I "tempi" del piano nel concordato preventivo e la ragionevole durata del processo

Salvo Leuzzi
06 Giugno 2014

È inammissibile il concordato preventivo di natura "mista", in parte in continuità aziendale, in parte liquidatorio, incentrato su un piano che non contempli, né assicuri una pur minima soddisfazione dei crediti entro termini ragionevolmente contenuti.
Massima

È inammissibile il concordato preventivo di natura "mista", in parte in continuità aziendale, in parte liquidatorio, incentrato su un piano che non contempli, né assicuri una pur minima soddisfazione dei crediti entro termini ragionevolmente contenuti.

Il caso

Innanzi al Tribunale di Prato, il titolare di una farmacia, ottenuto il termine di 60 giorni ex art. 161, commi 2 e 3, l. fall., depositava, unitamente alla proposta e alla documentazione di legge, un piano che prevedeva: il pagamento integrale nel corso del 2014 delle spese di procedura; il pagamento integrale dei creditori privilegiati in 9 rate annuali, la prima delle quali non oltre un anno dal decreto di omologa passato in giudicato; il pagamento integrale dei creditori ipotecari al momento della cessione dei beni immobili su cui gravavano ipoteche; il pagamento dei creditori chirografari in misura pari al 20% del loro ammontare in 8 rate annuali, la prima delle quali nel corso dell'esercizio del 2016; la vendita, nel corso dell'esercizio del 2024, della farmacia al prezzo di cessione di € 1.000.000,00, nonché della quota indivisa di beni ereditari per l'importo di € 60.000,00, così da consentire di soddisfare i creditori chirografari per la parte rimasta inadempiuta al 31 dicembre 2023, nella misura stimata del 35%, permettendo così una soddisfazione del ceto creditorio chirografario nella percentuale del 55%.
Il caso portato all'attenzione del giudice toscano poneva, all'evidenza, il problema dell'ammissibilità di un concordato preventivo facente fulcro su di un piano che, secondo quanto prospettato dalla ricorrente, era realizzabile mediante una forma mista di concordato in continuità e poi liquidatorio, che nel prevedere l'integrale soddisfazione dei crediti privilegiati e un'elevata percentuale di soddisfacimento dei crediti chirografari, si spalmava, tuttavia, nel corso di un lasso temporale addirittura decennale, implicando una rateizzazione dilatoria dei pagamenti in favore dei chirografari in otto rate annuali, con decorrenza del pagamento della prima rata addirittura dall'anno 2016, nonchè una piena attuazione del piano concordatario procrastinata al 2023-2024.
Il tribunale toscano ha decretato l'inammissibilità del concordato, sanzionandone essenzialmente proprio l'aspetto della irragionevole durata.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Il collegio pratese ha sanzionato per inammissibilità la domanda di accesso alla procedura concorsuale "minore", valorizzando essenzialmente tre convergenti profili di criticità. In primo luogo si è dato risalto al disposto di cui all'art. 186-bis l. fall. che prevede un termine di moratoria almeno tendenzialmente infrannuale per il pagamento dei crediti privilegiati; in secondo luogo si è posta attenzione alla natura del controllo giudiziale in fase di ammissione del concordato, per come puntualmente ridefinito dalle Sezioni Unite nella nota sentenza n. 1521/2013, anche con riferimento all'aspetto dell'estensione temporale; infine, si è fatto richiamo ai termini di ragionevole durata delle procedure concorsuali stabiliti dalla legge 89/2001 (c.d. Legge Pinto), per come riveduti dal D.L. 83/2012 (c.d. Decreto Sviluppo).
La pronuncia in discorso ascrive al giudice adito con la domanda di accesso al concordato la valutazione sull'irragionevole durata del concordato medesimo, integrando detto aspetto una condizione di ammissibilità della domanda, che esige e presuppone per ciò stesso un giudizio sulla fattibilità giuridica del piano che quella domanda "operativamente" articola.
Nella più recente giurisprudenza di merito si è venuto opportunamente evidenziando come la vicenda concordataria preventiva debba concludere il proprio corso entro un lasso ragionevolmente contenuto (v. ex multis Trib. Modena, 13 giugno 2013, decr.).
In tema di ragionevole durata, salienti innovazioni sono state inserite, d'altronde e come accennato, nel corpo della L. n. 89/2001 dal dibattuto Decreto Sviluppo. Nella specie, sono stati significativamente precisati i termini di durata del processo, oltre i quali è suscettibile di venire in essere il diritto all'equa riparazione. Per quel che rileva ai fini della presente indagine, nel caso di procedimento di esecuzione forzata la durata del processo è ragionevole se non eccede i 3 anni; nel caso di procedura concorsuale la durata non deve superare i 6 anni.
Come segnalato da autorevole dottrina (v. LAMANNA, Il c.d. decreto sviluppo: primo commento sulle novità in materia concorsuale, in IlFallimentarista.it, 27 giugno 2012, anche per gli opportuni rinvii giurisprudenziali), l'art. 55 della normativa in commento, nel forfetizzare ex lege la durata ragionevole dei processi, stabilisce per i fallimenti una durata-limite di 6 anni. La norma è apparsa illogica, nella misura in cui ha veicolato nel contesto ordinamentale delle procedure concorsuali un limite addirittura più esiguo di quello già ridottissimo di 7 anni suggerito in un recente passato dalla Cassazione. L'incongruità della norma sembra annidarsi in ciò, che si finisce per considerare come ragionevole durata quella di sei anni prevista per qualunque processo ordinario per completare i normali tre gradi di giudizio, sebbene i parametri elaborati per i giudizi ordinari di cognizione e per il processo esecutivo individuale non si prestino ad essere automaticamente riversati nell'àmbito peculiare dei fallimenti e delle procedure concorsuali "minori", strutturalmente contraddistinti da una complessità specialissima, data per un verso dalla pluralità di creditori, per altro verso dalla mole composita di adempimenti specifici, che vanno da una fase variamente modulata di accertamento dei crediti, all'individuazione e alla definizione di rapporti in corso pure complessi, dal recupero dei crediti, alla ricostruzione dell'attivo, fino alla liquidazione.

