Brevi riflessioni sull’applicabilità delle norme del codice di rito alle vendite fallimentari
01 Aprile 2014
Massima
Deve ritenersi pienamente applicabile, anche nel procedimento di liquidazione fallimentare, la norma di cui all'art. 560, comma 3, c.p.c., secondo la quale la casa, pure adibita ad abitazione dal fallito, può essere liberata anche prima del momento conclusivo della liqudazione, non dovendo necessariamente seguire la liquidazione degli altri cespiti dell'attivo. Il caso
Nel caso di specie si tratta di appurare, o meglio di comporre, l'apparente antinomia fra la norma di cui all'art. 47, comma 2, l. fall. – la quale dispone che l'immobile di proprietà del fallito, nei limiti in cui esso è adibito ad abitazione dello stesso o della sua famiglia, “non può essere distratta da tale uso fino alla liquidazione delle attività” – e quella contenuta nell'art. 560, comma 3, c.p.c. – la quale, come noto, prevede che la emissione del decreto di liberazione possa essere disposta, al più tardi, al momento della aggiudicazione dell'immobile espropriato. La questione giuridica
La questione principale riguarda una delle tante sfaccettature della compatibilità delle norme del processo esecutivo individuale con il sistema normativo che governa la liquidazione concorsuale, di cui all'art. 107, comma 2, l. fall., e così, in particolare, come nel caso di specie, la possibile antinomia fra l'art. 47, comma 2, l. fall. e l'art. 560, comma 3, c.p.c. 107, comma 6, l. fall. e 47, comma 2, l. fall., e nel principio della posteriorità della legge, nel senso che, come a tutti noto, l'art. 560, comma 3, c.p.c. è successivo all'art. 47, comma 2, l. fall., rinviene uno dei sostegni alla ratio decidendi nella espansione semantica da attribuire alla locuzione “fino alla liquidazione delle attività”, di cui al richiamato art. 47 e, per l'effetto, incentra l'attenzione sul rilievo che, nella ipotesi in cui il curatore prosegua l'esecuzione individuale, trova integrale applicazione l'art. 107, comma 6, l. fall. per il quale vi è il richiamo tout court alle disposizioni del codice di rito.Ne consegue che non necessariamente l'alienazione dell'immobile adibito ad abitazione del fallito deve postergarsi rispetto alla liquidazione di altri beni. A ben vedere, le argomentazioni impiegate dal Giudicante sono tanto approfondite quanto appropriate e seguono uno snodo discorsivo assolutamente apprezzabile. Al fondo, il decreto non manca di inquadrare, logicamente ancor prima che sistematica-mente, la determinazione del Curatore alla stregua di vero e proprio atto prodromico alla attività di liquidazione, meglio, come atto di determinazione dell'organo gestorio sulle specifiche modalità di alienazione. Come dire che viene riconosciuto al Curatore l'apprezzamento della opportunità di addivenire al trasferimento della casa di abitazione del fallito ancor prima e a prescindere della vendita di eventuali altri beni insistenti nel patrimonio di quest'ultimo. Per vero, la soluzione del Tribunale di Reggio Emilia riprende un orientamento giurispru-denziale quanto meno prevalente, e sicuramente condivisibile, secondo cui l'art. 47, comma 2, l. fall. non potrebbe essere letto nel senso di impedire la vendita dell'immobile adibito a casa del fallito fintantoché non sia integralmente liquidato il patrimonio residuo. Al contrario, la menzionata disposizione dovrebbe più correttamente intendersi nel senso di riconoscere al fallito il diritto soggettivo di abitazione sino alla vendita dell'immobile, che potrebbe avvenire in qualsiasi momento ritenuto opportuno dagli organi della procedura (in tal senso, si v. Trib. Messina, 6 giugno 2000; Trib. Velletri, 6 settembre 1991). Stando al richiamato orientamento, l'art. 47, comma secondo, sancirebbe esclusivamente il diritto di abitazione del fallito sino alla vendita, ma non stabilirebbe anche un ordine nella liquidazione dell'attivo fallimentare, poiché la vendita dell'immobile ben potrebbe venire discrezional-mente disposta dagli organi fallimentari in qualunque momento della fase liquidativa (così, autorevolmente, anche L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2012, 119; Id., Sub art. 46, in AA. VV., Commentario del Codice civile, a cura di Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1986, 147 ss.; P. Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1998, 234, il quale, tuttavia, condiziona la vendita all'apprestamento, da parte del l'ufficio fallimentare di altra abitazione per il fallito; in tale ultimo senso anche P. Vella, Sub art. 47, in AA. VV., La legge fallimentare, a cura di M. Ferro, Padova, 2011, 581 s.; contra, tuttavia, A. Morace Pinelli, Sub artt. 46-47, in AA. VV., La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di Nigro-Sandulli-Santoro, Torino, 2010, 703 s.). Non va sottaciuto, però, che nel caso di specie vi sono interessi contrapposti: si vuol dire quello del fallito ad abitare la casa, da un lato, e quello della massa dei creditori, teso non solo alla liquidazione della massa attiva, ma alla ottimizzazione della stessa onde addivenire ad un più alto grado di soddisfacimento, dall'altro lato. E tale ultimo interesse dovrà essere necessariamente considerato preminente sul primo, anche alla luce della riforma della disciplina delle vendite, disegnata dal legislatore della riforma. Osservazioni
La decisione cui è pervenuto il Tribunale di Reggio Emilia parrebbe senz'altro da condividere. Così come sono da condividere le riflessioni in punto di compatibilità fra il sistema di liquidazione concorsuale e le norme del codice di rito. Invero, l'art. 560, comma 3, c.p.c. è perfettamente applicabile alla ‘vendita' di cui all'art. 107, comma 2, l. fall. Conclusioni
Alla luce delle superiori considerazioni, paiono senz'altro da condividere la soluzione offerta dal Tribunale di Reggio Emilia e le relative argomentazioni a supporto. |