Nuova finanza e impiego del trust

Salvo Leuzzi
21 Gennaio 2014

È ammissibile la proposta di concordato preventivo recante alterazione della par condicio creditorum limitatamente alla “nuova finanza” messa a disposizione dal terzo, rimanendo il relativo apporto svincolato dalla previsione dell'ultima parte del terzo comma dell'art. 182 - quater l. fall., nella misura in cui la sua collocazione in un trust autodichiarato liquidatorio lo renda irrilevante sia sull'attivo che sul passivo del debitore proponente, in linea con quanto prescritto dalla Corte di Cassazione nella pronuncia n. 9373 dell'8 giugno 2012.
Massima

È ammissibile la proposta di concordato preventivo recante alterazione della par condicio creditorum limitatamente alla “nuova finanza” messa a disposizione dal terzo, rimanendo il relativo apporto svincolato dalla previsione dell'ultima parte del terzo comma dell'art. 182 - quater l. fall., nella misura in cui la sua collocazione in un trust autodichiarato liquidatorio lo renda irrilevante sia sull'attivo che sul passivo del debitore proponente, in linea con quanto prescritto dalla Corte di Cassazione nella pronuncia n. 9373 dell'8 giugno 2012.

Il caso

Il Tribunale di Chieti ha ammesso una proposta concordataria contemplativa di una alterazione della par condicio relativamente alla distribuzione tra i creditori della somma apportata quale "nuova finanza" da parte di un terzo, socio unico di una s.r.l.. Il collegio ha ritenuto che la somma in questione non ricadesse entro l'ambito applicativo del terzo comma dell'art. 182-quater l. fall., in quanto, essendo fatta confluire in un trust autodichiarato liquidatorio, non incideva sullo stato economico dell'istante il concordato.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Nel sistema generato dalle sovrapposte, recenti riforme risalta un dato essenziale: il piano concordatario è ormai "atipizzato". Non v'è più una “forma” esclusiva o prediletta di soddisfazione dei creditori; piuttosto, ex art. 160 l. fall., quella soddisfazione può avvenire "attraverso qualsiasi forma". Il trust vagliato dal Tribunale abruzzese è proprio una di quelle modalità di esecuzione del piano discrezionalmente selezionabili; detta modalità vale in linea di principio a consentire una proficua gestione “finalizzata” dell'apporto economico del terzo e a garantire l'effettività della destinazione impressavi. Lo strumento assicura, infatti, tramite la costituzione di un vincolo destinatorio, in forme agili ed efficaci, l'effettivo impiego di beni e utilità del terzo, nei limiti della percentuale concordataria offerta, al pagamento dei creditori concorsuali. Il trust è schema operativo utile sotto due profili convergenti: in ragione della messa a disposizione di beni e del meccanismo segregativo-surrogatorio che la connota, esso garantisce i creditori concordatari circa l'autentica destinazione delle risorse al loro soddisfacimento; in forza delle leggi regolatrici, adottabili "di rimando" ex art. 6 della Convenzione dell'Aja sui trusts del 1985, esso correda la posizione del gestore con obbligazioni fiduciarie minuziose e con uno statuto della responsabilità esauriente e preciso: in particolare il trust circoscrive gli "abusi" del fiduciario (anche mediante il controllo ascrivibile al c.d. guardiano e articolabile finanche come potere di veto) e li rimedia (pure mediante la revoca dall'ufficio di trustee).
L'art. 168 l. fall. prevede per l'istante il concordato il blocco delle azioni esecutive e cautelari, sin dal momento della presentazione del ricorso. Ratio della previsione è l'opportunità di evitare che i c.d. creditori free riders, agendo ciascuno per conto proprio sul patrimonio del debitore, vanifichino le prospettive di una gestione della crisi concordata con la maggioranza dei creditori. Nella rinnovata connotazione contrattualistica del concordato preventivo, nell'ottica di rassicurare i creditori votanti, è d'uopo dare capacità persuasiva all'ipotesi loro prospettata: per motivarli a manifestare voto favorevole sulla proposta, appare basilare che anche i beni "di supporto" che i terzi volontariamente destinino al concordato siano in linea di principio sottratti alle aggressioni individuali dei creditori e "blindati" al soddisfacimento delle ragioni concorsuali. In tale contesto, dove non giunge l'ambito applicativo dell'art. 168 l. fall., ben agevolmente si spinge il trust: efficace soluzione è il prevedere in proposta che in esso siano conferiti i beni dell'estraneo, con la nomina a trustee di un soggetto professionalmente attrezzato e a protector del commissario giudiziale. In realtà, da quel che è dato desumere dal testo del provvedimento, il sussidio monetario del terzo era veicolato per il tramite di un trust autodichiarato, nel cui contesto l'extraneus abbinava la posizione di finanziatore-disponente e l'ufficio di trustee, elevandosi i creditori concordatari a beneficiarî del vincolo segregativo. Nella parte in cui “avalla” l'utilizzabilità del trust autodichiarato, la pronuncia abruzzese è conforme alla previsione dell'art. 2 della Convenzione anzidetta, che disegna una struttura negoziale rispetto alla quale rimangono prescindibili, tanto l'alterità soggettiva tra la figura del c.d. settlor e quella del c.d. trustee, quanto il trasferimento dei beni dal primo verso il secondo: il settlor può disporne semplicemente segregandoli rispetto al proprio personale patrimonio, anziché prescegliere un fiduciario cui alienarli; coessenziale al trust “convenzionale” è che taluni beni siano posti sotto il “controllo” di un gestore e vincolati in tal guisa.

