Concordato c.d. misto: limiti di compatibilità con il concordato con continuità aziendale e liquidatorio

Roberto Amatore
02 Luglio 2014

Nel concordato con continuità aziendale, il “piano può prevedere anche la liquidazione dei beni non funzionali all'esercizio dell'impresa”, ma è il debitore a dover procedere alla loro liquidazione ed al pagamento dei creditori in misura in ogni caso superiore a quella che potrebbe loro derivare dalla liquidazione dell'intero patrimonio della società, con la conseguenza che, anche per consentire all'attestatore di esprimersi in ordine alla funzionalità del piano alla “migliore soddisfazione dei creditori”, occorre un'indicazione della percentuale di soddisfacimento finale che, seppure prudenziale, assuma carattere impegnativo per la proponente (massima).Nel concordato liquidatorio, viceversa, il debitore si libera delle proprie obbligazioni ponendo a disposizione l'intero suo patrimonio e dunque assicurando un qualche, non irrisorio, soddisfacimento dei creditori chirografari; la temporanea prosecuzione dell'esercizio avviene, in tal caso, solo “di fatto”, quale strumento di migliore valorizzazione dell'attivo, con la conseguente impossibilità di fruire dei benefici previsti dagli artt. 182-quinques e 186-bis l. fall. (massima). 
Massima

Nel concordato con continuità aziendale, il “piano può prevedere anche la liquidazione dei beni non funzionali all'esercizio dell'impresa”, ma è il debitore a dover procedere alla loro liquidazione ed al pagamento dei creditori in misura in ogni caso superiore a quella che potrebbe loro derivare dalla liquidazione dell'intero patrimonio della società, con la conseguenza che, anche per consentire all'attestatore di esprimersi in ordine alla funzionalità del piano alla “migliore soddisfazione dei creditori”, occorre un'indicazione della percentuale di soddisfacimento finale che, seppure prudenziale, assuma carattere impegnativo per la proponente (massima).

Nel concordato liquidatorio, viceversa, il debitore si libera delle proprie obbligazioni ponendo a disposizione l'intero suo patrimonio e dunque assicurando un qualche, non irrisorio, soddisfacimento dei creditori chirografari; la temporanea prosecuzione dell'esercizio avviene, in tal caso, solo “di fatto”, quale strumento di migliore valorizzazione dell'attivo, con la conseguente impossibilità di fruire dei benefici previsti dagli artt. 182-quinques e 186-bis l. fall. (massima).

Il caso

La società C.N.S. s.p.a. aveva chiesto al Tribunale di Milano l'ammissione, ai sensi dell'art. 161, comma 6, l. fall., alla procedura di concordato prenotativo e, nel termine assegnato dal Tribunale, aveva depositato la proposta concordataria e il relativo piano. Il Tribunale ambrosiano, esaminando la proposta concordataria e riscontrando alcune criticità in ordine all'inquadramento giuridico del piano così presentato, concedeva, ai sensi dell'art. 162, primo comma, l. fall. un termine per la modifica e la integrazione del piano stesso. Più in particolare, il Tribunale di Milano riscontrava, nel merito della proposta concordataria, che la stessa prevedeva che la società proponente proseguisse fino alla fine del 2015 la gestione delle commesse in corso, in una sorta di “esercizio provvisorio” da sottoporsi all'autorizzazione giudiziale, ponendosi successivamente in liquidazione e destinando ai creditori i proventi di tale attività unitamente alla liquidazione dell'intero patrimonio sociale, costituito da beni immobili e crediti. Riscontrava, altresì, il Tribunale adito che la prima deliberazione sociale intervenuta ai sensi dell'art. 152 l. fall., in relazione alla domanda c.d. “in bianco”, doveva essere altresì integrata da altra deliberazione, sempre ai sensi dell'art. 152 l. fall., da rilasciarsi in relazione alla domanda definitiva di ammissione alla procedura concorsuale minore.

Le questioni giuridiche

Il provvedimento in esame merita ampia condivisione sia in ordine ai profili procedimentali affrontati sia in ordine alla diversa e ben più complessa questione dei limiti di ammissibilità del concordato con continuità aziendale e di quello liquidatorio, e ciò con particolare riferimento al diverso regime definitorio tra i due istituti e dunque anche al conseguente regime normativo applicabile e al possibile campo di “frizione” tra gli stessi, lungo la linea di confine rappresentata dal c.d. concordato misto.
Ma andiamo per ordine.