Osservazioni

Di sicuro rilievo lo "spunto" della pronuncia in commento in cui, per un verso, si esclude che i tempi di realizzazione "decennale" del concordato siano conformi al dettato legislativo dell'art. 2 legge 24/03/2001 n. 89, come modificato con il D.L. 22/06/2012 n. 83, mentre, per altro verso, si ravvisa nel profilo della durata del piano una valutazione connessa alla fattibilità giuridica, prerogativa riservata all'organo giudicante.
L'aspetto complesso attinto dalla pronuncia in commento è a ben guardare duplice: per un verso rileva il tema dell'applicabilità alle procedure concordatarie preventive – soprattutto se incentrate sulla continuità aziendale, se del caso frammista ad una ipotesi operativa liquidatoria – di limiti di durata suscettibili d'essere vagliati dal giudice collegiale adito; per altro verso emerge l'esigenza – risolta affermativamente la prima questione – di dare una misura esatta a quei limiti, ossia di tradurre numericamente la nozione elastica di ragionevole durata in rapporto all'istituto del concordato preventivo..
È un dato di fatto che il nostro legislatore non abbia, ancor di recente, ritenuto di enucleare un "tempo massimo" ad hoc in relazione alle procedure concordatarie. Ed è in certo modo saliente che la Corte di Cassazione, che in diverse pronunce pure si è, ancor di recente, espressa sui danni connessi all'irragionevole durata del processo fallimentare (v. tra le altre Cass. 7 giugno 2012, n. 9254 e Cass. 28 maggio 2012, n. 8468, che hanno stimato in sette anni i tempi di durata di una procedura fallimentare complessa e in cinque anni quelli di una procedura di media complessità), non abbia a tutt'oggi assunto una posizione esplicita in merito al rapporto tra durata ragionevole e procedure concordatarie (soprattutto in continuità), tampoco abbia contato in anni la vita di un piano concordatario "sostenibile" sul piano della ragionevole durata.
Ciò, tuttavia, non può giovare ad escludere l'applicabilità, pure ai concordati preventivi, del principio della ragionevole durata dei processi, ai fini della valutazione dei tempi di esecuzione dei concordati medesimi programmati e scadenzati nel piano.
Va riconosciuta, d'altronde, l'appartenenza delle garanzie di cui all'art. 111 Cost., come novellato dalla L. Cost. n. 2 del 1999 ed all'art. 6 della C.E.D.U. al corredo cromosomico di ogni processo. E infatti, affiora il limpido tenore dei commi primo e secondo della norma anzidetta, che, rispettivamente, parlano di “giurisdizione”, senza distinzioni di sorta, e di “processo”, premettendo a quest'ultimo l'indefinito “ogni”. Come i principi scolpiti nei primi due commi dell'art. 111 trovano applicazione nel giudizio civile, così non è dato dubitare che riserva di legge, contraddittorio tra le parti in condizioni di parità, terzietà ed imparzialità del giudicante e ragionevole durata parimenti informino tutta la materia concorsuale.
Dal punto di vista dell'inclusione dell'aspetto della durata nei confini del controllo di legalità facente capo al tribunale (pure) nella fase primaria dell'ammissione del concordato, merita considerare che, in effetti, la Corte di cassazione a Sezioni Unite, con la nota sentenza n. 1521/2013 è intervenuta sul tema controverso relativo all'estensione dei poteri del tribunale nell'esame della proposta e del piano concordatario, delineando a questpo riguardo un nitido quadro "di indirizzo". Nel comporre i dissidi affiorati al riguardo, i giudici di legittimità hanno avuto modo di puntualizzare, tra le altre cose, come rimanga saldo e impregiudicato, pure al netto della riforma del concordato preventivo, il compito, in capo al giudice collegiale, di esprimere "un giudizio negativo in ordine all'ammissibilità quando le modalità attuative risultino incompatibili con norme inderogabili”.
Ora, ove un piano concordatario si faccia carico di condurre al soddisfacimento dei creditori in un segmento temporale esorbitante rispetto ai tempi massimi scanditi dal legislatore nella cd. Legge Pinto, detta criticità cronologico-operativa parrebbe ridondare, ad avviso del collegio toscano, nel senso della inammissibilità della proposta. E d'altronde, se per un verso i tempi della Legge Pinto sembrano doversi circoscrivere a tre anni per un concordato di natura liquidatoria, assimilabile, per la sua natura congenita di espropriazione coatta di carattere "generale", ai tempi fisiologici di un'esecuzione forzata; per altro verso quegli stessi tempi non dovrebbero oltrepassare la cifra dei sei anni per un concordato con continuità aziendale, equiparabile, per contiguità contenutistico-ontologica, ai tempi connessi ad una procedura fallimentare "tipo".

