Mancata omologazione del concordato per irrealizzabilità della “causa in concreto”

Roberto Amatore
11 Aprile 2014

Non è realizzabile la “causa in concreto” del negozio concordatario con conseguente giudizio negativo in tema di fattibilità giuridica del piano nella ipotesi in cui vi sia una contraddittorietà intrinseca della proposta concordataria con ipotesi di esdebitamento tra loro alternative e contrapposte e nella ulteriore ipotesi in cui sia prevista una esorbitante durata del piano concordatario con una conseguente incongrua dilatazione dei tempi di soddisfacimento dei creditori (nel caso di specie era stato offerto ai creditori un piano di pagamenti dilazionati in dieci anni)
Massima

Non è realizzabile la “causa in concreto” del negozio concordatario con conseguente giudizio negativo in tema di fattibilità giuridica del piano nella ipotesi in cui vi sia una contraddittorietà intrinseca della proposta concordataria con ipotesi di esdebitamento tra loro alternative e contrapposte e nella ulteriore ipotesi in cui sia prevista una esorbitante durata del piano concordatario con una conseguente incongrua dilatazione dei tempi di soddisfacimento dei creditori (nel caso di specie era stato offerto ai creditori un piano di pagamenti dilazionati in dieci anni)

Il caso

Una società richiedeva ed otteneva dal Tribunale di Siracusa l'ammissione alla procedura di concordato preventivo, fondando il piano ristrutturatorio sulla dedotta continuità aziendale (che – in ipotesi – avrebbe garantito un maggior flusso di profitti ) e, in via alternativa, sulla liquidazione in favore di terzi dell'accreditamento regionale sanitario.
Dopo l'approvazione del concordato dalla maggioranza dei creditori, un creditore proponeva opposizione ed il Tribunale di Siracusa non omologava il concordato, svolgendo una prognosi negativa in ordine alla fattibilità giuridica del piano.

Le questioni giuridiche

Il provvedimento in esame - ancorché non chiarisca nella sua parte motiva le ragioni della proposta opposizione alla omologazione avanzata da parte del creditore dissenziente e non evidenzi del pari la ragione per la quale i ben motivati profili ostativi alla omologazione del concordato non fossero stati sanzionati dal tribunale già nella fase ammissiva - si lascia tuttavia apprezzare per aver affrontato, con dovuto approfondimento e rigore scientifico, almeno due importanti questioni in tema di concordato preventivo, e cioè, da un lato, il profilo della ‘causa in concreto' del negozio concordatario alla luce delle indicazioni fornite dalla giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. SS.UU. n. 1521 del 23 gennaio 2013) e, dall'altro, l'ulteriore questio iuris della irrealizzabilità giuridica del piano concordatario in relazione ai tempi di attuazione di quest'ultimo.
Come detto nell'incipit, i sopra prospettati profili di inammissibilità della proposta concordataria per una prognosi negativa in termini di fattibilità giuridica del piano avrebbero consigliato l'interdizione della proposta stessa già nella fase ammissiva attraverso una declaratoria di inammissibilità resa dal tribunale ai sensi dell'art. 162, secondo comma, l. fall., atteso che, a rigore, la lacunosità e contraddittorietà del piano concordatario e la esorbitante dilatazione dei tempi di soddisfacimento della proposta esdebitatoria erano elementi già presenti (se non si prende abbaglio) nella originaria domanda di accesso alla procedura concordataria.
Tuttavia così non è stato ed il tribunale ha vagliato la non realizzabilità giuridica del piano per i profili sopra tratteggiati solo nella sede del giudizio di opposizione all'omologazione. V'è da aggiungere che, secondo i principi oggi affermati anche dalla giurisprudenza di legittimità nell'arresto da ultimo ricordato, tale valutazione negativa di non realizzabilità della causa in concreto del negozio concordatario avrebbe potuto essere svolta dal tribunale (e ciò anche nella fase di omologazione) ex officio e senza la necessaria opposizione dei creditori dissenzienti, riguardando, come si chiarirà tra breve, la valutazione di legittimità del profilo funzionale del sinallagma contrattuale e la rilevazione di eventuali cause di invalidità genetiche del negozio, sub specie di cause di nullità per impossibilità dell'oggetto o per illiceità della causa, questioni rilevabili d'ufficio dal tribunale ai sensi dell'art. 1421 c.c.