Per quanto concerne il primo profilo tra quelli sopra solo tratteggiati, è da dirsi in termini generali che, di là dal dubbio che possa trovare applicazione l'art. 152 l. fall. anche in ipotesi di concordato con riserva stante la specialità del richiamo operato dell'art. 161, comma 4, legge fall. (cfr. VELLA, Il controllo giudiziale sulla domanda di concordato preventivo “con riserva”, in Fall. 2013, 86 ), è ragionevole restringere il controllo ai soli poteri previsti dal suo comma 1 (i.e., rappresentanza sociale) e non anche al documento indicato dal suo comma 3 (i.e., c.d. determina), in ragione del fatto che l'imprenditore ben potrebbe non avere ancora definito, all'atto del deposito della domanda di cui all'art. 161, comma 6, legge fall., il suo percorso concorsuale (i.e., concordato liquidatorio, oppure concordato in continuità, oppure ancora accordo di ristrutturazione dei debiti); e ciò con la conseguenza che la sua delibera o determina potrebbe risultare eccessivamente generica o, comunque, non adeguatamente motivata (sul punto, cfr. anche Trib. Milano, circolare, 18 ottobre 2012).
Certo è che, se si volesse aderire alla soluzione d'obbligatorietà della determina ai sensi dell'art. 152 legge fall., questa dovrebbe essere necessariamente predisposta e pubblicata due volte.
La prima in occasione del deposito della domanda di concordato con riserva, con manifestazione della volontà di presentare un piano di concordato od un accordo di ristrutturazione dei debiti. La seconda in occasione del deposito della documentazione di cui all'art. 161, commi 2 e 3, legge fall., con ricognizione del tipo di piano e di proposta che verranno effettivamente presentati ai creditori
Ne discende che la soluzione adottata, in parte qua, dal Tribunale ambrosiano risulta del tutto convincente e condivisibile.
Entrando ora in medias res, il profilo più interessante affrontato dal provvedimento in esame riguarda, in primo luogo, la questione di natura strettamente definitoria del concordato con continuità aziendale in relazione al concordato liquidatorio, questione che involge, per un verso, la definizione dell'istituto posto a metà strada tra quelli sopra accennati, e cioè, il concordato c.d. misto e, per altro verso, la collocazione sistematica del concordato c.d. ristrutturatorio in senso lato, ancora disciplinato dall'art. 160, lett. a, l. fall.
Sotto il profilo dell'area di applicazione del nuovo istituto introdotto dall'art. 186-bis l. fall., occorre ricordare che, prima dell'entrata in vigore della l. n. 134/2012, che ha convertito il c.d. Decreto Sviluppo (d.l. n. 83/2012), avrebbe potuto considerarsi quale concordato con continuità aziendale (ovvero con continuità dell'attività d'impresa) quello in cui, di fatto, proseguisse l'attività d'impresa (cfr. anche Amatore Jeantet, Il nuovo concordato preventivo, Giuffrè, 2013, Cap. XIII, § 1 ).
Tale figura, invero, non era oggetto di un'autonoma disciplina differenziatrice rispetto alle altre forme c.d. liquidatorie, e quindi rilevare che l'attività d'impresa non si era, né si sarebbe conclusa, finiva per avere, essenzialmente, una mera finalità descrittiva (così, ARATO, Il concordato con continuità aziendale, in ilFallimentarista.it, sezione “Speciale decreto sviluppo”, 3.8.2012, 3 e ss. ).
Oggi, tuttavia, non è più così. Ed invero, il concordato con continuità aziendale in senso proprio è divenuto, ora, una figura di concordato formalizzata.
Tale formalizzazione deriva dalla circostanza secondo cui solo a tale tipologia, nei termini in cui è stata consacrata dalla riforma, sono attribuiti gli speciali benefici previsti sia dall'art. 186-bis, sia, in parte, dall'art. 182-quinques l. fall., e cioè, rispettivamente, da un lato, l'inefficacia di preesistenti clausole contrattuali risolutive e la possibilità di proseguire i contratti con la P.A. o di partecipare a gare per la concessione di appalti pubblici e, dall'altro, la possibilità di essere autorizzati ad effettuare pagamenti di crediti anteriori per prestazioni essenziali.
Deve dirsi che, affinché sia integrata la fattispecie tipica del “concordato con continuità aziendale”, occorre che la prosecuzione dell'attività d'impresa costituisca comunque condizione fattuale necessaria, secondo la triplice esplicazione prevista in modo legalmente tipico dall'art. 186-bis (v. sempre Amatore Jeantet, Il nuovo concordato preventivo, cit., ibidem ).
Tale condizione è in realtà necessaria, ma non sufficiente (ARATO, ibidem). Occorrono in realtà anche altre tre ulteriori condizioni o requisiti formali, cioè:
i) che vi sia un piano, il quale preveda per l'appunto la prosecuzione dell'attività di impresa nelle tre possibili forme previste (da parte del debitore, o con la cessione dell'azienda in esercizio ovvero con il conferimento dell'azienda in esercizio in una o più società);
ii ) che tale piano contenga anche un'analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell'attività d'impresa, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura;
iii) che vi sia una relazione dell'esperto la quale attesti che la prosecuzione dell'attività d'impresa è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori.
