Il termine annuale di perdurante fallibilità dell’imprenditore individuale

11 Settembre 2013

Il termine annuale di perdurante fallibilità dell'imprenditore cessato, ex art. 10 l. fall., non decorre dall'effettiva cessazione dell'attività di impresa, ma dalla data della cancellazione dal registro delle imprese o da quella in cui detta cessazione sia portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei.
Massima

Il termine annuale di perdurante fallibilità dell'imprenditore cessato, ex art. 10 l. fall., non decorre dall'effettiva cessazione dell'attività di impresa, ma dalla data della cancellazione dal registro delle imprese o da quella in cui detta cessazione sia portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei.

Il caso

Con la sentenza in commento, la Cassazione ritorna sul travagliato tema del dies a quo dell'anno di perdurante fallibilità ex art. 10 l. fall. La disposizione in parola viene qui in rilievo nella prospettiva dell'imprenditore individuale, nel dubbio che, riguardo ai giudizi cui si applica la disciplina pre-riforma, possano residuare margini operativi per il principio di effettività nella determinazione del momento decisivo per la cessazione dell'impresa.
Per una breve ricostruzione dei fatti: il giudice di primae curae dichiarava il fallimento di un imprenditore individuale, respingendo successivamente l'opposizione del fallito, per il quale la dichiarazione di fallimento sarebbe stata pronunciata dopo un anno dalla cessazione dell'attività, verificatasi in un momento anteriore rispetto alla cancellazione dal registro delle imprese. Il giudice d'appello, ribaltando la precedente decisione, revocava il fallimento, sostenendo che per stabilire il momento della cessazione dell'impresa bisognasse tener conto del c.d. “principio di effettività”, cosicché, nel caso di specie, la fine dell'attività, coincidente con il dies a quo del termine annuale di perdurante fallibilità, veniva fatta coincidere con la richiesta di cancellazione dal registro delle imprese, preceduta dall'affitto dell'azienda e dalla riconsegna delle licenze al Comune.
Il fallimento, contro la decisione d'appello, proponeva ricorso in Cassazione per violazione dell'art. 10 l. fall., deducendo l'errata individuazione del parametro adottato al fine di stabilire la data di cessazione dell'attività.
La questione esegetica dell'art. 10 l. fall. si ripropone, dunque, con rinnovato vigore, a ulteriore prova del tortuoso cammino interpretativo percorso dalla norma in analisi, rispetto alla sua versione originaria, che già nel diritto vivente aveva serbato poco del suo tenore originario, oggetto di numerosi rimaneggiamenti ad opera della Corte Costituzionale prima, con sentenze sia additive che interpretative di rigetto, e dello stesso legislatore, poi, con la riforma della legge fallimentare del 2006 e con il c.d. decreto correttivo del 2007. E di questo complesso iter evolutivo si deve dar conto, per comprendere appieno il provvedimento in esame.

La versione originaria dell'art. 10 l. fall.

Frutto di un bilanciamento operato dal legislatore tra le contrapposte esigenze di tutela dei creditori (in funzione della quale nulla impedirebbe di optare per l'assoggettabilità senza termini a fallimento dell'imprenditore cessato) e certezza dei traffici e delle situazioni giuridiche, la norma in commento prevedeva, nella sua stesura originaria, che: “L'imprenditore che, per qualunque causa, ha cessato l'esercizio dell'impresa può essere dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell'impresa, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo” (per alcune riflessioni sulla ratio della norma si vedano: M. Perrino, Commento sub artt. 10- 11 l. fall., in La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di A. Nigro, M. Sandulli, V. Santoro, Torino, 2009, 139; S. Pacchi, Il presupposto soggettivo, in Manuale di diritto fallimentare, a cura di S. Pacchi, 2007, 30; A. Nigro, Commento sub art. 10 l. fall., in La Riforma della legge fallimentare, a cura di A. Nigro, M. Sandulli, 2006, 56; F. Ferrara jr- A. Borgioli, Il fallimento, 1995, 136; A.Nigro – D. Vattermoli, Diritto della crisi di impresa, 2009, 70; P.F.Censoni, I presupposti del fallimento, in Manuale di diritto fallimentare, a cura di P. Censoni e S. Bonfatti, 2007, 35; G. Capo, I presupposti del fallimento, in Fallimento e altre procedure concorsuali, a cura di G. Fauceglia, L. Panzani, I, 2009, 52; M. Ferro (a cura di), Commento sub art. 10, in La legge fallimentare, Commentario teorico pratico, 2007, 73), .
La legge fallimentare del '42, muovendosi nel solco tracciato dal codice di commercio previgente, ancorava il dies a quo del periodo di perdurante fallibilità al dato della “cessazione dell'impresa”. Nessun chiarimento interveniva, però, sui confini di tale concetto, aprendo spazio ad un dibattito di ampio respiro sulla nozione di “fine dell'impresa”, con una subitanea divaricazione dei percorsi argomentativi in materia di cessazione dell'attività da parte dell'imprenditore individuale e delle società.
Nonostante il silenzio sul punto, nessun elemento sistematico, vigente la vecchia disciplina fallimentare, poteva portare peraltro ad escludere l'applicazione dell'art. 10 l. fall., in linea di principio, anche alle società commerciali. Salvo, poi, verificare cosa dovesse intendersi per “cessazione dell'impresa” con riferimento alle società.