Fatta questa doverosa premessa, va precisato che il Tribunale di Siracusa con il corposo provvedimento qui in commento ha evidenziato in modo corretto, da un lato, la contradditorietà intrinseca della proposta concordataria (giacché quest'ultima aveva previsto tre diverse alternative, e tra loro contraddittorie, soluzioni esdebitatorie: le prime due con la previsione della continuità aziendale e la terza con previsione liquidatoria tramite la cessione del c.d. accreditamento regionale) e, dall'altro, l'incongrua ed inammissibile dilatazione dei tempi di soddisfacimento del ceto creditorio attraverso una previsione addirittura decennale dei pagamenti.
Sul punto, occorre inoltre evidenziare che la proposta concordataria vagliata dal tribunale siciliano non ricade, ratione temporis, sotto il fuoco normativo della nuova disposizione del concordato con continuità aziendale introdotta con l'art. 186-bis l. fall. dal c.d. Decreto Sviluppo, trattandosi pertanto di una proposta che prevedeva un piano ristrutturatorio ex art. 160, primo comma, lett. a) l. fall. e non dovendosi di conseguenza vagliare i più severi requisiti di ammissibilità oggi previsti nella ipotesi di concordato in continuità.
Ciò nonostante, la proposta concordataria risulta essere del pari inammissibile per una prospettazione di irrealizzabilità giuridica della causa del negozio concordatario con conseguente valutazione di prognosi negativa in tema di fattibilità giuridica della proposta.
Risultano affermazioni condivisibili quelle contenute nel provvedimento in esame, secondo le quali, da un lato, la contraddittorietà delle soluzioni concordatarie proposte non può non riverberare con esiti negativi sullo scrutinio di realizzabilità giuridica del piano e, dall'altro, la previsione della continuità della attività aziendale come fulcro del piano di esdebitamento è destinata, nel caso concreto, a scontrarsi con la rilevata prospettiva dell'imminente indisponibilità del complesso edilizio destinato allo svolgimento dell'attività sanitaria, con conseguente prognosi, anche qui, negativa in termini di realizzabilità giuridica della causa in concreto del negozio concordatario.
Le sopra accennate premesse introducono necessariamente l'esame dell'istituto, di recente conio giurisprudenziale, della “causa in concreto” in tema di fattibilità giuridica del piano.

Osservazioni

Sul tema in esame, è intervenuta, come ricordato, la S. Corte a Sezioni Unite con la sentenza n. 1521/2013. Il giudice di legittimità ha affermato che “Il giudice ha il dovere di esercitare il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato, non restando questo escluso dall'attestazione del professionista, … il controllo di legittimità si attua verificando l'effettiva realizzabilità della causa concreta della procedura di concordato; quest'ultima, da intendere come obiettivo specifico perseguito dal procedimento, non ha contenuto fisso e predeterminabile, essendo dipendente dal tipo di proposta formulata, pur se inserita nel generale quadro di riferimento, finalizzato al superamento della situazione di crisi dell'imprenditore, da un lato, e all'assicurazione di un soddisfacimento, sia pur ipoteticamente modesto e parziale, dei creditori, da un altro”.
Sul punto, occorre precisare (qui solo incidentalmente) che, sebbene la pronuncia in esame abbia conservato il potere di intervento interdittivo del tribunale nelle fasi di ammissione, revoca ex art. 173 l. fall. ed omologazione della proposta concordataria in ordine al giudizio di fattibilità del piano, avendo essa confermato la possibilità del sindacato giudiziale sulla fattibilità giuridica, essa ha, per un verso, continuato a sovrapporre (confondendoli), come già avvenuto nei suoi precedenti pronunciamenti, il profilo della c.d. fattibilità economica del piano, definito non correttamente come “merito” della proposta, con quello del tutto diverso della convenienza della proposta, ormai indiscutibilmente rimesso alle valutazioni di opportunità del ceto creditorio; e, per altro verso, non ha definito in maniera soddisfacente il concetto di “causa concreta” del negozio concordatario, concetto anzi riferito dai Supremi giudici, anche qui in modo non condivisibile, alla “procedura di concordato”, anziché, come sarebbe stato meglio, all'accordo concordatario funzionalmente diretto ad ottenere l'effetto esdebitatorio (cfr. R. Amatore – L. Jeantet, Il nuovo concordato preventivo, Giuffrè, 2013, 140 e ss. ).