Osservazioni

La pronuncia abruzzese testimonia dell'attitudine del trust a trovare vantaggioso impiego “al servizio” dei concordati preventivi, secondando efficacemente, nel contesto della crisi d'impresa, l'esigenza pratica della "separazione patrimoniale", quindi del “distacco”, dal patrimonio del disponente, di singole posizioni giuridiche (più pragmaticamente di somme di danaro), allo scopo di formare con esse un "sottoinsieme" individuabile come massa autonoma e distinta rispetto alle restanti posizioni riconducibili al medesimo disponente. Alla separazione consegue la specializzazione della responsabilità patrimoniale del soggetto che del patrimonio separato diviene il titolare (sia esso, o meno, il disponente). Ciò in deroga all'art. 2740 c.c., secondo cui "il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri": le risorse e utilità "separate" restano sottratte alla disponibilità dei creditori del titolare del patrimonio separato, le cui ragioni di credito siano sorte per scopi avulsi rispetto a quelli per i quali il patrimonio medesimo è stato istituito.
Ovviamente, l'esigenza della separazione cozza con l'interesse dei creditori "generali" del soggetto che dà vita al patrimonio separato. Pertanto, è imprescindibile che la separazione possieda adeguata giustificazione sul piano causale: deve rivelarsi funzionale alla realizzazione di uno scopo idoneo a sorreggere, in punto di meritevolezza, il sacrificio imposto alla platea dei creditori di colui che opera il "distacco" di determinati suoi beni, "specializzando" certi suoi assets e limitandone l'aggredibilità ai soli creditori i cui diritti generino dall'attività posta in essere per il perseguimento del fine cui si àncora il patrimonio separato. In tal senso, depongono incisivamente gli artt. 2645-ter e 1322 c.c.: all'art. 2645-ter (introdotto con il D.L. 30 dicembre 2005, n. 273, convertito con modificazioni dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51) è sancito che con atto pubblico è possibile destinare beni immobili e mobili registrati alla realizzazione di interessi, meritevoli di tutela alla stregua del secondo comma dell'art. 1322 c.c., riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni o ad altri enti o persone fisiche. Ove sussistano gli elementi descritti nella prima norma e consti l'interesse non egoistico preteso dalla seconda, è possibile determinare negozialmente un vincolo teleologico sui beni comportante, da un lato, la sottrazione di essi al ceto dei creditori "generali", dall'altro una limitazione alla loro libera circolazione. In tal senso, con l'art. 2645-ter c.c. il legislatore si è prefigurato, prima ancora che un nuovo tipo negoziale, un nuovo effetto negoziale "destinatorio–separatorio", spendibile ad ampio spettro negli àmbiti più disparati: "destinatorio" per ciò stesso, che a vantaggio del beneficiario dell'atto origina il diritto a che il bene sia preservato alla destinazione impressavi, diritto opponibile ai terzi che abbiano trascritto il proprio atto di acquisto del bene successivamente alla trascrizione del vincolo di destinazione; "separatorio", per ciò solo, che il bene attinto dal vincolo si espone ad essere aggredito esecutivamente solo ai fini della coattiva realizzazione di crediti connessi allo scopo della destinazione e funzionali a quest'ultima. Ovviamente il "duplice" effetto in discorso è suscettibile di correlarsi a fattispecie negoziali, tanto a struttura bilaterale che unilaterale, di natura tipica o atipica, quale che sia la causa che essa mira a realizzare in rispondenza ad un interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico: può trattarsi di una causa di scambio, liberale, solutoria, gestoria, fiduciaria, di garanzia. Non può trascurarsi che l'interesse da realizzare, in ipotesi di separazione patrimoniale al servizio della resa proficua e della tenuta di una prosposta concordataria, appare meritevole di tutela, almeno in linea di principio, nella misura in cui il salvataggio dell'impresa in crisi mira a prevenirne la dichiarazione di fallimento, con tutte le deteriori ripercussioni che ne deriverebbero sulla conservazione della produttività del complesso aziendale.
Ora, lungamente avulsa dal sistema del diritto privato è rimasta la percorribilità di una soluzione "primaria" al fine della creazione di separazioni patrimoniali: l' attribuzione non mediata di beni ad uno scopo non ha costituito opzione praticabile. Piuttosto, l'ordinamento interno ha imposto che detta attribuzione patrimoniale "destinata", al fine di prendere forma e operatività, fosse veicolata in favore di una persona giuridica nuova, che, acquisendola, ne assicurasse la gestione. L'esigenza di creare porzioni separate di patrimonio, con un vincolo destinatorio collegato alla soddisfazione dei titolari di crediti, è stata, in definitiva, assicurata attraverso l'impiego di meccanismi giuridici di "secondo grado", in primo luogo la costituzione di una newco. Soluzione macchinosa quest'ultima: il nuovo soggetto giuridico deve svolgere attività economica, per quanto eventualmente circoscritta alla liquidazione di beni per destinarne il ricavato ai creditori; i debiti che dovessero maturare in capo alla newco istituita dal terzo sarebbero immediatamente suscettibili di far evaporare quella stessa garanzia che pure si vorrebbe offrire ai creditori concordatari. Del resto la costituzione della società con il deliberato intento di mantenerla inattiva e non operativa sin dalla sua costituzione finirebbe per per significare l'utilizzo dello strumento societario forzato ad un impiego improprio. Peraltro, in ipotesi in cui si decidesse di dotare i creditori di partecipazioni nella società, essi assurgerebbero a titolari di capitale di rischio, con anomala assunzione, tanto dell'onere di esercitare i diritti amministrativi di soci nell'assemblea (chè, altrimenti, la società finirebbe per dipendere, in ipotesi, dalle scelte operative e strategiche del debitore in concordato), quanto del pericolo che la newco, non riuscendo ad attuare il piano programmato, possa entrare essa stessa a propria volta in crisi.
