Irrilevanza della capienza patrimoniale per la sussistenza dell'insolvenza

Nicola Pignatelli
14 Luglio 2014

Lo stato di insolvenza si concretizza nell'incapacità del debitore di adempiere in modo regolare e tempestivo alle proprie obbligazioni. Non è, pertanto, d'ostacolo alla dichiarazione di fallimento il dato che l'attivo patrimoniale superi il passivo qualora i creditori siano costretti ad agire esecutivamente sui beni ed i crediti verso terzi al fine di veder soddisfatte le proprie pretese creditorie.
Massima

Lo stato di insolvenza si concretizza nell'incapacità del debitore di adempiere in modo regolare e tempestivo alle proprie obbligazioni. Non è, pertanto, d'ostacolo alla dichiarazione di fallimento il dato che l'attivo patrimoniale superi il passivo qualora i creditori siano costretti ad agire esecutivamente sui beni ed i crediti verso terzi al fine di veder soddisfatte le proprie pretese creditorie.

Il caso

Nel caso sottoposto alla cognizione del tribunale di Trani, un creditore aveva presentato istanza di fallimento di una società operante nel settore della costruzione di immobili residenziali, che non aveva onorato un debito scaduto (e ormai consacrato in un decreto ingiuntivo non opposto) di importo superiore alla soglia fissata dall'art. 15 della legge fallimentare, così come novellato dal d. lgs. 12 luglio 2007, n. 169.
Va subito posto in evidenza come l'importo del credito vantato dall'istante non debba necessariamente essere superiore alla soglia dei 30.000 euro. Di recente, la giurisprudenza ha infatti affermato che «La minima entità del credito vantato dall'istante non influisce sulla legittimazione alla presentazione dell'istanza di fallimento, né integra la causa di esclusione della fallibilità di cui all'art. 15, ultimo comma, l. fall. […]. Il tenore della norma è chiaro nel riferire l'esclusione della fallibilità all'ipotesi in cui l'entità complessiva dei debiti scaduti e non pagati – e non il solo debito verso il creditore istante – sia inferiore a € 30.000,00» (App. Catanzaro 24 luglio 2013; in dottrina, nello stesso senso, cfr. V. VITALONE, in S. CHIMENTI, R. RIEDI e V. VITALONE, Il diritto processuale del fallimento, 2010, 3).
Gli amministratori della società attinta dall'istanza per la dichiarazione di fallimento, in sede di istruttoria prefallimentare, avevano rappresentato al tribunale la presenza, nel patrimonio aziendale, di numerosi appartamenti ancora invenduti, l'avvenuto licenziamento di tutte le maestranze, l'esistenza di debiti sia nei confronti degli ex dipendenti che dell'Erario, la pendenza di una controversia civile avente ad oggetto il riconoscimento di un credito (di rilevante entità) nei confronti di un ente pubblico, contestando, infine, non già l'esistenza del credito posto dal creditore a base dell'istanza di fallimento, bensì il solo fatto che quegli si fosse attivato per la declaratoria di fallimento senza dapprima aver esperito un'azione esecutiva individuale.
In relazione a quest'ultima circostanza, va evidenziato come, di recente, si sia ritenuta la piena legittimità del comportamento del creditore che, anziché attivarsi in sede esecutiva individuale, presenti direttamente istanza di fallimento, così, evidentemente, preferendo la sede “concorsuale” per il soddisfacimento delle proprie ragioni di credito (App. Torino, 10 giugno 2011).
Tornando al caso di specie, il tribunale, accertato, in base alle informazioni raccolte dalla Guardia di Finanza, il superamento di quella «sorta di inviolabile frontiera economico-contabile, al di sotto della quale è interdetto l'accesso alla procedura fallimentare» (così F. APRILE, sub art. 1, in La legge fallimentare – Commentario teorico-pratico, a cura di M. Ferro, 2011, 16), posta dal legislatore del 2007 all'art. 1, comma 2, l. fall., ha avuto modo di precisare come, per aversi insolvenza dell'imprenditore, rilevante quale presupposto oggettivo per la dichiarazione di fallimento, ex art. 5, l. fall., non sia ostativa né la presenza, nel patrimonio, di cespiti immobiliari il cui valore superi l'ammontare del passivo, né l'esistenza di crediti verso terzi di non pronta e certa realizzazione (crediti che, seppur di rilevante importo, nel caso di specie erano, per ammissione degli stessi amministratori della società debitrice, ancora sub iudice).