La fine e l'inizio dell'impresa: asimmetrie esegetiche tra imprenditore individuale e società

Per l'imprenditore individuale, si deve sottolineare come l'inattuazione del registro delle imprese, fino alla l. n. 580 del 1993, determinava l'inesistenza di un sistema di pubblicità commerciale, in particolare con riferimento alla fine dell'impresa individuale (art. 100 disp. att. c.c.). Da ciò l'affermarsi dell'opinione per cui la fine dell'impresa dovesse valutarsi in termini di effettività della cessazione dell'attività. E ciò in parallelo a quanto ritenuto sull'inizio dell'impresa medesima. Per l'acquisto della qualità di imprenditore è possibile richiamare, da un lato, la tesi che contrappone “atti di organizzazione” e “atti dell'organizzazione”, i primi presentando sempre carattere pre-imprenditoriale, i secondi segnando invece l'inizio dell'attività di impresa (R. Franceschelli, Imprese e imprenditori, 1972, 99); dall'altro la tesi preferibile per cui l'acquisto della qualità di imprenditore possa già farsi risalire al compimento di atti durante la fase preliminare di organizzazione, prima del primo atto di gestione (ex multis: G. F. Campobasso, Diritto Commerciale, I, Diritto dell'impresa, 2008, 102; V. Buonocore, L'impresa, in Trattato di diritto commerciale, a cura di V. Buonocore, Torino, 2002. In giurisprudenza, con riguardo all'assoggettabilità a fallimento del soggetto che cada in dissesto nella fase di organizzazione, in senso negativo Cass. 9 dicembre 1976, n. 4577, in Giur. comm., 1977, II, 628; in senso affermativo: Cass. 10 settembre 1974, n. 2460, in Giur. comm., 1975, II, 14).
La stessa impostazione esegetica veniva mantenuta, con un ragionamento simmetrico, anche con riguardo alla fine dell'impresa. In particolare, secondo l'opinione prevalente (da ultimo, G. F. Campobasso, Diritto Commerciale, I, Diritto dell'impresa, cit., 104, A. Nigro, Commento sub art. 10 l. fall., cit, 59; M. Perrino, Commento sub art. 10 l. fall., cit., 132), si doveva ritenere cessata l'attività imprenditoriale solo con l'avvenuta disgregazione del complesso aziendale, sussistendo esercizio dell'attività anche durante la fase di disorganizzazione, fin quando vengano poste in essere operazioni intrinsecamente identiche a quelle poste in essere durante la fase di gestione (vendita di merci, licenziamento di dipendenti). E', dunque, solo da tale momento che sarebbe decorso il termine di un anno per la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore cessato.
Più problematica era, invece, l'individuazione del momento di cessazione dell'attività di impresa da parte di una società. L'adesione della giurisprudenza alla tesi, per cui l'acquisto della qualità imprenditoriale si verificherebbe con riguardo alle società al momento della costituzione, non poteva che comportare la logica conseguenza di ancorare il momento della cessazione dell'impresa a quello dell'estinzione, con l'ulteriore problematica dovuta al fatto che l'impianto codicistico originario non ricollegava in via del tutto esplicita l'estinzione delle società al dato formale della cancellazione dal registro delle imprese (A. Nigro, Commento sub art. 10 l. fall., cit., 57) (come, invece, avveniva per la costituzione, quanto meno delle società di capitali, con riferimento all'iscrizione).
La giurisprudenza pressoché unanime, ispirata da logiche di tutela dei creditori, degradava la cancellazione dal registro delle imprese da adempimento pubblicitario con efficacia costitutiva-estintiva a presunzione semplice dell'estinzione della società, ritenendo che la società si estinguesse, indipendentemente dal dato formale della cancellazione, solo con il venir meno di tutte le passività. Da ciò l'assoggettabilità a fallimento delle società commerciali senza limiti di tempo. Peraltro, la giurisprudenza prevalente si spingeva fino al punto di ritenere che anche per l'ex socio (a seguito di scioglimento del rapporto sociale per morte, recesso, esclusione, cessione di quote, o estinzione, nel caso di società) illimitatamente responsabile di società commerciale, nel caso di fallimento in ripercussione ex art. 147 l. fall., non potesse applicarsi la disciplina di cui all'art. 10 l. fall. Ciò in quanto presupposto del fallimento in estensione sarebbe soltanto il fallimento della società, non venendo in discussione la qualità di imprenditore del socio o la sua personale insolvenza, da cui la non applicabilità dei limiti alla dichiarazione di fallimento di cui all'art. 10 l. fall. previsti per l'imprenditore individuale (Corte cost. 26 luglio 1988, n. 919)