Soluzione poco plausibile, in àmbito concordatario preventivo, appare quella rappresentata dalla possibile costituzione, se del caso ad opera del terzo finanziatore, di un patrimonio destinato ad uno specifico affare ex art. 2447-bis c.c.. È arduo immaginare che la messa a disposizione di "nuova finanza", sub specie di beni da liquidare o di somme da distribuire, in funzione della soddisfazione dei creditori, possa riportarsi dentro la nozione di “specifico affare”, che pare assunta dal legislatore, più che in un'accezione stricto sensu giuridica, in un significato prettamente aziendalistico, enucleato nella pratica commerciale. Non è casuale che il testo della norma faccia richiamo ad “affari attinenti ad attività”, ossia ad espressioni lessicali ignote alla dogmatica civilistica. L'affare si declina come operazione economica progettata per la gestione di un segmento di attività imprenditoriale, per la cui realizzazione è necessaria la destinazione di una parte del patrimonio della società (v. INZITARI, I patrimoni destinati ad uno specifico affare, in Fall., 2003, 296; cfr. anche LENZI, I patrimoni destinati: costituzione e dinamica dell'affare, in Riv. Notariato, 2003, 3, 543). Non la distribuzione di somme del terzo, ma neppure una ipotetica liquidazione di immobili sembra efficacemente riconducibile al concetto di affare: l'art. 2447-bis primo comma lett. a) c.c. è stato introdotto dalla riforma del diritto societario con l'intento di incentivare sviluppo e competitività delle imprese, talchè affare è ciò che appare conforme a tale finalità, risolvendosi in attività economica avviata nella prospettiva di realizzare nuova ricchezza. Occorre, pertanto, che il patrimonio destinato dal terzo contenga immobili vincolati allo svolgimento di un'attività mirata a produrre utili. In quest'ottica, la creazione del "patrimonio destinato ad uno specifico affare" giova a consentire alle società un risparmio dei costi connessi alla costituzione di un nuovo soggetto in funzione di svolgere attività d'impresa in un determinato settore, non già in funzione solutoria di debiti.
Operativamente poco incline alla gestione della "nuova finanza" in àmbito concordatario preventivo si mostra il ricorso alla "destinazione codicistica" ex art. 2645-ter c.c. (le pronunce significative in materia di atto di destinazione e crisi d'impresa risultano essere due ed entrambe di segno sostanzialmente negativo: trattasi di Trib. Vicenza, 31 marzo 2011, in Corr. mer., 2011, 806, con nota di RISPOLI e Trib. Verona, 13 marzo 2012). A contrastare l'impiego dell'istituto in discorso è l'indeterminatezza della sua disciplina. Manca un quadro robusto e preciso di regole e quello che, nell'intentio legis, vorrebbe ergersi a "statuto" dell'atto di destinazione spicca per l'oscurità dei suoi contorni sostanziali: non v'è previsione della natura e della tipologia degli obblighi del soggetto chiamato a gestire il patrimonio separato; non v'è regolamentazione delle conseguenze e dei rimedi e mezzi di tutela (in capo ai beneficiari) valevoli in ipotesi in cui il gestore non si attenga alla destinazione che vincola i beni; latita la disciplina dei rapporti tra il gestore e i beneficiari e degli aspetti della responsabilità del primo verso i secondi. Risalta, inoltre, un dato essenziale: nel patrimonio destinato la separazione è "unidirezionale", dal momento che i creditori del patrimonio rivelatosi incapiente sono legittimati senz'altro ad aggredire la sfera patrimoniale del conferente. In altri termini, l'art. 2645-ter c.c. sancisce l'irresponsabilità del patrimonio separato per i debiti del conferente, ma non certo l'irresponsabilità del disponente per i debiti del patrimonio separato ed è ostico pensare che detta “seconda” irresponsabilità si possa ricostruire in mancanza di previsione espressa, a fronte del rigoroso dettato dell'art. 2740, comma secondo, c.c. e di una chiara disposizione, quella dell'art. 2447-bis, comma terzo, c.c. sui "patrimoni destinati ad uno specifico affare" nella quale testualmente è disposto che "qualora la deliberazione prevista dall'articolo 2447-ter c.c. non disponga diversamente, per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare la società risponde nei limiti del patrimonio ad esso destinato".
Al netto della considerazione saliente per cui solo nel fondo in trust possono essere incluse posizioni non dominicali, oltre che beni mobili non registrati, somme di denaro, titoli di credito, è su un piano strettamente operativo che il trust si configura, soprattutto laddove si tratti di gestire la “finanza esterna” in àmbito concordatario, alla stregua di strumento di segregazione di "primo grado" obiettivamente infungibile: i beni sono posti sotto il controllo di un gestore preesistente come soggetto dell'ordinamento e finanche coincidente – se il trust è c.d. "autodichiarato" – con chi di quei beni dispone. Negli ordinamenti d'origine, d'altronde, esso fa fulcro sulle obbligazioni "fiduciarie" del trustee e ne dettaglia efficacemente la posizione, richiamandolo allo svolgimento di precisi e particolareggiati compiti. In forza dell'art. 8, comma 2, della Convenzione de L'Aja, la legge "scelta" per regolamentare il trust, per un verso disciplina incisivamente tutte le