Sotto il primo profilo, occorre rammentare che i due concetti sopra indicati vanno tenuti nettamente distinti, si vuol dire quello di convenienza della proposta concordataria e quello di fattibilità del piano: il primo riguarda la proposta, mentre il secondo attiene al piano, il cui contenuto concreta la definizione del percorso attraverso il quale raggiungere l'obiettivo di realizzare l'impegno concordatario.
Per vero, la “privatizzazione” dell'attività di apprezzamento del requisito della convenienza – nel senso che tale valutazione rientra ora nella discrezionalità del ceto creditorio che la esprime attraverso la votazione – trova sicura giustificazione nella lettera della legge fallimentare. Tuttavia, la “privatizzazione” dell'attività di apprezzamento del requisito della convenienza non comporta certamente anche la “privatizzazione” dell'attività di scrutinio del requisito della fattibilità del piano. Quest'ultimo si sostanzia, invero, in un giudizio di tipo valutativo-prognostico circa l'effettiva conseguibilità degli obiettivi pianificati e la giuridica realizzabilità del programma negoziale, giudizio da cui esula qualsiasi valutazione di valore circa la convenienza ad ottenere da quella soluzione pianificata la migliore soddisfazione possibile dei diritti dei creditori. Ed è affidato al tribunale soprattutto al fine di porre i creditori nelle condizioni di votare in modo informato e di evitare che ad essi venga chiesto di valutare la convenienza di una proposta mostratasi concretamente irrealizzabile ovvero inattuabile.
Ne discende che, correlativamente, spetta ai creditori la valutazione della convenienza della proposta, ossia della sua positività o negatività attraverso il raffronto tra quanto viene offerto negozialmente e quanto ricavabile dalle alternative concretamente praticabili.
Del resto, l'attribuzione ai creditori del giudizio di convenienza della proposta, attraverso l'espressione del diritto di voto, non esclude, logicamente ancor prima che giuridicamente, che la previa valutazione sulla fattibilità possa essere affidata al giudice (R. Amatore, Il giudizio di fattibilità del piano nel concordato preventivo, in Dir. Fall., I, 2012, 104 e ss ).
Come è dato riscontrare sia dalla lettura delle norme fallimentari che dalla migliore interpretazione sistematica delle stesse, i due istituti in esame – i.e. giudizio di fattibilità del piano e giudizio di convenienza della proposta – si pongono su due piani ontologicamente e concettualmente diversi, avendo, in primo luogo, un oggetto diverso (giacché il primo investe il piano ed il secondo la proposta) e riguardando, in secondo luogo, valutazioni del tutto diverse. Ed invero, va ancora una volta ribadito che il sindacato giudiziale di fattibilità si concretizza, come più volte qui affermato, in un giudizio di tipo valutativo-prognostico circa l'effettiva conseguibilità degli obiettivi pianificati e la giuridica realizzabilità del programma negoziale (intese quest'ultime due valutazioni come, la prima, attualizzabilità economica del piano di esdebitamento e, la seconda, come possibilità giuridica del negozio concordatario di raggiungere l'obiettivo programmato, e cioè, come valutazione prognostica di realizzabilità del piano per essere il “contratto” concordatario geneticamente lecito sotto il profilo della causa e dell'oggetto, come prescritto dagli artt. 1418 e 1346 c.c.). Se le superiori considerazioni sono vere, non vi è chi non veda come anche il giudizio di fattibilità economica del piano (oltre a quello di fattibilità giuridica, come da ultimo riconosciuto peraltro anche dalle Sezioni Unite nel suddetto arret) si concretizzi e realizzi in un sindacato del tutto estraneo al giudizio di convenienza della proposta, indiscutibilmente rimesso alle valutazioni di opportunità del ceto creditorio.
