi accertato proprio a quel tempo), perché, per ciò stesso, il trust è non riconoscibile e dunque inesistente nell'ordinamento interno. Ecco dunque il motivo per cui il disconoscimento può avvenire ex officio nella procedura preordinata alla dichiarazione giudiziale d'insolvenza, contestualmente ad essa, e il giudice può dar seguito al fallimento che del trust inesistente condivide solo lo scopo, quello liquidatorio, e non i mezzi, essendo unicamente quelli della procedura pubblicistica posti a garanzia della par condicio creditorum, impiegati da e sottoposti al controllo di un “organo pubblico neutrale”. Così (seppur forzatamente) argomentando, si supererebbe dunque anche un'ingiustificata sovrapposizione tra insolvenza di fatto (di per sé non rilevante, salvo riconoscersi un obbligo in capo all'imprenditore insolvente di richiedere il proprio fallimento, almeno ove l'omissione determini un aggravamento del dissesto) e insolvenza giudizialmente dichiarata (l'unica a implicare le conseguenze fallimentari). Ma non solo. Disconoscere infatti a monte il trust disposto dall'imprenditore accertato essere insolvente, già al tempo della conclusione del negozio fiduciario, con successiva sentenza di fallimento, solleva il curatore dall'onere di esercitare un'azione revocatoria per la caducazione dell'efficacia del trust medesimo (Trib. Monza, 3 gennaio 2013, precisante che l'atto pregiudizievole, impugnabile in sede revocatoria, non può invero essere l'atto istitutivo del trust, che di per sé stesso non ha effetti dispositivi, ma il conseguente atto di disposizione con cui i beni sono trasferiti al trustee o posti sotto il controllo dello stesso, oppure segregati nel patrimonio del disponente; Trib. Modena, 14 marzo 2012; Trib. Torino-Moncalieri, 15 giugno 2009) e/o un'azione di simulazione.

Questioni aperte e ulteriori

Dalla pronuncia in esame, letta e illustrata nei termini anzidetti, ne esce tuttavia irrisolta la situazione in cui l'insolvenza del disponente non sia preesistente all'istituzione del trust. Situazione infatti per la quale le conclusioni cui sono giunti i giudici di legittimità più non varrebbero, dal momento che espressamente si reggono “ogni volta che sia dichiarato il fallimento per essere accertata l'insolvenza del soggetto, ove l'insolvenza preesistesse all'atto istitutivo”. Se in detto momento l'insolvenza non sussiste, si potrebbe allora ammettere, per lo meno, l'operatività della clausola di salvaguardia sulla base di un trust riconoscibile, come del resto già consentito dalla giurisprudenza di merito (tra le altre, nel senso che il trust liquidatorio istituito dall'imprenditore non ancora insolvente è valido, ma il fallimento costituisce causa di scioglimento automatico dello stesso: Trib. Mantova, 25 marzo 2011; Trib. Milano, 29 ottobre 2010; Trib. Milano, 16 giugno 2009; Trib. Milano, sez. distaccata di Legnano, 8 gennaio 2009; contra: Trib. Cremona, 8 ottobre 2013, secondo cui ogni volta che, dopo la costituzione di un trust liquidatorio, sopravviene il fallimento della società, si verifica un'impossibilità di raggiungimento dello scopo e deve quindi accertarsi caso per caso ciò che prevede l'atto istitutivo o la legge applicabile). Altra questione ancora è se al tempo del trust l'insolvenza sussiste, ma non ne ricorrono i presupposti per la dichiarazione giudiziale (ad esempio in virtù del disposto dell'ultimo comma dell'art. 15 l. fall.). Tale spunto a parte, il tema dianzi introdotto si inquadra nel noto problema dell'insolvenza prospettica, che impone un giudizio pro futuro, mentre qui il giudizio si propone (forzatamente) a ritroso, senza peraltro contare che quando un'impresa è in liquidazione anche il concetto d'insolvenza cambia, mutando la finalità dell'attività, destinata non più a operare sul mercato, ma alla sua cessazione, e divenendo quindi rilevante il solo dato patrimoniale dell'idoneità dell'attivo, ancorché illiquido o immobilizzato, a coprire tutti i debiti (Cass., 17 aprile 2003, n. 6170; Trib. Napoli, 23 aprile 2008; Trib. Monza, 3 luglio 2000). Proprio dalla pronuncia in esame si evince peraltro che “ciò che può evitare la situazione d'insolvenza non è in sé l'istituzione del trust, ma, semmai, l'attuazione del programma, con l'avvenuto pagamento dei creditori e la soddisfazione delle obbligazioni originariamente in capo al debitore”. Alla stregua di quanto ritenuto nel giudizio di merito nel caso in esame, gli indici sintomatici del concreto pericolo che il trust sia utilizzato al solo fine di eludere la disciplina imperativa concorsuale sono stati individuati: nell'entità del debito; nel ridotto attivo; negli infruttuosi tentativi di pignoramento; nell'immediata cancellazione della società dal registro delle imprese a seguito dell'istituzione del trust (cfr. anche Trib. Bolzano, 17 giugno 2011, che ha ritenuto abusivo il trust eretto per cancellare la società dal registro delle imprese al fine di far decorrere l'anno entro il quale l'imprenditore può essere dichiarato fallito); nel mancato compimento di qualsiasi attività di liquidazione da parte del trustee (in tal senso anche App. Milano, 29 ottobre 2009). Elementi, questi, che potrebbero far presumere – in una prospettiva ex ante – il degenerare della crisi in un'insolvenza conclamata (giudizialmente), ma che parimenti potrebbero altresì far presumere – in una prospettiva ex post – la sussistenza già al tempo dell'istituzione del trust di uno stato di decozione poi dichiarato con sentenza. La questione esaminata dalla Corte si risolve quindi nell'”altra faccia della stessa medaglia” rappresentante il tema dell'insolvenza prospettica, mirando a dar rilievo a una (mera) situazione fattuale senza però riuscire a disancorarsi dal riconoscimento giudiziale della stessa, cristallizzato, per definizione, al tempo della pronuncia.
Un'ulteriore questione attiene poi all'(in)opportunità di nominare trustee lo stesso liquidatore della società disponente. Nel caso di specie, infatti, la circostanza è stata assunta dai giudici di merito – correttamente secondo la Cassazione – quale indizio significativo della illiceità dell'atto, mancando nella sostanza un vero affidamento intersoggettivo dei beni, pur non qualificando il trust, formalmente, come “auto-dichiarato”. Osservazione che non può passare affatto in secondo piano, sottintendendo necessariamente una terzietà e un'assenza di interesse quali attributi propri del trustee nella gestione del trust liquidatorio, ove, a monte, consentito (cfr. App. Catania, 16 novembre 2012, che ha ritenuto inammissibile la proposta di concordato preventivo con cessione dei beni il cui buon esito venga garantito dalla società proponente attraverso la costituzione di un trust liquidatorio auto-dichiarato nel cui atto istitutivo sia previsto che la liquidazione dei beni conferiti venga demandata a soggetti integralmente riconducibili alla compagine azionaria della stessa società). Resta in aggiunta ferma l'esigenza di un adeguato coinvolgimento dei creditori beneficiari, affinché esercitino pienamente i diritti discendenti dalla loro posizione e verifichino in qualsiasi momento che il trustee rispetti lo scopo del trust e le volontà espresse dal disponente (Trib. Reggio Emilia, 14 maggio 2007).