vicende relative al trustee: ruolo, incombenze, nomina, dimissioni, revoca, capacità di esercitare le mansioni e trasmissione delle funzioni; diritti e obblighi dei diversi eventuali trustees; diritto di delegare le mansioni; poteri di amministrare e disporre dei beni in trust, di effettuare investimenti, di accantonare gli introiti del trust; rapporti con i beneficiari; obbligo di rendiconto; per altro verso regolamenta i salienti aspetti della modifica e della cessazione del trust nonché della ripartizione dei suoi beni. Alla lacunosità di tutela degli interessi dei beneficiari, che s'è visto ammantare le dinamiche della fattispecie di cui all'art. 2645-ter c.c. , il trust contrappone, poi, la specificità dei mezzi di tutela: il beneficiario è titolare di un diritto di sequela (tracing right) che gli consente di recuperare il bene dal terzo che lo abbia acquistato dal trustee infedele e che (se in mala fede) è tenuto a rilasciarlo al beneficiario stesso; in altri termini, se il bene viene trasferito dal trustee ad un terzo che ne conosceva l'origine, il trasferimento non ha effetto in danno del beneficiario del trust. Rimarchevole è anche la caratteristica di un effetto segregativo che si compendia come assoluto, in quanto il patrimonio in trust risponde solo dei debiti di quest'ultimo, il trustee non risponde personalmente dei debiti del trust: i beni del trust rimangono al riparo dai creditori personali del gestore e da quelli del disponente e di coloro che assurgono a beneficiarî del trust; la segregazione li rende "insensibili" al piano delle vicende personali e patrimoniali di ciascuna delle figure che ne compongono la fattispecie: disponente, trustee, beneficiari. In tal senso, il trust renderà possibile l'attribuzione delle somme (o la liquidazione "controllata" di beni) al riparo dai creditori del disponente e da quelli del trustee, sol che si consideri che, in virtù dell'effetto sancito dall'art. 11 della Convenzione de L'Aja, sebbene i beni entrino “a pieno titolo” nel patrimonio di chi, ricevendoli, ne diviene esclusivo proprietario, nondimeno restano esclusivamente destinati al perseguimento degli scopi programmati con l'atto istitutivo. Il vincolo “segregativo” proprio del trust è, peraltro, significativamente presidiato dal meccanismo della surrogazione reale, implicante l'automatica sostituzione del bene “abusivamente” alienato dal fiduciario con il suo corrispettivo, così da mantenere su quest'ultimo l'effetto della separazione patrimoniale. Il ritrasferimento a beneficiari finali, che è profilo negletto negli istituti “separativi” nostrani, è aspetto peculiare del trust e tratto saliente della sua natura “programmatica” mutuabile pure con riferimento alla crisi d'impresa: è ben ipotizzabile che laddove il trust non abbia – come nel caso chietino – direttamente ad oggetto somme distribuibili, i cespiti che ne compongono il fondo siano attribuiti ad uno o più creditori, secondo il valore percentualistico delle rispettive riconosciute ragioni, quale adempimento della proposta concordataria avallata dal voto maggioritario dei creditori stessi. In tal caso, il ritrasferimento finale di beni in favore di uno o più creditori costituirà esecuzione del concordato ed assumerà una funzione validamente solutoria, in linea con la previsione di cui all'art. 160 l. fall. che prevede la soddisfazione dei crediti "attraverso qualsiasi forma", abilitando la debitrice proponente ad ipotizzare in proposta forme peculiari di datio in solutum nei confronti di taluno dei creditori, sottoponendole al voto dirimente della maggioranza di questi.
Nella prassi giurisprudenziale dei trust innestati entro le procedure concordatarie, trustee è stato nominato talvolta il commissario (Trib. Parma, 3 marzo 2005 e Trib. Ravenna 10 aprile 2013), talaltra il liquidatore giudiziale (Trib. Mondovì, 16 settembre 2005 e Trib. Napoli, 19 novembre 2008 cit. in nt. 2), lasciandosi in tal caso al commissario la più congeniale mansione di guardiano.
In questo secondo caso, la gestione del trustee si svolgerà sotto il controllo di un guardiano-commissario, che assicurerà il collegamento efficace tra le esigenze dell'autonomia privata e le ragioni della procedura, correlandole in una valida sintesi. Il protector sarà tributario, in base all'atto istitutivo, di variegati poteri, che assumeranno la declinazione del parere, dell'autorizzazione, e finanche del veto, consentendogli di intervenire sull'attività del trustee e di verificarne volta per volta la conformità alle finalità del trust. Al guardiano-commissario toccherà condizionare, in funzione degli interessi del ceto creditorio, le scelte del trustee, esercitando il diritto di essere sentito (in occasione del compimento di certe operazioni), il potere di rimuovere e sostituire il trustee e ancora, sussistendo determinate circostanze, il potere di agire nei confronti del trustee in caso di violazione degli obblighi nascenti dal trust. Solo limite insuperabile nell'attribuzione dei poteri al guardiano attiene all'impossibilità di dotarlo di poteri direttivi o coercitivi nei confronti dello stesso trustee. Ne deriverebbe, infatti, la nullità del trust, per il travolgimento dell'elemento strutturale essenziale dato dall'“affidamento” al trustee.
L'atto istitutivo può pure prevedere che sia il tribunale adito con domanda di ammissione al concordato preventivo a procedere anche alla designazione del trustee (tra soggetti professionalmente attrezzati) e del protector (così da farlo coincidere di norma con il commissario giudiziale). Il che rappresenta un'ulteriore garanzia per i creditori dell'impresa in crisi, orientati a pronunciarsi sull'ipotesi concordataria.