Detto altrimenti, si dovrebbe distinguere, qualora si interpretassero correttamente le norme in commento, tra potere del tribunale di valutare, in modo prognostico con un giudizio ex ante (sulla base delle allegazioni documentali del debitore e le relazioni del commissario giudiziale ed eventualmente sulla base delle prove acquisite anche ex officio nel giudizio di omologazione ex art. 180 l. fall.), la concreta realizzabilità del piano esdebitatorio, sotto il duplice profilo della sua attuabilità giuridica ed economica, e potere insindacabile rimesso alla volontà negoziale del ceto creditorio di valutazione in ordine non già alla realizzabilità economica del piano (già valutata, come detto, dal tribunale), ma piuttosto in ordine alla convenienza di accettare la proposta contrattuale del debitore per raggiungere l'effetto esdebitatorio del concordato ed il superamento della crisi da parte dell'imprenditore.
Se quanto sinora detto risulta corretto, allora l'approdo cui giunge la sentenza delle Sezioni Unite non sembra soddisfacente, atteso che la stessa fonda la sua ratio decidendi su un presupposto concettualmente non accettabile, e cioè su una sovrapposizione che genera dogmatica confusione tra il concetto di giudizio di fattibilità economica e giudizio di convenienza, entrambi impropriamente ricondotti nell'alveo concettuale delle valutazioni di merito della proposta (così Lamanna L'indeterminismo creativo delle SS.UU. in tema di fattibilità nel concordato preventivo: «così è se vi pare», in ilFallimentarista.it; e di nuovo R. Amatore – L. Jeantet, Il nuovo concordato preventivo, cit., 142 ).
Pertanto, dopo la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 1521/2013 da ultimo ricordata, non si potrà più dubitare sul presupposto secondo cui la valutazione della convenienza economica della proposta di concordato preventivo spetta esclusivamente ai creditori (la rimessione alle sezioni unite è avvenuta, come noto, ad opera di Cass. 15 dicembre 2011, n. 27063, che aveva evidenziato un contrasto fra Cass. 15 settembre 2011, n. 18864, da un lato, e Cass., 16 settembre 2011, n. 18987; Cass. 23 giugno 2011, n. 13818; Cass. 14 febbraio 2011, n. 3586; Cass. 25 ottobre 2010, n. 21860, dall'altro).
Secondo le Sezioni unite, “la proposta di concordato deve necessariamente avere ad oggetto la regolazione della crisi, la quale a sua volta può assumere concretezza soltanto attraverso le indicazioni delle modalità di soddisfacimento dei crediti (in esse comprese quindi le relative percentuali ed i tempi di adempimento), rispetto alla quale la relativa valutazione (sotto i diversi aspetti della verosimiglianza dell'esito e della sua convenienza) è rimesso al giudizio dei creditori, in quanto diretti interessati”. Nessun sindacato sarebbe rimesso al tribunale sull'aspetto pratico-economico della proposta, ossia “sulla correttezza dell'indicazione della misura di soddisfacimento percentuale offerta dal debitore ai creditori”, e neppure in ordine alla “prognosi di realizzabilità dell'attivo nei termini indicati dall'imprenditore”. D'altro canto, la Corte non ha mancato di rilevare, in premessa, che il legislatore delle riforme fallimentari, pur valorizzando l'elemento privatistico del concordato preventivo, non ne ha cancellato tutti gli aspetti di carattere pubblicistico, “suggeriti dall'avvertita esigenza di tener conto anche degli interessi di soggetti ipoteticamente non aderenti alla proposta, ma comunque esposti agli effetti di una sua non condivisa approvazione, ed attuati mediante la fissazione di una serie di regole processuali inderogabili, finalizzate alla corretta formazione dell'accordo tra debitore e creditori, nonché con il potenziamento dei margini di intervento del giudice in chiave di garanzia”.
Sicché spetta al tribunale di verificare la fattibilità giuridica del concordato, eventualmente esprimendo un giudizio ostativo all'ammissibilità della proposta concordataria, quando le modalità attuative della stessa risultano incompatibili con norme inderogabili.
Spetta altresì al tribunale sorvegliare su ciò, che la valutazione dei creditori venga espressa correttamente e determini il giusto esito della procedura concordataria, e che, pertanto, essi “ricevano una puntuale informazione circa i dati, le verifiche interne e le connesse valutazioni”.