Va aggiunto che risulta essere un dato incontrovertibile quello secondo cui, quando l'attività d'impresa non continui, non vi sarà mai – quoad naturam – un concordato con continuità aziendale, ma semmai solo un concordato liquidatorio o dismissivo (v. LAMANNA, La legge fallimentare dopo il decreto sviluppo, Milano, 2012, 58). Tuttavia, deve essere precisato che non ricorrerà un concordato con continuità aziendale in senso proprio nemmeno allorquando l'attività d'impresa prosegua, ma manchi un piano contenente l'analitica indicazione dei costi e dei ricavi, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura, o manchi (o sia inidonea alla sua funzione) la relazione dell'esperto attestante la funzionalità della prosecuzione dell'attività d'impresa al miglior soddisfacimento dei creditori (sia consentito di nuovo il richiamo a Amatore Jeantet, Il nuovo concordato preventivo, cit., ibidem ).
Deve pertanto tenersi presente che, quando l'attività d'impresa prosegue, il concordato può avere la configurazione di concordato con continuità aziendale in senso proprio solo quando ricorrano anche gli altri requisiti formali indicati nell'art. 186-bis, mentre, al di fuori di tale caso, il concordato che preveda la continuazione effettuale dell'attività, senza che siano presenti anche gli altri requisiti di legge, sarà sì comunque ammissibile come “concordato ordinario” (naturalmente purché ricorrano gli altri presupposti di ammissibilità previsti dalla legge, e in particolare quando sia attestata in modo motivato dall'esperto la fattibilità del piano), ma sarà “in continuità” solo “di fatto”, e non secondo la specifica qualificazione normativa, e ad esso resteranno di conseguenza estranei i benefici previsti per la figura tipizzata (così, ancora, LAMANNA, La legge fallimentare, ibidem ).
In realtà, sia i concordati che gli accordi con continuità aziendale erano modalità applicative già attuabili, e di concreto anche attuate nella prassi, in ragione dell'ampio contenuto che i piani concordatari e gli accordi possono avere ai sensi, rispettivamente, degli articoli 160 e 182-bis l. fall. (LAMANNA, La legge fallimentare, 58).
Il decreto sviluppo, pur non derogando in via di principio a tale criterio di ampia libertà dell'imprenditore nella concreta conformazione della proposta concordataria ovvero degli accordi di ristrutturazione (ovviamente nei limiti in cui non si violino norme imperative), introduce norme incentivanti di speciale favore per quei concordati e per quegli accordi di ristrutturazione caratterizzati dalla prevista prosecuzione dell'attività imprenditoriale.
Deve essere incidentalmente precisato che, sebbene le nuove norme riferiscano la continuità all'azienda, quest'ultima può al più essere conservata o gestita con criteri di continuità, ma ciò che, più appropriatamente ed in effetti può proseguire, è l'attività di impresa (LAMANNA, La legge fallimentare, 58).
Così chiarita questa modesta improprietà definitoria contenuta nel testo normativo, deve essere evidenziato che – a causa del forte condizionamento esercitato nella prassi dalla soverchiante frequenza statistica con cui sono stati sinora proposti concordati (con cessione dei beni) meramente liquidatori – la variante della continuità aziendale cosiddetta pura, contemplante, cioè, la prosecuzione dell'attività in capo alla stessa impresa e l'estinzione di debiti (integralmente ovvero nella percentuale indicata nella proposta) attraverso gli utili che l'impresa prevede di realizzare entro il periodo di durata dei piani concordatari, è stata finora una rara avis (LAMANNA, La legge fallimentare, 58). Sul punto, occorre ricordare che, di solito, tale forma di concordato implica un accordo dilatorio, e cioè una moratoria, simile a quella caratterizzante l'ormai abrogata amministrazione controllata.
Più frequentemente, la prosecuzione dell'attività aziendale si è realizzata, nella prassi, con la separazione dell'azienda dall'imprenditore che ne era prima titolare, e dunque, in una forma che può definirsi spuria, mediante la cessione (quanto meno non immediata) dell'azienda a terzi, ovvero il suo conferimento in una o più società anche di nuova costituzione (la c.d. NewCo).
Analogo risultato poteva ovviamente realizzarsi anche attraverso la previa temporanea gestione dell'azienda affidata a terzi (e cioè attraverso lo strumento dell'affitto d'azienda), se correlata ad una successiva cessione dell'azienda allo stesso affittuario o a terzi ovvero ancora ad un successivo conferimento in una diversa società, rivestendo l'affitto, in tal caso, la natura di mezzo strumentale e transitorio per giungere al trasferimento o al conferimento.