Le questioni aperte

La pronuncia toscana in commento è certamente frutto di una rigorosa applicazione della Legge Pinto. Nondimeno essa lascia affiorare l'antinomia latente tra due principi normativi, durata del giusto processo e composizione “negoziale” della crisi d'impresa, risultando evidente che il rigido rispetto del primo rischia di comprimere significativamente il campo di applicabilità del secondo, con conseguente riduzione del contenuto innovativo della riforma dell'istituto concordatario, che a quest'ultimo ha inteso consegnare nuovo slancio e nuova linfa.
La legge concorsuale, nel nuovo impianto, è caratterizzata da un vasto spazio assicurato alle tecniche di composizione negoziale delle crisi d'impresa. L'intento del legislatore è andato senz'altro nel senso di un'inversione di rotta rispetto al panprocessualismo del sistema concorsuale pregresso, parzialmente messo in soffitta a vantaggio di elementi di contrattualismo di nuovo conio.
Non può negarsi che l'incongruenza fra la Legge Pinto e la realtà fattuale viene alla luce incisivamente allorché fra gli attivi concordatari siano ricompresi crediti, magari strumentalmente contestati e per il cui accertamento e successivo incasso debba necessariamente essere radicato un giudizio che si svolga in tutti i suoi gradi. In tal senso, un'applicazione rigida della legge in discorso minerebbe le potenzialità minimali dello strumento concordatario riformato.
In realtà, al giudice sembrerebbe ascriversi il delicatissimo compito di comporre l'antinomia perlomeno virtuale tra i due principi: la ragionevole durata del processo costituzionalmente espressa e la negozialità ormai consustanziale allo strumento concordatario. È il ruolo che le Sezioni Unite nella nota sentenza del gennaio 2013 hanno riconosciuto in capo al tribunale a rendere possibile una composizione di sintesi.
Come noto, ogni proposta concordataria deve essere accompagnata dall'attestazione di un professionista indipendente circa la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano concordatario. I giudici di legittimità, nella pronuncia n. 1521/2013, hanno enucleato tre principi in diritto che devono essere applicati in tutte le fasi del procedimento concordatario, muovendo proprio da quella di ammissione: innanzitutto, il tribunale deve verificare che la documentazione prodotta dal debitore sia tale da consentire ai creditori di votare sulla proposta concordataria avendo ricevuto tutti gli elementi utili a tal fine e che tali elementi siano contrassegnati da solidità e coerenza; in secondo luogo, il tribunale deve constatare che il piano concordatario non violi norme imperative e immagini soluzioni giuridicamente "percorribili"; in terzo luogo, il tribunale deve valutare che la proposta, sul piano della causa concreta, sia in grado di consentire all'imprenditore un superamento della crisi che assicuri ai creditori l'acquisizione di un soddisfacimento parziale dei loro crediti in tempi ragionevoli.
Ora, nella prospettiva delineata dalle Sezioni Unite, sembra evidente che al tribunale spetti di recuperare e assicurare ragionevolezza della durata e negozialità delle soluzioni di superamento della crisi in un compendio a sua volta ragionevole, che può essere efficacemente rinvenuto nella salvaguardia, per un verso, del consenso informato dei creditori sui dati loro forniti a base del piano e della proposta, per altro verso della attendibilità intrinseca al piano stesso, ossia della effettiva idoneità di quest'ultimo, sul piano della causa concreta, a rispondere secondo una logica tecnico-aziendalistica rigorosa e non campata in aria o affidata all'imperscrutabilità delle congiunture astrali agli obiettivi satisfattivi enucleati.