La posizione della Corte Costituzionale sull'interpretazione dell'art. 10 l. fall. da parte della giurisprudenza

Il trattamento differenziato riservato dalla giurisprudenza all'imprenditore individuale rispetto alle società commerciali, con riguardo all'applicazione dell'art. 10 l. fall., aveva a lungo resistito alle forti e fondate critiche rivolte dalla dottrina più autorevole (per tutti: F. Ferrara jr- A. Borgioli, Il fallimento, cit., 138 e G. Ragusa Maggiore, La cessazione dell'impresa commerciale e il fallimento (art. 10 l. fall)., cit.).
La prima crepa nell'interpretazione dell'art. 10 l. fall. veniva aperta dal Giudice delle leggi, con un'ordinanza interpretativa di rigetto (Corte Cost. 12 marzo 1999, n. 66) avente ad oggetto l'art. 147 l. fall., cui faceva seguito una sentenza di accoglimento della questione di illegittimità costituzionale non solo dell'art. 147 l. fall., nella parte in cui non prevedeva che il fallimento dell'ex socio illimitatamente responsabile potesse dichiararsi solo entro l'anno dallo scioglimento del rapporto sociale, ma anche dell'art. 10 l. fall., così estendendo l'analisi anche al tema del termine di perdurante fallibilità della società, nella parte in cui non prevedeva che il termine annuale, di cui alla norma in parola, decorresse dalla cancellazione dal registro delle imprese (Corte Cost. 21 luglio 2000, n. 319).
Si arriva, quindi, al termine del percorso ricostruttivo in breve tracciato, alle ordinanze della Corte costituzionale più rilevanti ai fini della presente analisi (Corte cost., 7 novembre 2001, n. 361, e Corte Cost. 22 aprile 2002, n.131; in dottrina, sul punto, cfr. G. Ragusa Maggiore, Una pronuncia della Consulta che completa l'orientamento interpretativo dell'art. 10 l. fall. in precedenza seguito dalla Corte costituzionale, in Dir. fall., 2001, II, 1361 ss.), in quanto richiamate ampiamente dalla sentenza in commento, relative al dies a quo del termine di perdurante fallibilità ex art. 10 l. fall., in relazione all'imprenditore individuale cessato. Per evitare ogni rischio di disparità di trattamento tra creditori dell'imprenditore individuale e creditori di società, la Corte, valorizzando anche il mutamento di impostazione che l'attuazione del registro delle imprese del 1993 rendeva necessario, individuava nell'iscrizione della cessazione dell'attività di impresa da parte dell'imprenditore individuale il dies a quo del termine ex art. 10 l. fall., ribadendo, però, l'efficacia dichiarativa di tale iscrizione, con possibilità per i terzi di provare la non veridicità del fatto iscritto e, dunque, in ipotesi, il compimento di atti di esercizio dell'impresa successivamente all'iscrizione della sua cessazione, con conseguente postergazione del termine iniziale di perdurante fallibilità a seguito della fine dell'impresa stessa.