Ebbene, il nuovo articolo 186-bis l. fall. chiarisce, ora, espressamente che la disciplina di favore previste in caso di continuità aziendale vale per tutte le suddette varianti nelle quali l'attività d'impresa collegata ad un'azienda comunque prosegue o in capo allo stesso imprenditore, o in capo a terzi (anche se non risulta espressamente contemplato il caso dell'affitto che, a rigore, fuoriesce dalla definizione normativa e dall'applicazione, quanto meno quella diretta, delle norme di favore in esame).
Si tratta, come è stato icasticamente osservato, di una sorta di “esercizio provvisorio dell'impresa” in vista del ritorno in bonis della stessa impresa ovvero del trasferimento a terzi dell'attività aziendale “in esercizio” (ARATO, Il concordato con continuità aziendale, cit., 2).
Afferma, altresì, la norma che, in tali casi, non contraddice il concetto di continuità aziendale la circostanza che il piano preveda anche la liquidazione dei beni non funzionali all'esercizio dell'impresa. Pertanto, l'articolo 186-bis fa rientrare nella categoria dei concordati con continuità aziendale anche quelli in cui l'attività prosegue mediante il mantenimento “in esercizio” di una parte soltanto dell'attivo (i.e. un ramo d'azienda), mentre l'altra parte dell'attivo (quello, cioè, “non funzionale all'esercizio dell'impresa”) viene liquidata atomisticamente (ARATO, ibidem). In tale ultimo caso, peraltro, il pagamento del creditore dovrebbe eseguirsi subito dopo la riscossione del prezzo di alienazione del bene, che dovrà avvenire a sua volta entro il termine di esecuzione indicato nella proposta, fatto salvo, qui, il pagamento degli interessi, e ciò con il diverso termine di decorrenza prevista dagli artt. 54 e 55 l. fall., a seconda che si tratti di interessi relativi ai crediti muniti di privilegio generale ovvero a crediti muniti di prelazioni speciali.
In ordine alla figura del c.d. concordato misto di cui da ultimo in parola, va affrontato altresì il profilo del requisito della mancanza di funzionalità dei beni da liquidare rispetto all'esercizio dell'impresa. Sul punto, è da dirsi che si pone, in primo luogo, la questione delle conseguenze che possono verificarsi nel caso in cui i beni di cui sia prevista l'autonoma liquidazione siano funzionali all'esercizio dell'impresa e, in secondo luogo, la questione riguardante la connotazione del requisito in parola.
Per quanto concerne il primo profilo fra quelli tratteggiati, va detto che devono ritenersi tre le soluzioni praticabili.
Invero, potrebbe ritenersi che i beni non siano liquidabili e debbano pertanto essere necessariamente accorpati all'azienda cui l'esercizio di impresa si riferisce, salvo, poi, stabilire in che modo il tribunale possa intervenire sulla questione, imponendo l'accorpamento ovvero sanzionando in qualche modo la sua mancanza. Inoltre, potrebbe ritenersi che la funzionalità – la cui presenza dovrebbe giustificare la riconduzione dei beni nell'azienda alla quale l'esercizio di impresa si riferisce – possa influire negativamente sul giudizio di fattibilità del concordato con continuità, con tutte le conseguenze del caso in sede di valutazione di ammissibilità della proposta concordataria e di successiva omologazione della stessa. Infine, e parrebbe questa la soluzione preferibile, potrebbe ritenersi semplicemente non più configurabile tale forma di concordato, con la conseguente dichiarazione giudiziale di non fruibilità degli speciali benefici ad esso riservati (LAMANNA, La legge fallimentare, 63).
Quest'ultima sembrerebbe, come accennato, la soluzione preferibile, atteso che essa risulta essere maggiormente coerente con la funzione definitoria assolta dalla norma in commento, e ciò nel momento in cui la stessa consente di considerare ancora un concordato in continuità quello il cui piano preveda anche la liquidazione dei beni non funzionali all'esercizio dell'impresa. Senza tralasciare di precisare che, in difetto dei requisiti in discorso, non si potrà ritenere che il concordato sia in continuità (il richiamo è sempre al mio ultimo scritto Amatore Jeantet, Il nuovo concordato preventivo, cit., ibidem).
La seconda questione riguarda, invece, la connotazione del requisito in parola, e in particolare il profilo relativo alla necessità di chiarire se la funzionalità debba essere riferita all'attività di impresa, così come esercitata dal debitore al momento della presentazione della domanda di concordato, ovvero in relazione alle prospettive di esercizio di impresa (così, anche, QUATTROCCHIO-RANALLI, Il concordato in continuità e ruolo dell'attestatore : poteri divinatori o applicazione di principi di best practice, in ilFallimentarista.it, 7 ss ).
Si deve convenire con quella autorevole dottrina richiamata (cfr. LAMANNA, La legge fallimentare, 64) che ritiene preferibile questa seconda interpretazione, in quanto consente una maggiore elasticità nelle scelte gestionali e risulta essere maggiormente coerente con l'obiettivo della riforma di favorire l'accesso alla procedura di concordato con continuità aziendale.