La questione giuridica

Appare, dunque, ben presente al tribunale la distinzione tra il concetto di “insufficienza patrimoniale” e quello di “insolvenza”.
La prima, per riprendere alla lettera quanto affermato dalla Suprema Corte (Cass. n. 20476/2008) e di recente ribadito in una pronuncia di merito (App. Torino, 15 gennaio 2013, in Fall.), si risolve in «una condizione più grave e definitiva della mera insolvenza, indicata dall'art. 5 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 come incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, potendosi una società trovare nell'impossibilità di far fronte ai propri debiti ancorché il patrimonio sia integro; così come potrebbe accadere l'opposto, vale a dire che l'impresa possa presentare un'eccedenza del passivo sull'attivo, pur permanendo nelle condizioni di liquidità e di credito richieste (per esempio ricorrendo ad ulteriore indebitamento). L'insolvenza, in sostanza, connota uno stato di salute dell'impresa meno grave del vero e proprio deficit patrimoniale, dal momento che anche in caso di patrimonio netto negativo la società potrebbe adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni (ad esempio, grazie alle disponibilità creditizie di cui gode) e che, d'altra parte, un imprenditore può essere insolvente anche quando l'attivo prevale sul passivo (come avviene tipicamente nell'ipotesi in cui le poste attive siano difficilmente liquidabili nel breve periodo, a fronte di debiti pur di minore entità, ma immediatamente esigibili)» (nello stesso senso: Cass. 16 luglio 1992, n. 8656 e, nella giurisprudenza di merito, App. Bologna 12 luglio 2011; App. Brescia 9 luglio 2010; Trib. Cassino 10 ottobre 2000, per il quale «non può essere dato rilievo agli elementi attivi del patrimonio astrattamente realizzabili mediante la sua liquidazione, ma soltanto all'attuale consistenza di liquidità a breve e medio termine posseduta dal debitore»; Trib. Modena 25 giugno 1998, in Giur. comm., 1999, II, 322, con nota di R. Guidotti, il quale rileva(va) come «l'orientamento giurisprudenziale sul punto sia praticamente costante». In dottrina, concordano P. PAJARDI e A. PALUCHOWSKI, op. cit., 102; G. NONNO, sub art. 5, in La legge fallimentare – Commentario, cit., 5, 74; F. GALGANO, Dichiarazione del fallimento e argomenti di prova del fallimento, in Contr. e impr., 2011, 2, per il quale, «finché dispone del fido delle banche o riceve il finanziamento di enti pubblici o riduce il volume della produzione, licenziando parte dei suoi dipendenti, l'imprenditore può, nonostante il deficit di bilancio, fare fronte regolarmente ai pagamenti, e i creditori non hanno motivo di dolersi. Ma può, d'altra parte, accadere che un'impresa con bilancio in avanzo sia insolvente; come quando l'impresa sia priva di disponibilità liquida o l'attivo sia formato da beni non agevolmente vendibili»; P.F. CENSONI, in S. BONFATTI e P.F. CENSONI, Manuale di dir. fall., 2011, 29, il quale sottolinea come, in caso di eccedenza delle poste attive su quelle passive, l'insolvenza «è necessariamente esclusa (solo) se il patrimonio del debitore è suscettibile di essere rapidamente convertito in danaro in misura non inferiore all'entità globale dei crediti, scaduti o prossimi alla scadenza»).