Merita considerare, peraltro, che il principio di ragionevole durata enunciato dalla C.E.D.U. per il quale "ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata... entro un termine ragionevole" va senz'altro inteso, in àmbito concorsuale, nel senso che entro quel termine al suo diritto di credito deve essere data una sostanziale certezza: l'aspettativa indefinita e indefinibile di una percentuale di soddisfacimento contrasta, del resto, con il principio di sicurezza e speditezza che dovrebbe conformare l'attività economica.
Il singolo creditore concordatario va posto nelle condizioni di poter "misurare" le proprie certezze, perlomeno rigorosamente probabilistiche, sulla base di addentellati reali ed elementi idonei di riscontro, che diano effettiva e non esigua sostanza alla sua aspettativa d'esser parzialmente soddisfatto, in un tempo non eccessivamente dilatato e "inaffidabile".
Occorre, in tal senso, che la causa concreta del concordato si poggi su dati scientificamente certi e su prognosi obiettive ed attendibili, non certo sugli auspici e sugli assiomi assertivi dell'attestatore.
La questione dei tempi del pagamento dei creditori, riguardata nell'ottica di questi argomenti, si inscrive senz'altro nel novero delle precondizioni oggetto di valutazione da parte del tribunale, poiché, come s'è potuto vedere, il controllo di fattibilità giuridica della proposta di concordato attiene eminentemente alla sussistenza del requisito causale, da individuarsi nel superamento dello stato di crisi dell'imprenditore e, parallelamente, nel pagamento in favore dei creditori di una pur minima percentuale delle loro spettanze, entro un tempo ragionevolmente contenuto. In questo senso, d'altronde, depone più che inequivocabilmente l'art. 161, comma 2, lett. e), l. fall., a tenore del quale al debitore è richiesto, non certo a caso, di presentare unitamente al ricorso anche “un piano contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta”. Vi è, dunque, che il termine di pagamento, se eccessivamente dilatato, oppure non preveduto in modo chiaro, deve essere vagliato giustappunto nell'àmbito della verifica della fattibilità giuridica della domanda concordataria.
Ora, un piano industriale che preveda di generare margini positivi entro un lasso temporale eccessivamente esteso non appare ragionevolmente valutabile sulla base di elaborazioni prognostiche fondate su parametri solidi e su criteri attendibili, consegnandosi "più che al rischio, alla pura speranza del realizzarsi di una congerie composita di convergenze favorevoli in realtà neppure ponderabili" (così testualmente Trib. Siracusa, 20 novembre 2013), per tale verso violando la best practice delle linee guida in materia che informano la redazione di piani di ristrutturazione del debito. Detti piani, tanto più in periodi congiunturali negativi come quello in corso, certamente impongono che l'arco temporale per il raggiungimento dell'equilibrio economico debba essere contenuto in uno spazio cronologico che sia coerente con le effettive capacità di previsione e che tenga conto di dati prognosticamente affidabili.
In tal senso, anche l'ambizione a voler riconnettere la dilatazione temporale alla specifica progettualità economica di un piano concordatario implica, di necessità, non solo un'adeguata motivazione della scelta operata ed una particolare attenzione nel giustificare le ipotesi e le stime offerte, ma, inoltre, la idonea previsione di cautele e misure di salvaguardia tali da compensare e, comunque, attenuare i possibili effetti negativi di eventi imprevisti ed imprevedibili, la cui verificazione, in un arco temporale così dilatato ed in condizioni congiunturali assai degradate, è ben ragionevole prevedere, tanto che, ove non lo si faccia, si pone all'attenzione del ceto creditorio un piano la cui prognosi si risolve in una mera congettura ex ante della attuabilità e della fattibilità concreta di azioni future (App. Catania 10 marzo 2014, confermativa di Trib. Siracusa, 20 novembre 2013). Al tribunale adito con la domanda di ammissione al concordato spetta precipuamente proprio il compito di vagliare che la proposta non contrasti con principi inderogabili, nel cui novero va incluso indubbiamente quello sulla durata del processo, considerata la rilevanza costituzionale del tema, puntualizzato nel secondo comma dell'art. 111 Cost., alla stregua di aspetto saliente del giusto processo.