La Corte ha, quindi, declinato una composita piattaforma di indicazioni nomofilattiche, volte a definire i limiti del sindacato giudiziale sulla fattibilità «economica» della proposta, intesa come «prognosi circa la possibilità di realizzazione della proposta nei termini prospettati».
Sul punto, va premesso che le sentenze della Suprema Corte (soprattutto se rese a sezioni unite e, per giunta, ai sensi dell'art. 363 c.p.c., come è accaduto nel caso di specie), nascono - ripetendo le parole di una autorevole dottrina - come avvenne per Minerva, cioè “con l'elmo in testa”: si può dissentire o restare perplessi, ma ci si deve tuttavia adeguare (così, De Santis, Causa “in concreto” della proposta di concordato preventivo e giudizio “permanente” di fattibilità del piano, in Fall., 2013, 3, 279 ).
Venendo ora alla questione centrale affrontata dalla Corte e ai profili definitori della c.d. “causa in concreto”, deve tuttavia sottolinearsi che, anche sotto quest'ulteriore profilo qui ora in esame, il sindacato giudiziale - al quale alludono le sezioni unite - deve integrare una valutazione maggiormente penetrante del mero controllo giuridico della legittimità sostanziale della proposta, se incidente su un possibile vizio «genetico» della sua causa, accertabile in via preventiva in ragione della totale ed evidente inadeguatezza del piano, e traducibile in una sorta di nullità negoziale per impossibilità dell'oggetto (controllo, quest'ultimo, al quale era già pervenuta la pronunzia di Cass. 15 settembre 2011, n. 18864, in ilFallimentarista.it, con nota di Lamanna ).
Pertanto, la questione interpretativa più rilevante deve essere rintracciata proprio nell'affermato sindacato giudiziale di fattibilità sulla base della «causa in concreto» della proposta, sebbene già sopra si sia rilevata una perplessità terminologica sulla riferibilità di tale causa alla procedura.
In realtà, si tratta di un giudizio che si inscrive, a rigore, al novero del sindacato di merito, rivestendo lo stesso carattere discrezionale (così, di nuovo De Santis, Causa “in concreto” della proposta di concordato preventivo e giudizio “permanente” di fattibilità del piano, cit., ibidem ).
La pronunzia delle Sezioni unite estende al concordato preventivo (ed al relativo sindacato giudiziale) categorie di stretta derivazione privatistica, quali l'autonomia contrattuale e la causa negoziale in concreto.
Sotto il primo profilo, non si può dubitare che - fatte salve le limitate ipotesi in cui la legge preveda obblighi a contrarre - rimanga affidata all'autonomia dei privati la valutazione circa la convenienza economica del contratto, prima della sua stipula, e ciò vale anche in relazione all'adesione che i creditori concordatari sono chiamati a prestare (o a negare) alla proposta esdebitativa dell'imprenditore.
Sul punto, va aggiunto che il parametro del riscontro dovrà, da oggi, essere ancorato - oltre alla valutazione della fattibilità giuridica della proposta (ovvero della sua compatibilità con le norme inderogabili : su cui vedi, infra ) - anche alla delibazione della causa in concreto del preteso “contratto” di concordato.
Di sicuro, la categoria della causa in concreto non è sconosciuta alla giurisprudenza della Suprema Corte. E' noto che “la causa del contratto si identifica con la funzione economico-sociale che il negozio obiettivamente persegue e il diritto riconosce rilevante ai fini della tutela apprestata” (cfr. Cass. 18 febbraio 1983, n. 1244) ovvero con la funzione economico-sociale dell'atto di autonomia privata “nella sintesi dei suoi elementi essenziali” (cfr. Cass. 15 luglio 1993, n. 7833, in Giur. it., 1995, I, 1, 734). Sul punto, va precisato che sovente il richiamo pretorio alla funzione che il negozio astrattamente persegue è finalizzato alla distinzione «ontologica» rispetto allo scopo particolare, che ciascuna delle due parti si propone di realizzare, sicché l'illiceità della causa consegue sia all'ipotesi di contrarietà a norme imperative, all'ordine pubblico e al buon costume, sia all'ipotesi di utilizzazione dello strumento negoziale, ancorché tipico, per frodare la legge, qualora entrambe le parti attribuiscano al contratto una funzione obiettiva volta al raggiungimento di una comune finalità contraria alla legge (cfr. in questo senso Cass. 4 aprile 2003, n. 5324 ).