Conclusioni

La decisione in commento appare equilibrata perché non condanna a priori l'impiego del trust nelle procedure concorsuali, ma con fermezza ostacola l'abuso dello strumento elusivo delle norme interne di ordine pubblico, legittimando invece il c.d. trust endo-concorsuale, nella prassi già da tempo impiegato, seppur in modo limitato e accorto, soprattutto in esecuzione di concordati preventivi, con commissario giudiziale come guardiano o trustee (Trib. Ravenna, 4 aprile 2013; Trib. Napoli, 12 marzo 2009; Trib. Napoli, 19 novembre 2008; Trib. Mondovì, 16 settembre 2005; Trib. Parma, 3 marzo 2005), per agevolare il raggiungimento di eventuali accordi stragiudiziali di ristrutturazione dei debiti e/o il risanamento dell'esposizione debitoria (Trib. Reggio Emilia, 14 marzo 2011), o per accelerare le operazioni di chiusura del fallimento (Trib. Saluzzo, 9 novembre 2006, che individua il guardiano nella persona del curatore), o ancora per recuperare i crediti d'imposta maturati nel corso della procedura, ma esigibili solo dopo la chiusura del fallimento (Trib. Sulmona, 21 aprile 2004; Trib. Roma, 3 aprile 2003). Semmai talune debolezze nell'iter argomentativo sono, da un lato, ravvisabili nella forzatura di far retrocedere il giudizio di accertamento dell'insolvenza al tempo di istituzione del trust e, dall'altro, riconducibili all'enucleazione di quei caratteri qualificanti l'anti-concorsualità del trust ai fini del suo disconoscimento. L'insindacabilità sul merito della decisione impugnata impedisce del resto alla Corte di spingersi oltre una panoramica generale. Al riguardo, il motivo che appare maggiormente di pregio su cui si fonda il disconoscimento dell'istituto straniero è la mancanza (di controllo) di un “organo pubblico neutrale”, che può dirsi connaturata (seppur in concreto non indefettibilmente) ad ogni trust, frutto privato della legittima autonomia del disponente. È questo che spinge in definitiva i giudici di Cassazione a rifiutare la fungibilità del trust rispetto alla procedura fallimentare, a differenza degli altri strumenti di composizione della crisi d'impresa previsti dall'ordinamento. Per questi ultimi infatti, seppur in diverso grado e in differenti momenti, l'intervento del terzo neutrale è sempre presente (anche le garanzie “pubblicistiche” accordate ai piani attestati, comunque di fatto non spendibili in stato di vera e propria insolvenza, non trovano supplenza nel paradigma astratto del trust). Da qui, allora, l'accondiscendenza all'impiego del trust “nel concorso e non fuori concorso”, inglobato in uno dei tipici strumenti di composizione, quale alternativa alle misure concordate di risoluzione della crisi, secondo una soluzione che non investirebbe comunque tutte le fasi dell'accertamento dei crediti, dell'acquisizione dell'attivo e del riparto (nel caso di trust con finalità liquidatoria), ma solo taluni momenti specifici, in una logica di valorizzazione negoziale che però non contraddice la natura officiosa della procedura e la sua funzione di tutelare l'ordine economico.

Minimi riferimenti bibliografici

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