In definitiva, appare chiaro che un piano che poggi su asseverazioni tendenzialmente assertive, in quanto prive di elementi contabili, finanziari ed economici idonei a costituirne utile giustificazione di supporto è un mero simulacro programmatico, che si consegna, più che ad una valutazione di convenienza, all'auspicio quasi scaramantico della maggioranza dei creditori, presupponendone non tanto il consenso (o il dissenso informato), ma un'opzione fideistica in un senso o in quello opposto. A tanto il legislatore delle riforme, che pure ha esaltato il profilo contrattualistico dei concordati, non ambiva certo ad approdare.
Nella riassunta prospettiva, più che i dettami della Legge Pinto, che in rapporto all'elasticità programmatica immanente nello strumento concordatario rivela più di un elemento di scarsa adattabilità, i piani concordatari "di lungo termine" sono destinati alla sanzione dell'inammissibilità nella misura in cui prevedano una riduzione dell'indebitamento dell'impresa avulsa da una scrupolosa analisi economico-finanziaria, ancorata a dati previsionali solidi, coerenti ed anche statisticamente "meditati" e verificabili, anzichè ad una ostensione di postulati legata a semplici e sfuggenti congetture.
Ed è evidente che detta sanzione si leghi in nuce proprio al ruolo di stretto controllo di legalità cui il sistema, secondo la lettura delle Sezioni Unite, ha deputato il tribunale anche nella fase cruciale in cui il concordato attende il suggello giudiziale dell'ammissione.
Quanto osservato non esclude che l'imprenditore in crisi non possa negoziare con i propri creditori tempi di soddisfazione "elasticizzati" in eccesso e finanche del tutto imponderabili, ma solo che debba farlo al di fuori del modulo concordatario, nel senso che lo strumento adoperabile non sarà certo quello, comunque processuale, del concordato preventivo, ma un mezzo diverso, pattizio e privatistico, al più ravvisabile nell'accordo di ristrutturazione dei debiti.
Un'ultima notazione giova forse a chiarire il quadro concettuale: non può, infatti, dubitarsi che il sostrato pubblicistico e la stessa configurazione giurisdizionale del procedimento di accesso al concordato, che, invero, intercetta la materia "sensibile" permeata dal principio cardine della par condicio creditorum e della graduazione delle cause di prelazione, implichi la conseguenza per la quale il diritto alla ragionevole durata del processo resta strettamente riferibile al concordato, che al netto della esaltata negozialità finisce per costituire pur sempre un processo.
Ora, anche nel contesto di una procedura caratterizzata dalla limitazione dei poteri degli organi giurisdizionali e dal ruolo attivo e dirimente riconosciuto ai creditori (o alla maggioranza di essi), non si può cessare di ritenere che destinatario dell'istanza di celerità sia, oltre ai creditori medesimi e al debitore che fa istanza di concordato, proprio l'organo giurisdizionale. La circostanza che l'attività della parte debitrice e del ceto creditorio sia svolta all'interno di un processo non vale ad incidere sulla responsabilità dello Stato di per sè stesso, nè a sottrarlo al peso dei danni cagionati da una procedura irragionevolmente lunga. In tal senso, se costituisce onere del debitore tenere una condotta endoprocedimentale diligente e celere, rimane compito del giudice del concordato, cui pure si rivolge il principio costituzionale di ragionevole durata del processo, esigere che il debitore medesimo collabori "in prima istanza" per la definizione indefettibilmente rapida dello stesso, traducendo detta rapidità nel contenuto della domanda, ossia in quel piano che alla domanda conferisce concretezza e sostanza.