In conclusione, deve essere precisato come, con la schematizzazione della continuità aziendale, il legislatore abbia inteso dettare una particolare tutela in tutti i casi in cui l'imprenditore decida di affrontare il recupero della propria azienda, disponendo taluni vantaggi di ordine patrimoniale e di gestione a suo favore.
In realtà, deve essere aggiunto che anche la continuità aziendale nel concordato preventivo non è una scelta discrezionale che il debitore può esercitare nel predisporre il piano di risanamento, giacché la sua realizzazione trova fondamento esclusivamente in una situazione di fatto e di diritto che lo consenta.
In sintesi, è necessario che la prosecuzione dell'esercizio dell'impresa risulti compatibile con le condizioni di mercato interne ed estere; che la produzione sia valida ad ogni effetto e possibilmente, a parità di costi, migliore rispetto a quella dei concorrenti; che si disponga di sufficienti flussi finanziari, equilibrandone in modo efficace le fonti ed evitando di eccedere nel ricorso al capitale di terzi; che possa essere immediatamente affrontata la situazione debitoria mediante un piano di ristrutturazione o liberando nuove risorse; che siano assicurati mezzi liquidi sufficienti per superare sia la situazione transitoria propedeutica al risanamento, sia per avviare l'ordinaria produzione, sia per eseguire il piano di rientro delle obbligazioni ed il recupero della normale capacità reddituale (così, ancora, LO CASCIO, Crisi delle imprese, attualità normative e tramonto della tutela concorsuale, in Fall., 2013, 5 e ss.).
Venendo ora a tratteggiare l'altro istituto preso in esame dal provvedimento in commento, e cioè, più in particolare, il profilo definitorio del concordato liquidatorio, va ricordato che, nell'attuale assetto normativo, si è passati, rispetto al passato, da una disciplina che attribuiva al concordato un contenuto tipico caratterizzante le fattispecie normative del concordato con garanzia e con cessione dei beni – cui si era aggiunto il concordato misto (ove per misto doveva considerarsi il concordato in cui alla cessione dei beni ai creditori si aggiungeva la garanzia personale di un terzo che rafforzava sussidiariamente la garanzia principale), ad una nuova disciplina che lascia al debitore la libertà di scegliere le forme più diverse per risolvere la crisi della sua impresa (BOZZA, La fase esecutiva del concordato preventivo con cessione dei beni, in Fall., 7, 2012, 767 ).
Sub Julio, la liquidazione del concordato con cessione dei beni poggiava su alcuni principi raffinati dalla giurisprudenza, per i quali, da un lato, si prevedeva che la cessione dei beni andasse ricondotta, "sia pure con le caratteristiche proprie di un procedimento complesso ed articolato, alla figura generale della cessione dei beni ai creditori prevista dall'art. 1977 c.c., la quale si sostanzia in un mandato irrevocabile a gestire e liquidare i beni del debitore, senza alcuna efficacia traslativa della proprietà, e con il quale si conferisce agli organi della procedura la legittimazione a disporre dei beni dell'imprenditore al fine di soddisfare il ceto creditorio" (Cass., SS. UU., 27 luglio 2004, n. 14083; Cass., 11 agosto 2000, n.10738) e, dall'altro, che la cessione dovesse riguardare l'intero patrimonio del debitore (BOZZA, La fase esecutiva del concordato preventivo, cit., 767).
Peraltro, giova ricordare che, sebbene per l'apertura della procedura fosse posta la condizione che la valutazione dei beni ceduti facesse fondatamente ritenere che i creditori chirografari potessero essere soddisfatti almeno nella misura del 40%, il secondo comma dell'art. 186 l. fall. escludeva la risoluzione nel caso in cui la liquidazione dei beni avesse permesso una soddisfazione dei creditori chirografari inferiore a tale soglia e che la risoluzione per inadempimento ai sensi dell'art. 186 l. fall. era ammessa quando, anche prima della liquidazione di tutti i beni, fosse emerso che le somme ricavabili dalla vendita dei beni ceduti si rivelassero insufficienti, in base ad una ragionevole previsione, a soddisfare, anche in minima parte, i creditori chirografari e, integralmente, i privilegiati.
Inoltre, la disciplina sulla esecuzione era molto scarna in quanto l'art. 182 l. fall. si limitava a prevedere che "se il concordato consiste nella cessione dei beni e non dispone diversamente, il tribunale nomina nella sentenza di omologazione uno o più liquidatori e un comitato di tre o cinque creditori per assistere alla liquidazione e determina le altre modalità della liquidazione".