L'applicazione dei principi enucleati dal giudice delle leggi da parte della sentenza in commento

Prima di passare ad una doverosa, sia pur breve, analisi della nuova normativa introdotta con la riforma della legge fallimentare del 2006-2007, che ha inciso, in due battute, sul testo dell'art. 10 l. fall., occorre evidenziare come i principi sanciti dalla Corte Costituzionale nelle due ordinanze sopra menzionate in materia di termine di perdurante fallibilità dell'imprenditore individuale cessato, vengano, nel caso sottoposto alla nostra analisi, applicati dalla sentenza in commento. A fronte di un tentativo di recuperare il principio di effettività in relazione all'individuazione del dies a quo del termine ex art. 10 l. fall., sostenendosi che, nel caso di specie, la cessazione dell'impresa fosse avvenuta prima della iscrizione della cancellazione, la Suprema Corte ribadisce la necessità di interpretare l'art. 10 l. fall. (nella sua versione pre-riforma 2006-2007) nel senso che il termine di cui alla norma in parola debba ritenersi decorrere dal momento della iscrizione della cessazione dell'attività (in realtà, la Suprema Corte si esprime in termini di “cancellazione”) o dal momento in cui la cessazione sia portata a conoscenza dei terzi. Viene, dunque, in ossequio ai principi della pubblicità commerciale, precisata, ancora una volta, la natura dichiarativa dell'iscrizione della cessazione dell'impresa da parte dell'imprenditore individuale.
Dal combinato disposto degli artt. 2193 e 2196 c.c. in esame si evince l'inopponibilità ai terzi del fatto (dell'avvenuta cessazione dell'attività di impresa) non iscritto. I terzi, invece, avendo l'adempimento pubblicitario in analisi solo efficacia dichiarativa e non costitutiva, potranno sempre dimostrare la non avvenuta cessazione dell'attività di impresa. All'imprenditore individuale cessato, dunque, nel caso di mancata iscrizione della cessazione, sarà preclusa la possibilità di dimostrare l'effettiva fine dell'esercizio dell'attività di impresa.
Si deve, per completezza di analisi, sottolineare come la Cassazione nel caso di specie sembri avanzare la possibilità di dimostrare, da parte dell'imprenditore individuale, l'effettiva conoscenza da parte dei terzi, e di tutti i terzi, della cessazione dell'attività di impresa in data anteriore alla iscrizione nel registro delle imprese, o, comunque, il fatto di aver dato pubblicità alla cessazione con mezzi diversi dall'iscrizione, ma idonei a portare a conoscenza dei terzi il fatto non iscritto (per l'opinione, sia pur espressa in forma dubitativa, per cui la conoscenza reale dei terzi della avvenuta cessazione possa sopperire alla mancata iscrizione del fatto in questione, sia pur con prova fornita da creditori e non dall'imprenditore, nel vigore della attuale versione dell'art. 10 l. fall, si veda: F. Belviso, Cessazione dell'attività di impresa e fallimento dell'imprenditore individuale, in Dir. Fall., 5, 2011, 392).
Ma a parte le evidenti difficoltà pratiche di una prova siffatta, sembrano sussistere anche ostacoli logici a un'interpretazione del genere.

Le modifiche all'art. 10 l. fall. apportate dalla riforma della legge fallimentare