In definitiva, il tribunale ha ritenuto di dover superare la “valenza difensiva” della prospettazione di una situazione di capienza patrimoniale della società, in ossequio all'orientamento che – sulla scorta della constatazione per cui «la norma non dà il minimo appiglio per sostenere che l'impossibilità di adempiere debba necessariamente dipendere da un'insufficienza patrimoniale» (così G. TERRANOVA, Lo stato di insolvenza. Per una concezione formale del presupposto oggettivo del fallimento, in Giur. comm., 1996, I, 82) – afferma potersi configurare lo stato di insolvenza che porta alla dichiarazione di fallimento sol che vi sia l'impossibilità di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni.
Com'è stato, infatti, rilevato, l'avverbio «regolarmente», presente nel secondo comma dell'art. 5, fa intendere come si debba abbandonare la via “suggerita” dalle teorie patrimonialistiche, le quali valorizzano la situazione di capienza o di incapienza del patrimonio del debitore: se la norma si fosse limitata ad affermare che l'insolvenza consiste nel «non essere in grado di pagare», ben avrebbe potuto aver rilievo dirimente una linea difensiva tesa a dimostrare come l'attivo fosse (di molto) superiore al passivo. Appare opportuno sottolineare la necessità che l'attivo debba superare il passivo in misura non certo risibile o comunque minima, dovendosi ovviamente considerare come, secondo l'id quod plerumque accidit, il realizzo effettivo nei casi in cui si è obbligati a vendere e/o nei casi di vendita forzata, sia quasi sempre inferiore alle attese, a prescindere dalla natura del bene.
Ma il necessario rispetto del canone della “regolarità” nell'adempimento non può che portare ad un'obliterazione del dato rappresentato da un attivo (di molto) superiore al passivo. Questo perché i creditori del soggetto attinto dall'istanza di fallimento «non possono essere costretti ad aspettare all'infinito una sua disponibilità a vendere quanto gli è rimasto e a pagare con calma i propri debiti» - circostanza verificatasi proprio nel caso di specie, nel quale il creditore istante aveva atteso per più di un anno e mezzo l'adempimento “spontaneo” da parte della società di poi fallita: «se non è in grado di ripristinare in un lasso di tempo ragionevole il flusso dei pagamenti, deve essere dichiarato fallito» (così G. TERRANOVA, Stato di crisi, stato d'insolvenza, incapienza patrimoniale, in Dir. fall., I, 2006, 563).