Invero, l'odierno concordato con cessione dei beni è caratterizzato da una profonda atipicità, per cui non è più necessariamente assimilabile alla cessio bonorum privatistica, di cui agli artt. 1977 ss. cod.civ. (sia consentito di nuovo il richiamo a Amatore Jeantet, Il nuovo concordato preventivo, cit., Cap. X, § 1 ).
Va soggiunto che il concordato con cessione dei beni può avere ancora finalità liquidatorie, ma anche essere utilizzato come strumento di risanamento che, attraverso la cessione dei rami di azienda improduttivi, può consentire al debitore di continuare la sua attività con i beni residui, magari ristrutturandola con l'intervento di terzi o dei creditori, prospettiva possibile lì dove la crisi non sia già sfociata nell'insolvenza, prestandosi oggi anche a tale finalità risanatoria, e non già a quella esclusivamente liquidatoria (BOZZA, La fase esecutiva del concordato preventivo, cit., 767; PACCHI, La riforma del concordato preventivo. Uno sguardo al passato, in AA.VV., a cura di Pacchi, Il nuovo concordato preventivo. Dallo stato di crisi agli accordi di ristrutturazione, Milano 2005, 90).
Ne discende che, a fronte di tale libertà propositiva, non potevano non contrapporsi regole che disciplinassero l'esecuzione del concordato e la cui normativa, nella figura con cessione dei beni, riguardasse più direttamente la liquidazione, in modo da indirizzare l'attività attuativa verso criteri di legalità a garanzia dei creditori.
In realtà, queste regole sono contenute, in linea generale, nell'art. 185 l. fall., la cui disciplina assegna al commissario il compito di sorvegliare l'adempimento del concordato secondo le modalità stabilite nella "sentenza" di omologazione, e, per quanto riguarda il concordato con cessione dei beni, nell'art. 182 (BOZZA, La fase esecutiva del concordato preventivo, cit., 767). Quest'ultima norma è rimasta intatta nel primo comma, il quale conferiva al tribunale, al momento dell'omologa, un potere di integrazione della proposta per colmarne le lacune; tuttavia, è stato completamente riformulato per il resto con il decreto correttivo del 2007 che, ricorrendo alla terminologia diffusa, ha fallimentarizzato la liquidazione concordataria (AMBROSINI-DEMARCHI-VITIELLO, Il concordato preventivo, Bologna, 2009, 256).
Va anche ricordato che, secondo una parte della giurisprudenza e della dottrina, nel caso di concordato per cessione di beni che non comporti l'immediato trasferimento della proprietà ai creditori, la proposta dovrebbe prevedere necessariamente l'indicazione specifica del “trattamento” che viene promesso a ciascun credito o a ciascuna classe di creditori, e cioè la previsione della percentuale di soddisfacimento del credito (da intendersi come assunzione da parte del debitore del relativo obbligo) che tale attribuzione patrimoniale avrebbe potuto garantire (così, Trib. Milano 28 ottobre 2011, 2012, 78; Trib. Piacenza 23 giugno 2009; in dottrina PAJARDI-PALUCHOWSKI, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, 824 ss.; FERRO, Commento sub art. 160 l.fall., Condizioni per l'ammissione alla procedura, in M. Ferro (a cura di), La legge fallimentare, Padova, 2011, 1724-1726 ).
Ebbene, in tale prospettiva si riteneva inammissibile una proposta che non prevedesse alcun soddisfacimento determinato per i creditori ma, soltanto, la messa a disposizione dei creditori medesimi di tutti i beni del debitore. Secondo tale tesi, la proposta dovrebbe sempre indicare una “misura”, percentuale che i creditori assumeranno come “misura” delle proprie possibilità di recupero.
Tale interpretazione aveva trovato conferma, peraltro, in un obiter di una pronuncia della Suprema Corte secondo cui la proposta di concordato per cessione di beni non potrebbe essere disancorata dalla promessa di un risultato utile conseguibile, precisato o implicito in una percentuale di soddisfacimento, senza il quale la proposta del debitore diverrebbe aleatoria in senso giuridico, pur a fronte dell'effetto esdebitatorio certo della falcidia concordataria (Cass. 15 settembre 2011, n. 18864; contra Cass. 23 giugno 2011, n. 13817).
Secondo una diversa interpretazione – ove la proposta preveda la cessione dei beni in funzione del soddisfacimento monetario dei creditori – il debitore ha la facoltà, ma non l'obbligo, di indicare la percentuale di soddisfacimento degli stessi (in questi termini Cass. 23 giugno 2011, n. 13817, cit.).
Deve comunque ritenersi che per tutti gli altri tipi di concordato - che non prevedano l'attribuzione ai creditori della proprietà o della disponibilità di beni in luogo della dazione di denaro - risulta sempre necessaria l'indicazione della percentuale offerta, a pena di inammissibilità per assoluta indeterminatezza ovvero indeterminabilità dell'oggetto della proposta (cfr. Amatore Jeantet, Il nuovo concordato preventivo, cit., ibidem ).