Spostando l'attenzione dell'analisi sulle modifiche apportate dal legislatore al testo dell'art. 10 l. fall., si può sottolineare come la disposizione in parola abbia subito due interventi correttivi: il primo con il d.lgs. n. 5 del 2006 (c.d. Riforma della legge fallimentare), il secondo con il d.lgs. n. 169 del 2007 (c.d. decreto correttivo).
Con la riforma del 2006 il legislatore, nell'adeguarsi ai principi enucleati in materia dalle pronunzie del Giudice delle Leggi sopra citate, aveva riformulato l'art. 10 l. fall., il cui novello tenore lasciava, comunque, ampi margini di criticità. Il punto avvertito come di maggiore problematicità, tra i molti cui il successivo intervento non ha posto rimedio, riguardava la possibilità di un recupero, con riguardo all'imprenditore individuale e alle società cancellate d'ufficio, del principio di effettività, nel senso della possibilità, nei due casi citati, da parte del debitore, di dimostrare l'avvenuta cessazione dell'attività in data anteriore alla cancellazione (Nigro, Commento sub art. 10 l. fall., cit. , 59; F.Lamanna, Art. 10 l. fall., in Jorio (diretto da), Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2006, I, 238; e in senso negativo C. Ibba, Il presupposto soggettivo del fallimento dopo il decreto correttivo, in Profili della nuova legge fallimentare, a cura di C. Ibba, Torino, 2009, 12; Id., Sul presupposto soggettivo del fallimento, in Riv. dir. civ., I, 2007, 811; Id., Il fallimento dell'impresa cessata, Riv. Soc., 2008, 957).
Per ovviare al dubbio interpretativo sorto nel breve periodo di vigenza della normativa, il decreto correttivo del 2007 apportava un'ulteriore modificazione al dettato dell'art. 10 l. fall. concedendo ai creditori e al pubblico ministero la possibilità di provare la sussistenza di una data differente per la cessazione dell'attività di impresa rispetto all'iscrizione della cessazione (nella sua versione attuale, la norma così si presenta: “Gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo. In caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta salva la facoltà per il creditore o per il pubblico ministero di dimostrare il momento dell'effettiva cessazione dell'attività da cui decorre il termine del primo comma”).
Peraltro, il testo normativo attualmente in vigore, nonostante gli sforzi chiarificatori del legislatore, non sgombra il campo da antichi dubbi interpretativi, aprendone, di contro, di nuovi e rilevanti.
Si pensi alla dizione “imprenditori collettivi” utilizzata dalla norma, alla nozione di “manifestazione” dell'insolvenza e alla problematica relativa alla natura delle obbligazioni rimaste inadempiute, questioni aperte che non cessano di alimentare perplessità (per tutte queste problematiche si vedano: A. Nigro, Commento sub art. 10 l. fall., cit., 59 ; M .Perrino, Commento sub artt. 10 – 11 l. fall., cit., 136).

La prova della cessazione effettiva dell'attività di impresa in data diversa dalla cancellazione

Si è visto come l'art. 10, comma 2, l. fall., nella versione più recente, limiti la facoltà di provare l'effettiva cessazione dell'impresa in epoca diversa dalla cancellazione ai soli casi dell'iscrizione della cessazione dell'impresa dell'imprenditore individuale e della cancellazione di ufficio delle società, con facoltà attribuita ai soli creditori e al pubblico ministero.
Il riferimento alle ipotesi di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi va circoscritto ai casi di iscrizione avvenuta senza la sussistenza delle condizioni di legge, cancellata d'ufficio dal giudice del registro, ex art. 2191 c.c. (per alcune riflessioni sul punto si veda C. Ibba, Il presupposto soggettivo del fallimento dopo il decreto correttivo, cit., 12; Id., Sul presupposto soggettivo del fallimento, cit., 811; Id, Il fallimento dell'impresa cessata, Riv. Soc., 2008, 957).
Il principio di effettività non può, dunque, ritenersi più operante a favore dell'imprenditore individuale e dell'imprenditore collettivo. A questi risulta preclusa la possibilità di provare l'effettiva cessazione dell'attività in epoca anteriore alla cancellazione.
Più problematica è, invece, la questione della possibilità che una siffatta prova sia ammessa da parte dei creditori. La dottrina prevalente, in tal senso, sembra escludere una tale opzione esegetica, muovendo dalla considerazione della mancanza di un interesse per i creditori, che possa portare a fornire una prova del genere. Altra parte della dottrina (F. Belviso, Cessazione dell'attività di impresa e fallimento dell'imprenditore individuale, in Dir. Fall., 5, 2011, 392 e A. Zorzi, Cancellazione ed estinzione delle società tra problemi di diritto intertemporale, questioni di giurisdizione fallimentare, cessazione dell'impresa e fusione per incorporazione, in Giur. comm., 2011, II, 917) sembra avanzare, invece, dubbi in proposito, individuando dei casi, al contrario, in cui i creditori, o almeno alcuni di essi, possano avere interesse a dimostrare che la cessazione dell'attività di impresa si sia verificata in data anteriore alla cancellazione.
Da ultimo, si segnala che meriterebbe un approfondimento, non possibile in questa sede, la questione dell'applicabilità della norma in esame all'imprenditore non iscritto e alle società irregolari.

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