Conclusioni

La pronuncia pratese appare condivisibile nella misura in cui lega l'inammissibilità del concordato all'irragionevolezza dei tempi di durata del piano che lo articola. In tal senso, un piano che si concluda dopo molti anni non si palesa ragionevolmente valutabile, per quanto munito di un'attestazione da parte dell'esperto che, a quel punto, difficilmente può poggiare su elaborazioni prognostiche basate su criteri comunemente riconosciuti come attendibili dalla scienza, rimanendo, per converso, confinato entro l'alveo incerto della mera speranza dei creditori del realizzarsi di una molteplicità di convergenze favorevoli e, comunque, imponderabili.
Ne deriva che prevedere la soluzione dei debiti concordatari in un lasso di tempo superiore, in media, a cinque anni è operazione disallineata dai tempi di ragionevole durata del processo concordatario.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

In tema si veda Trib. Monza, 11 giugno 2013 (in IlFallimentarista.it, con nota di JEANTET-COVINO, Il concordato con continuità aziendale: compatibilità con l'affitto d'azienda e durata poliennale del piano), che ha dichiarato l'inammissibilità di una proposta di concordato in continuità aziendale, che prevedeva la realizzazione di un piano industriale rispondente allo scopo di preservare il valore dell'azienda ed il soddisfacimento dei creditori in un arco temporale compreso tra dieci e venti anni dall'omologa. Si veda anche Trib. Siracusa, 20 novembre 2013, che ha negato l'omologa di un concordato a fronte della rituale opposizione di un creditore, in considerazione dell'esorbitante durata del piano e della incongrua dilatazione dei tempi di soddisfazione dei creditori, ritenendo non vantaggiosa una prospettiva di pagamento che superasse i tempi di una normale liquidazione, e ciò sempre alla luce del precedente giurisprudenziale della Corte di legittimità e della Legge Pinto. Sull'argomento della durata, in dottrina, si vedano AMATORE, Il giudizio difattibilità del piano nel concordato preventivo, in Dir. fall., 2012, I, 109. Si confrontino, poi, le Linee Guida per il finanziamento delle imprese in crisi, Università di Firenze, Assonime, CNDC.
In giurisprudenza si vedano anche Trib. Monza, 2 ottobre 2013, Trib. Bari, 3 giugno 2013, Trib. Como, 28 giugno 2013. Per una prospettiva differente da quella qui patrocinata cfr. Trib. Terni, 17 gennaio 2013. Sulla natura del controllo di legalità in capo al tribunale, anche in rapporto alla materia della durata del piano, si veda la nota sentenza delle Sezioni Unite in Cass. SS.UU. 23 gennaio 2013 n. 1521 e il commento di VITIELLO, Il problema dei limiti di controllo del Tribunale sulla fattibilità del piano come risolto dalle Sezioni Unite, in IlFallimentarista.it.

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