L'incidenza della sentenza Cass. 8 giugno 2012, n. 9373

È prassi che un terzo intervenga ad ausilio dell'imprenditore in crisi, per quanto non sia, su un piano formale, strettamente legato ad esso a livello imprenditoriale. Le motivazioni che sospingono gli "estranei" a mettere proprie risorse a disposizione dell'ipotesi concordataria sono ampie: può trattarsi di soggetti legati da rapporti di parentela con l'imprenditore individuale che si accinge a ricorrere per l'ammissione alla procedura; può trattarsi di soggetti giuridicamente responsabili dei debiti dell'imprenditore, perchè soci illimitatamente responsabili esposti al fallimento in estensione ex art. 147 l. fall., o perchè fattisi garanti nei confronti di taluni creditori; può trattarsi di ex amministratori, ex sindaci e, in generale, di soggetti potenzialmente responsabili per fatti di gestione o suscettibili d'esser destinatari di azioni di responsabilità, in seguito a un eventuale fallimento; può finanche trattarsi di soggetti divenuti titolari di beni sottratti o distratti dall'impresa in crisi e, come tali, fortemente "a rischio" sul fronte delle azioni revocatorie esperibili dalla curatela; può trattarsi di soci e/o amministratori che intervengono per salvare la persona giuridica di cui sono, comunque, soggetti economici.
La Corte di Cassazione è stata chiamata di recente ad interrogarsi sul se la "nuova finanza" messa a disposizione dal terzo debba essere ripartita o meno nel rigoroso rispetto dell'ordine legale delle cause di prelazione, secondo quanto disposto dall'ultimo periodo del secondo comma dell'art. 160 l. fall., il quale, nel prevedere, a determinate condizioni, la possibilità di falcidiare una classe di creditori privilegiati, prescrive, tuttavia, che "il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l'effetto di alterare l'ordine delle cause legittime di prelazione". La questione è attualissima, sol che si consideri che la riformulazione dell'art. 182-quater l. fall. dà il metro dell'intenzione legislativa di agevolare, nelle soluzioni concordate delle crisi aziendali, il coinvolgimento di apporti provenienti da patrimoni diversi da quello del debitore, reputando detto coinvolgimento precipuo nell'ottica del buon esito di quelle medesime soluzioni. Ora, posta davanti all'alternativa se la nuova finanza possa o meno essere distribuita liberamente tra i creditori, la Cassazione ha affermato che l'inderogabilità della graduatoria legale delle prelazioni rileva nei soli casi in cui i sussidi del terzo "transitino" nel patrimonio del debitore prima di essere distribuiti ai creditori. É d'uopo appurare caso per caso se le modalità concrete di apporto delle somme o dei beni abbiano comportato siffatto "transito" patrimoniale: in caso affermativo, infatti, la distribuzione delle risorse del terzo intervenuto a sostegno soggiace all'ordine legale delle cause di prelazione, rimanendo a quel punto "irrilevante quale sia l'origine e la provenienza dei mezzi finanziari con i quali il debitore paga i suoi creditori".
La rilevanza talora assorbente dei terzi finanziatori va finalmente colta, nell'ottica della Cassazione, proprio in rapporto alla opportunità, preclusa con riferimento ai beni del patrimonio della debitrice proponente il concordato, di derogare entro certi limiti all'ordine delle cause legittime di prelazione. Vengono in evidenza le due regole delineate dal summenzionato art. 160 l. fall.: la prima, che sancisce la possibilità di prevedere che i creditori muniti di cause di prelazione non siano soddisfatti integralmente, purché lo siano in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, indicato nella relazione giurata di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'art. 67, terzo comma, lettera d) l. fall.; la seconda, che prevede che il trattamento stabilito per ciascuna classe non possa avere l'effetto di alterare l'ordine delle cause legittime di prelazione. È parso allora evidente ai giudici di piazza Cavour che, non trattando specificamente, la disposizione de qua, delle questioni poste dagli apporti finanziari di terzi, essa sia scevra di regole sul collocamento dei crediti prelatizi su tali sussidi: l'estraneo può supportare con denaro proprio la proposta concordataria senza sottostare alle regole del concorso. Il che presuppone soltanto che l'ausilio economico del terzo non importi variazione alcuna dello stato patrimoniale del debitore, né "all'attivo" (perchè in tal caso i creditori non potrebbero essere privati dei diritti che in base alla legge fallimentare essi vantano proprio sul patrimonio del debitore), nè "al passivo" (generando poste passive per il rimborso del finanziamento, sia pure postergato e con esclusione dal voto). In definitiva, il contributo finanziario del terzo si smarca dal divieto