Osservazioni

Il tribunale, in adesione alle qui riferite considerazioni della giurisprudenza e della dottrina, ha fornito risposta ad un quesito «semplice e brutale: se il debitore – in prospettiva – è ancora (o non è più) in grado d'adempiere con regolarità le proprie obbligazioni» (TERRANOVA, op. ult. cit., 556).
E ciò ha fatto, valorizzando «numerosi elementi di fatto acquisiti agli atti» (così in sentenza), quali l'avvenuto licenziamento di tutti i dipendenti (dato, invero, da ritenersi neutro, in considerazione del tipo di attività, costruzione di immobili residenziali, esercitata dalla società fallita. È noto, infatti, che le imprese di questo settore, una volta ultimata l'attività “tipica” di costruzione, licenziano le maestranze non più impiegabili) e l'omessa corresponsione in loro favore del t.f.r., il mancato pagamento spontaneo del credito dell'istante, l'esistenza di un debito di rilevante entità nei confronti dell'erario, per il quale gli stessi amministratori della società debitrice avevano dichiarato (senza fornire supporto documentale) di aver presentato domanda di rateizzazione, la mancanza di proposte “alternative” (evidentemente) rivolte al creditore istante per la “sistemazione” della pendenza debitoria nei suoi confronti. Elementi che, complessivamente considerati, hanno convinto il tribunale della ricorrenza – nel caso di specie – non già di meri inadempimenti, ma di una vera e propria impossibilità di adempiere, quale «aspetto veramente caratteristico del fenomeno» dell'insolvenza (in questi termini: G. TERRANOVA, Lo stato di insolvenza, cit., 86).
Concludendo, solo una considerazione di ordine generale.
È certamente vero che da tempo (e soprattutto negli ultimi tempi) l'affermata irrilevanza della situazione di capienza patrimoniale può apparire argomento forse inaccettabile per chi, suo malgrado, si trova a gestire la propria impresa dovendosi scontrare con una congiuntura economica tale per cui, pur a fronte di una certa stabilità/solidità della situazione patrimoniale, non riesce a conseguire quella naturale remunerazione dei fattori produttivi impiegati, che possa garantire quel sano rapporto tra “entrate” ed “uscite” idoneo a mantenere fisiologicamente “in vita” un'impresa.
Troppi, invero, i fallimenti dichiarati perché, ad esempio, lo stato di insolvenza trova causa nella difficoltà di vendere i prodotti o nella mancata realizzazione di crediti “incagliati” (mancata realizzazione, quest'ultima, talvolta dovuta a “indisponibilità” delle pubbliche amministrazioni a comportarsi come un qualsiasi altro debitore, dal quale, per contro, il sistema pretende correttezza e puntualità nell'adempimento delle proprie obbligazioni).
In altri termini, ben si può comprendere come non sia facile, per un imprenditore, il prendere atto che, pur disponendo di beni e diritti in quantità tale da poter “coprire” qualunque legittima richiesta di adempimento, debba sentirsi dichiarato fallito sol perché ad un (magari piccolo) debito non abbia potuto far fronte con quella regolarità che, ancor prima che dalla legge fallimentare, è richiesta dalla fisiologicità dei ritmi che una qualunque attività d'impresa richiede.
Ma, pur nell'astratta condivisibilità di quanto fin qui evidenziato, non può, da altro punto di vista, trascurarsi un'altra considerazione, altrettanto pregnante, consistente nella necessità di offrire risposte proprio ai creditori di quel debitore che si trovi in crisi strutturale di liquidità (e di credito) tale da non poter fronteggiare con regolarità le pretese di adempimento che gli pervengono.
Se da un lato vi è un debitore che rappresenta all'Organo chiamato a pronunciarsi sulla sua sottoponibilità a fallimento, di avere al proprio attivo beni ed altri diritti idonei, per entità e qualità, a soddisfare, una volta liquidati, ogni pretesa, dall'altro vi sono dei creditori cui non può chiedersi di attendere oltre ogni ragionevole limite temporale quella liquidazione che dovrebbe permettere (senza certezze sul “quando” e forse anche sull'an) al debitore di “azzerare” il debito.
Anche questi creditori ben possono essere soggetti che – in ipotesi – potrebbero trovarsi a lamentare e a giustificare la propria crisi di liquidità proprio perché vi è a monte un debitore che cerca di far valere una situazione di solidità patrimoniale in virtù della quale pretendere di ritardare l'adempimento fino a quando “il mercato” permetterà di monetizzare i beni e gli altri diritti presenti nel suo patrimonio.
Ed ecco che – «al realizzarsi di una situazione patologica della vita giuridica» (così, P. PAJARDI e A. PALUCHOWSKI, op. cit., 2) ed in assenza di iniziative per una composizione negoziale della crisi dell'impresa – proprio la dichiarazione di fallimento può presentarsi, nella constatazione della «insufficienza delle forme ordinarie di tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi, in relazione alla violazione dei diritti di obbligazione da parte di un imprenditore commerciale insolvente», come strumento necessario di allocazione (coatta) di risorse in favore dei legittimi destinatari delle medesime (ovverosia: i creditori del soggetto ormai in stato di insolvenza), se non in maniera totalmente satisfattiva, quanto meno in applicazione del principio della par condicio creditorum.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Per comodità espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti e le disposizioni normative interessate, direttamente nel commento.

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