Secondo l'ultimo arret della Cassazione, inoltre, nel concordato per cessione di beni la mancata previsione della soddisfazione o pagamento di tutti i creditori, ivi compresi i chirografari (questi ultimi in qualsiasi misura o modalità), in tempi ragionevoli non soddisfa la “causa della procedura” e determina l'inammissibilità della proposta.
Secondo la Corte rientra pertanto nell'ambito del controllo del tribunale la rilevazione del dato, se emergente “prima facie”, da cui poter desumere l'inidoneità della proposta a soddisfare in qualche misura i diversi crediti rappresentati, nel rispetto dei termini di adempimento previsti. Affermazione che, pur nella diversità delle proposte, ha una valenza sicuramente generale, applicabile com'è, mutatis mutandis a tutti i tipi di concordato. Il riferimento all'emersione “prima facie” del dato sembra riecheggiare proprio l'ultimo comma dell'art. 186 - bis l.fall. in tema di concordato con continuità aziendale, là dove si prevede che il tribunale provveda ai sensi dell'art. 173 l.fall. ove l'esercizio dell'attività d'impresa risulti “manifestamente dannoso per i creditori”. Come il potere di controllo residuale, di etero tutela del tribunale ai sensi dell'art. 186-bis l.fall. può giustificarsi non in un'ottica di mera incertezza sulla convenienza della continuazione dell'attività d'impresa rispetto alle ragioni dei creditori, ma di manifesta non convenienza, così il tribunale dovrà negare l'ammissibilità del concordato ove sia a tutti evidente l'inidoneità della proposta a soddisfare in qualche misura i diversi crediti rappresentati, nel rispetto dei ragionevoli termini di adempimento previsti.

Osservazioni

Alla luce di queste premesse, il provvedimento in esame, peraltro efficacemente motivato, merita la più ampia condivisione anche in ordine alle conclusioni raggiunte.
Ed invero, la peculiarità della vicenda in esame risiede nel fatto che la parte ricorrente non aveva proposto sic et simpliciter un concordato liquidatorio ovvero un concordato con continuità sussumibile nella disciplina regolatrice di cui all'art. 186-bis l. fall., ma, al contrario, aveva delineato una prima fase esecutiva del piano concordatario, nella quale era prevista, come una sorta di “esercizio provvisorio” da autorizzarsi da parte del tribunale già in sede di ammissione alla procedura, la gestione delle “commesse in corso” (così, verbatim, si esprime il provvedimento in commento ), ed una seconda e successiva fase di liquidazione dell'intero patrimonio aziendale, nella quale far confluire sia le risorse estraibili dalla continuazione dell'attività gestoria imprenditoriale sopra descritta sia la monetizzazione ricavabile dalla liquidazione dei beni immobili e dei crediti della società debitrice.
Di qui le legittime considerazioni critiche espresse dal Tribunale di Milano nel decreto qui in scrutinio. Perché, se il piano è riconducibile nell'alveo di applicazione dell'art. 186-bis l. fall., ove, oggi, è espressamente previsto, per quanto osservato nel § precedente, che “il piano può prevedere anche la liquidazione dei beni non funzionali all'esercizio della impresa”, allora occorrerà prevedere nel piano concordatario, come acutamente rilevato anche dal Tribunale ambrosiano, che il pagamento dei creditori avvenga in misura in ogni caso superiore a quella che potrebbe loro derivare dalla liquidazione dell'intero patrimonio della società, con la ulteriore conseguenza che, per consentire all'attestatore di esprimersi anche in ordine alla funzionalità del piano “alla migliore soddisfazione dei creditori”, si dovrà pretendere anche una specifica indicazione della percentuale di soddisfacimento finale che, seppure prudenzialmente formulata, assuma tuttavia carattere impegnativo e cogente per il proponente il concordato.
Diversamente, qualora si ritenesse che il debitore si voglia liberare delle proprie obbligazioni ponendo a disposizione l'intero suo patrimonio e dunque assicurando semplicemente, come oggi consentito anche dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, un qualche soddisfacimento dei creditori chirografari, seppure non in modo irrisorio, allora dovrebbe ritenersi che la fattispecie in esame sia da ricondurre nella circoscrizione applicativa dell'art. 182 l. fall., con la ulteriore conseguenza che la temporanea prosecuzione dell'esercizio di impresa avverrebbe, pertanto, solo “di fatto” (anche qui si mutua la efficace espressione menzionata nel provvedimento in commento), quale strumento per la migliore valorizzazione dell'attivo, e peraltro la società proponente non potrebbe essere ammessa al regime normativo “premiale” previsto dagli artt. 182-quinques e 186-bis l. fall., in tema, più in particolare, di pagamento dei creditori anteriori e di ampliamento del regime della prededuzione.