di alterazione della graduatoria dei crediti privilegiati unicamente a condizione che si presenti "neutrale" rispetto allo stato patrimoniale del debitore istante il concordato. Viceversa, sia nel caso in cui il terzo assuma su di sé direttamente il debito, sia nel caso in cui procuri al debitore beni con cui soddisfare il ceto creditorio, le utilità fornite inevitabilmente "transitano" nelle voci dello stato patrimoniale del debitore, impattandovi. Si può ipotizzare che l'apporto di un terzo possa essere qualificato come donazione di beni o finanziamento o accollo di debito, con conseguente iscrizione della relativa posta – sul lato dell'attivo – quale immobilizzazione materiale (es. apporto di immobile) o disponibilità liquide e – dal lato del passivo – come riduzione della voce debiti (se accollo) o aumento degli stessi (per il caso di obbligo restitutorio derivante dal contratto di finanziamento a titolo oneroso) (art. 2424 c.c.). La "neutralità" è salvaguardata nei soli casi in cui la "nuova finanza" non determini né un incremento dell'attivo della debitrice proponente, sul quale i crediti privilegiati dovrebbero in ogni caso essere collocati secondo il loro rispettivo grado, né un aggravio del passivo, con il riconoscimento "per derivazione" di ragioni di credito a favore del terzo, indipendentemente dalla circostanza che tale credito sia stato postergato o no.
Ora, il nostro sistema civilistico non contempla congegni idonei a "sterilizzare" efficacemente il diritto di proprietà sui beni e a finalizzarli "in via esclusiva" all'esecuzione di un accordo o di in impegno assunto nel pieno esercizio dell'autonomia privata. Il che ridonda vigorosamente proprio nell'àmbito concorsuale, dovendosi constatare che il diritto della crisi d'impresa è ormai fondato proprio sull'esercizio incentivato di detta autonomia, con la marginalizzazione del fallimento al ruolo di extrema ratio, riaffiorante nei soli casi in cui debitore e creditori non siano riusciti a comporre negozialmente la crisi di impresa (v. DI MARZIO, Il diritto negoziale della crisi d'impresa, 2011, 65). Proprio attraverso il trust, in capo a un soggetto diverso dal terzo-disponente si determina (con riferimento agli elementi patrimoniali selezionati per comporre il patrimonio separato), una rigida distinzione del patrimonio "separato" medesimo, sia rispetto al patrimonio "generale" del soggetto "destinatario" della massa distinta, sia rispetto al patrimonio "di provenienza", e ciò non solo sul piano "funzionale" (in ragione della "specializzazione" impressa agli assets oggetto di separazione patrimoniale rispetto sia al patrimonio "generale" del soggetto disponente che al patrimonio "generale" del soggetto "destinario"), ma anche sul piano "soggettivo" (a cagione del cambio di titolarità che viene ad investire gli assets separati). Rispetto ai terzi-finanziatori il vantaggio operativo rappresentato dalla segregazione patrimoniale ottenibile mediante il trust, fa di quest'ultimo, nel contesto di riferimento, un appropriato rimedio alle "inefficienze" della legge fallimentare sostanziantesi nella difficoltà di vincolare a garanzia del piano concordatario beni e somme appartenenti a soggetti terzi (come accade nell'ipotesi di concordato preventivo c.d. "misto") e, nel contempo, a collocarle in una sfera giuridica distinta ed avulsa tanto dal patrimonio di provenienza quanto da quello "personale" del soggetto destinatario di dette risorse. Il trust si plasma come struttura negoziale che vale a permettere una gestione proficua degli apporti economici del terzo, soprattutto ove si tenda a disallineare la distribuzione del ricavato della liquidazione di beni dalle regole del concorso e dall'ordine delle cause di prelazione, in linea con l'avviso estresso dalla Cassazione nell'esaminato arresto dell'8 giugno 2012. Del resto, l'attrattiva della proposta concordataria, il suo essere convincente per la maggioranza dei creditori chiamati al voto, riposano nell'opportunità di dare corso a sia pur lievi limitazioni del rigore della par condicio. Si tratta di quelle limitazioni strettamente funzionali a rendere il piano appetibile per l'intera platea dei creditori, non soltanto per quelli che, in quanto muniti di prelazioni, possono aspettarsi soddisfazione integrale o in percentuale considerevole. Nel contesto della nuova disciplina delle soluzioni delle crisi aziendali, che registra la decisiva espansione del profilo negoziale e consensualistico (in un rinnovato assetto giuridico in cui è riconosciuta maggior fiducia all"'autotutela" dei creditori, piuttosto che all'"eterotutela" prevista dai precetti imperativi), il trust si presta a costituire un meccanismo di organizzazione legittima del consenso dei creditori e dell'efficacia anche persuasiva del piano.

Le questioni aperte

La valutazione che in sede di ammissione il tribunale si limiterà a compiere in relazione al trust endoconcordatario sarà duplice: in primo luogo riguarderà la verifica dell'effettivo adeguamento del trust al principio dell'applicazione "necessaria" della legge fallimentare, con riferimento alla disciplina della liquidazione e al necessario spossessamento; in secondo luogo concernerà la verifica della idoneità funzionale del trust a supportare la realizzazione della causa concreta dell'accordo prospettato ai creditori, agevolando e garantendo l'adempimento delle prestazioni previste nel piano (Cass., Sez. Un., 23 gennaio 2013, n. 1521). Il trust che riguardi beni dell'estraneo finanziatore sarà legittimamente adoperato laddove, da un punto di vista strettamente prognostico, valga a consentire una gestione adeguata ed efficace della crisi, nella prospettiva di accrescere e rafforzare l'effettiva possibilità di assicurare ai creditori le percentuali indicate in proposta.
Indubbiamente il diritto concorsuale è disseminato di norme imperative, nessuna di esse, tuttavia, sembra frapporsi all'ammissibilità dell'impiego del trust nel contesto di una proposta di concordato. Sembra doversi escludere soltanto che il trust endoconcordatario, avente ad oggetto beni di una impresa in crisi e per beneficiari i creditori, sia idoneo a sopravvivere ad una eventuale dichiarazione di fallimento. Lo spossessamento ad opera del curatore dei beni ricadenti nella massa patrimoniale del soggetto fallito, ivi compresi i cespiti confluiti in un eventuale trust a sostegno del concordato preventivo, dovrà essere, infatti, integrale, sol che si consideri che la convenzione fa salva, all'art. 15, la protezione dei creditori, in caso di insolvenza, con riferimento al disponente. In altri termini, le parti sono senz'altro legittimate a definire un regime "negoziale" alternativo a quello concorsuale, in modo da tentare di evitare di ricorrere ad esso; non sono, invece, abilitate a derogare alle norme del diritto concorsuale, atteso, peraltro, che il divieto di eludere le norme imperative dell'ordinamento italiano, evincibile dall'art. 13 della Convenzione dell'Aja sui trusts, impedisce che un trust possa valere a precludere la liquidazione fallimentare per come delineata dal R.D. 267/1942. In tal senso, il ricorso al trust è legittimo ogni qualvolta il trust medesimo contempli, perlomeno con riferimento ai beni segregati dallo stesso debitore istante il concordato, una "clausola di salvaguardia" che ne preveda l'automatica cessazione in concomitanza con la dichiarazione di fallimento, per aborto del concordato. Allorchè, viceversa, il debitore-disponente "programmi" nell'atto istitutivo la sopravvivenza del trust al proprio fallimento, il trust si porrebbe in insanabile attrito con le norme che disciplinano la liquidazione fallimentare e impongono al curatore di acquisire per intero i beni del fallito (in tema v. DIMUNDO, Trust interno istituito da società insolvente in alternativa alla liquidazione fallimentare, in Fallimento, Profili del trust nelle procedure concorsuali, 2010, 10): il destino del trust sarà allora quello del non riconoscimento (anche solo parziale), a tenore della norma di chiusura di cui all'art. 13 della Convenzione. Sopravvenuto il fallimento del debitore che ha proposto il concordato, il curatore dovrà riprendersi, in definitiva, anche i beni oggetto del patrimonio in trust, facendo così venir meno la segregazione e operando quello spossessamento generale previsto dal richiamato art. 42 l. fall., quale norma di applicazione necessaria.
Si consideri, peraltro, che se le considerazioni appena svolte rilevano con immediatezza in riferimento ai beni collocati in trust dal medesimo debitore istante il concordato, appaiono di minor pregnanza in rapporto ai beni costituenti "nuova finanza" messa a disposizione dal terzo, ove a quest'ultimo non debba estendersi il fallimento della proponente, in foza dell'art. 147 l. fall.. Certamente, la vicenda-trust si rivela in certo senso "ablatoria" nei confronti dei creditori "personali" del terzo-finanziatore, il che assume rilievo soprattutto laddove le risorse residue di quest'ultimo appaiano insufficienti rispetto alla misura delle ragioni da soddisfare: il compimento di atti dispositivi del proprio patrimonio può essere attività volta a diminuire la garanzia patrimoniale generica dei creditori, di cui all'art. 2740 c.c.. Tuttavia, l'ordinamento non esclude a monte il ricorso al trust, e per ciò stesso contempla a valle il possibile rimedio: azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. verso l'atto che trasferisce i beni al trustee (v. Trib. Napoli, 19 novembre 2008). Se il terzo dispone di propri beni con il comprovato intento di pregiudicare la posizione dei propri personali creditori, a costoro è permesso di impugnare, sanzionandoli di inefficacia relativa, gli atti posti in essere a detrimento delle loro ragioni. D'altronde, come espressamente stabilito dalla Convenzione de L'Aja (in particolare dall'art. 15, comma 1, lett. e), della Convenzione il quale prevede che l'istituzione di un trust non può essere in contrasto, fra l'altro, con l'esigenza di protezione dei creditori nelle ipotesi di insolvenza del debitore), il trust, sebbene (ad oggi) necessariamente regolato da una legge straniera richiamata nell'atto istitutivo, non può non sottomettersi alle norme e ai principi inderogabili di fonte interna, mirati a salvaguardare interessi d'indole pubblicistica, nel cui novero senz'altro si inscrive a pieno titolo proprio la tutela dei creditori lesi da atti dispositivi del debitore, mercè il ricorso all'azione revocatoria ordinaria. Ovviamente, per determinare la natura gratuita od onerosa dell'atto di trust, sarà d'uopo appuntare l'attenzione sul rapporto tra disponente e beneficiari piuttosto che su quello tra disponente e trustee. Dalla disamina globale dell'atto costitutivo del trust si ricaverà la qualificazione di atto gratuito ogni qualvolta, a fronte del conferimento in trust di taluni beni, non sia posta a carico dei beneficiari – che nel contesto in esame sono i creditori concordatari – alcuna obbligazione e/o corrispettivo. Laddove si evidenzi siccome gratuito lo scopo connesso al trust, ai creditori del finanziatore, danneggiati dal trasferimento di beni o somme, sarà assicurata dall'ordinamento una notevole semplificazione probatoria: gioverà infatti la dimostrazione dell'eventus damni e della scientia damni in capo al disponente, senza che sia necessaria quella della consapevolezza, in capo ai beneficiari dell'atto, del pregiudizio che viene arrecato alle ragioni dei creditori del terzo, poiché requisito richiesto unicamente per gli atti a titolo oneroso. E quanto alla scientia damni sarà bastevole la prova della consapevolezza, nella sfera psicologica del finanziatore-disponente, tanto della segregazione patrimoniale che contrassegna il trust, quanto della condizione di crisi del soggetto economicamente sostenuto mediante il trust con riferimento al concordato preventivo proposto ai creditori.
Un'ultima notazione: per quanto è dato evincere, nel caso che occupava il Tribunale di Chieti, il proprietario fiduciario della finanza esterna, e quindi il trustee, era lo stesso disponente, già socio unico della proponente il concordato. La presenza formale di più soggetti non si smarcava, pertanto, da un dato di fatto saliente: la titolarità sostanziale del capitale sociale della s.r.l. e delle somme costituenti finanza esterna era riconducibile ab orgine ad un unico centro di interessi. Come è ovvio, l'elemento determinante per la costituzione della s.r.l. unipersonale è il beneficio della responsabilità limitata; peraltro chi possiede un capitale sarà invogliato a scegliere questa forma societaria, non solo perché limita il rischio patrimoniale unicamente a quanto conferito, ma anche perché permette di controllare la società in maniera completa, senza interferenze di altri soci. Laddove tuttavia finanziatore e proponente si compendino in un unico centro di interessi, rileva un evidente processo di frantumazione del patrimonio e della responsabilità del suo titolare, il che imponeva di appurare, con la massima attenzione, che l'atto negoziale istitutivo del trust autodichiarato a sussidio dell'impresa richiedente il concordato non si palesasse in frode alla legge ex art. 1344 c.c. in quanto mirante a realizzare in via immediata l'effetto, ripugnante per l'ordinamento giuridico, rappresentato dalla sottrazione del patrimonio dell'imprenditore sussidiante ai propri personali creditori.