Conclusioni

Se fin qui le conclusioni del tribunale milanese sono del tutto convincenti, è da dirsi che tuttavia il provvedimento in esame non prende una conclusione definitiva in ordine alla qualificazione giuridica del concordato presentato dalla società debitrice, rimettendo a quest'ultima, in sede di richieste di integrazioni del piano ex art. 162, primo comma, l. fall., l'onere assertivo ed allegatorio di chiarire meglio la tipologia di concordato di cui si intende chiedere l'ammissione.
Volendo, qui, superare le conclusioni ultime cui giunge (o forse – sia consentito – non vuole giungere il tribunale ambrosiano, nella opportuna attesa di uno sforzo chiarificatore rimesso alla società proponente), deve ritenersi incongrua la prospettazione – da parte del proponente - di una sorta di “esercizio provvisorio” antecedente la liquidazione, se non altro perché, se inteso in senso proprio, l'istituto dell'esercizio provvisorio è previsto dall'art. 104 l. fall. solo ed esclusivamente in relazione alla procedura concorsuale principale, e non già in relazione alle procedure concorsuali c.d. minori.
Del resto, l'art. 182 l. fall. richiama, con il limite peraltro della compatibilità, l'applicazione solo degli articoli dal 105 al 108-ter l. fall., con la esclusione pertanto dell'art. 104 l. fall. che regola, come detto, l'istituto dell'esercizio provvisorio nell'ambito del fallimento.
Sarebbe peraltro improprio anche ricondurre la fattispecie concreta qui in esame sotto il “fuoco” normativo dell'art. 186-bis l. fall., giacché in tal caso la figura del concordato c.d. misto ricorre allorquando il piano preveda, oltre alla continuità aziendale nelle forme sopra descritte, “anche” la liquidazione dei “beni non funzionali” all'esercizio della impresa, e non già, come nel caso di specie, quando sia prevista una prima fase di continuità aziendale seguita poi dalla liquidazione atomistica dei singoli beni componenti il compendio aziendale.
Detto altrimenti, la liquidazione dei beni “non funzionali” rappresenta, nell'ambito dell'istituto regolato dall'art. 186-bis l. fall., una fase “incidentale” del piano di esdebitamento la cui funzione è quella di rendere maggiormente conveniente per il ceto creditorio la continuità aziendale tramite la liquidazione dei beni non necessari per la ristrutturazione aziendale, e ciò in vista sempre del raggiungimento dell'obiettivo di garantire il “miglior soddisfacimento dei creditori”, ai sensi dell'art. 186-bis, secondo comma, lett. b, l. fall.. In questo contesto applicativo, non vi è pertanto spazio per una continuità aziendale che sia solo strumentale alla miglior liquidazione dei beni aziendali.
Ebbene, nel caso di specie avviene una “funzionalizzazione” della continuità aziendale per la migliore liquidazione del patrimonio aziendale, con una evidente inversione logica rispetto alle finalità perseguite dal nuovo istituto pattizio di regolamentazione della crisi previsto dall'art. 186-bis l. fall., ove invece è, nella ipotesi di concordato misto, la liquidazione degli assets non strategici ad essere “funzionalizzata” ad una più proficua continuazione dell'attività aziendale. Ne discende, come ulteriore e conseguente corollario, che non risulta neanche applicabile nel caso in esame il regime incentivante dei benefici previsti dagli artt. 182-bis e 182-quinques l. fall.. Se così è, allora non rimane che ricondurre la fattispecie concreta in esame al paradigma concettuale del concordato ristrutturatorio e liquidatorio lato sensu inteso, come regolato dall'art. 160, primo comma, lett. a, l. fall., la cui “atipicità” contenutistica consente al debitore proponente di modulare il piano di esdebitamento in “qualsiasi forma”, e dunque anche attraverso modalità liquidatorie peculiari che prevedano la fase liquidatoria preceduta da una prosecuzione dell'attività d'impresa ( come detto, in una sorta di “esercizio provvisorio concordatario” de facto ) diretta alla migliore valorizzazione degli assets aziendali da sottoporre a liquidazione.
Del resto, l'introduzione dell'art. 186-bis l. fall. non ha in alcun modo modificato la lettera dell'art. 160, primo comma, l. fall., con la conseguenza che, da un punto di vista sistematico, nella più ampia categoria concettuale del concordato preventivo possono ricomprendersi, da un lato, i concordati liquidatori (regolati anche dall'art. 182 l. fall. ) e, dall'altro,. i concordati ristrutturatori latamente intesi, di cui il concordato con continuità aziendale ex art. 186-bis l. fall. rappresenta, con il suo sistema normativo di incentivi e benefici, una sottocategoria concettuale, la cui applicazione è strettamente collegata alla ricorrenza dei presupposti applicativi previsti dal primo e secondo comma della norma da ultimo ricordata.

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