Conclusioni

Il fenomeno della crisi d'impresa è accompagnato dalla ricerca di soluzioni finalizzate a porre rimedio a quelle che restano – nonostante i reiterati interventi del Legislatore – le carenze degli strumenti del diritto concorsuale. La vocazione del trust è quella di strumento "principe" anche e soprattutto nella liquidazione e gestione degli apporti del terzo in funzione dell'esecuzione del piano concordatario. Se i beni del terzo rimanessero nella sua titolarità, essi sarebbero aggredibili dai suoi creditori nelle more della realizzazione degli obiettivi concordatari; se, per contro, fossero conferiti alla società in crisi essi rischierebbero di andar "perduti" nel caso di fallimento, allorchè si confonderebbero nella massa di quelli acquisiti alla massa. Il trust genera con riferimento alle risorse economiche messe a disposizione dal terzo un'utile, per quanto "atipica" garanzia correlata agli adempimenti concordatari: l'istituto finisce per rappresentare una adeguata alternativa alla concessione di una garanzia reale sui beni del terzo, permettendo, attraverso la costituzione del vincolo segregativo, di assicurare l'effettività della destinazione delle utilità messe a disposizione dall'extraneus al pagamento dei creditori concordatari; il trust non elude la par condicio (individuando proprio i creditori concordatari quali soggetti "contemplati" dal suo scopo) e, anzi, offre una garanzia di non dispersione dei beni che ne costituiscono l'oggetto, anche grazie al controllo esercitato dal commissario giudiziale, eventualmente indicato quale protector.
Su un piano parallelo, il trust accresce l'efficienza della gestione delle risorse e della liquidazione dei beni, per l'indubbia maggiore intensità dei poteri del trustee (rispetto a quelli di un "normale" liquidatore) e per il capillare reticolato di regole su obbligazioni fiduciarie, statuto della responsabilità, rimedi, che contraddistingue il trust nella disciplina delle leggi regolatrici maggiormente "richiamate": l'istituto è infungibile nella misura in cui sottende un regime di segregazione patrimoniale di declinazione "dinamica", proprio in virtù dei duties e delle regole di comportamento che articolano la gestione da parte del trustee, tanto da farne assurgere la posizione dominicale a proprietà nell'interesse altrui, intrinsecamente orientata e "conformata" alla realizzazione dello scopo. Il regime di responsabilità cui è sottoposto il trustee è assai più rigoroso di quanto previsto dall'art. 38 l. fall., ove si fa semplice richiamo alla "diligenza".

Minimi riferimenti giurisprudenziali e bibliografici

Già in passato la giurisprudenza di merito aveva analizzato il trust costituito per l'esecuzione di un concordato ritenendone la piena ammissibilità: v. Trib. Parma 3 marzo 2005, in Fall., 2005, 558, con commento di PANZANI, Trust e concordato preventivo. Cfr. anche Trib. Napoli, 19 novembre 2008, in Fall., 2009, 6, 636; Trib. Mondovì, 16 settembre 2005, inedito, ma reperibile per intero sulla banca dati Dejure; Trib. Pescara 11 ottobre 2011, . Per un commento ampio di quest'ultima pronuncia ci si permette di rimandare a LEUZZI, Il trust nel concordato preventivo, in Trusts e attività fiduciarie, n. 6/2013, 577. In dottrina v. SALVATORE, L'utilizzazione del trust al servizio dell'impresa, in Riv. Notariato, 2006, 1, 125; GRECO, Il trust quale strumento di soluzione e di prevenzione della crisi d'impresa nella riforma delle procedure concorsuali, ivi, 2007, 219; Id., Il concordato stragiudiziale attestato realizzato da un Trust, in ilFallimentarista.it; CAVALLINI, Trust e procedure concorsuali, in Riv. Soc., 2011, 6, 1093; FIMMANO', Il trust a garanzia del concordato preventivo, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, II, 90; Id., Trust e diritto delle imprese in crisi, in Riv. Notariato, 2011, 3,511. Sulle forme con cui può realizzarsi l'apporto della nuova finanza v. BONFATTI, Il sostegno finanziario dell'impresa nelle procedure di composizione negoziale della crisi, disponibile su ilcaso.it. Nel senso della libera utilizzabilità della nuova finanza anche in deroga alla graduazione dei privilegi, cfr. BOZZA, L'utilizzo di nuova finanza nel concordato preventivo e la partecipazione al voto dei creditori preferenziali incapienti, in Fall., 2009, 1441, secondo cui non sussisterebbe "alcun motivo ostativo alla libera disponibilità di tale nuova finanza dal momento che il divieto di alterazione dell'ordine delle cause di prelazione va riferito alla risorsa che provengono dal patrimonio del debitore concordatario" e NARDECCHIA, Le classi e la tutela dei creditori nel concordato preventivo, in Giur. Comm., 2011, 80, che identifica in tal caso un'ipotesi di classamento obbligatorio. Per gli aspetti istituzionali del diritto dei trusts e per un raffronto anche "operativo" tra il trust e la destinazione ex art. 2645-ter c.c., alla luce della giurisprudenza maturata e delle posizioni assunte dalla più autorevole dottrina, cfr. LEUZZI, I trusts nel diritto di famiglia, Milano, 2012, specie i capp. I e IV, 145 e ss..

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