Invero, la discussione dottrinaria ha condotto, negli ultimi anni, al graduale superamento della ricostruzione della causa in termini di astratta funzione economico-sociale del negozio, per approdare al concetto della causa come funzione economico-individuale del negozio medesimo, rappresentativa del programma contrattuale concretamente voluto e costruito dalle parti, con la conseguenza che il giudizio sulla liceità deve svolgersi anche per i contratti tipici ed ha ad oggetto la legittimità dell'operazione economica concretamente posta in essere (v. ancora De Santis, Causa “in concreto” della proposta di concordato preventivo e giudizio “permanente” di fattibilità del piano, cit., ibidem ). Ne discende che, nel diritto vivente, è frequente l'affermazione per la quale nell'interpretazione del contratto occorre considerarne la causa in concreto, quale scopo pratico del negozio, ovvero sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente volto a realizzare (cfr. Cass. 18 agosto 2011, n. 17360; Cass. 8 maggio 2006, n. 10490).
Pertanto, la nozione di causa del negozio deve essere colta nella funzione individuale dello specifico contratto posto in essere (così, Cass. 12 novembre 2009, n. 23941).
Orbene, l'indagine relativa alla liceità della causa quale obiettiva funzione economico-sociale del contratto deve essere svolta non in astratto ma in concreto, onde verificare la conformità a legge dell'attività negoziale posta in essere dalle parti, e dunque la riconoscibilità nella specie della tutela apprestata dall'ordinamento giuridico.
Siffatta indagine non può prescindere dall'apprezzamento degli interessi che il negozio è destinato a realizzare, quali emergono dalle circostanze obiettive (pregresse, coeve e successive alla sua conclusione), secondo la valutazione, riservata al giudice del merito, del materiale probatorio acquisito (così, De Santis, Causa “in concreto” della proposta di concordato preventivo e giudizio “permanente” di fattibilità del piano, cit., ibidem). Ed invero, qualora emerga che le parti abbiano utilizzato un determinato modello negoziale per realizzare una funzione obiettiva, che non sia solo diversa da quella per cui tale strumento giuridico è previsto dalla legge, ma anche in contrasto con norme imperative, il giudice non può accordare al negozio in questione la tutela apprestata dall'ordinamento (cfr. anche Cass. 14 settembre 2012, n. 15449 ).
Deve dirsi, con ancora più precisione, che il giudice, nel procedere all'identificazione del rapporto contrattuale, alla sua denominazione ed all'individuazione della disciplina che lo regola, deve procedere alla valutazione in concreto della causa, quale elemento essenziale del negozio, tenendo presente che essa si prospetta come strumento di accertamento, per l'interprete, della generale conformità a legge dell'attività negoziale posta effettivamente in essere, della quale va accertata la conformità ai parametri normativi dell'art. 1343 c.c. (causa illecita) e 1322, comma 2, c.c. (e cioè, meritevolezza di tutela degli interessi dei soggetti contraenti secondo l'ordinamento giuridico) (così, Cass. 19 febbraio 2000, n. 1898 ).
Se così è, allora deve ritenersi che, anche sotto quest'ultimo peculiare profilo, non si può sostenere che il sindacato giudiziale sia stato limitato dalle Sezioni unite al solo controllo di fattibilità giuridica della proposta, dovendo il tribunale essere chiamato a valutare l'idoneità della stessa non soltanto ad assicurare il soddisfacimento, sia pur modesto e parziale, dei creditori, ma perfino il superamento della situazione di crisi dell'imprenditore (così, sia consentito ancora richiamare De Santis, Causa “in concreto” della proposta di concordato preventivo e giudizio “permanente” di fattibilità del piano, cit., ibidem).
E poiché dalla crisi si può uscire con la liquidazione dell'attivo, ma anche con la prosecuzione dell'attività d'impresa, dovrà essere, da un lato, il debitore ad indicare la modalità all'uopo prescelta (concordato con cessione dei beni, piuttosto che concordato in prosecuzione), e, dall'altro lato, il tribunale a valutare l'attitudine della proposta (e dei mezzi con essa messi in campo) ad inverarla.
Ne discende che siffatto percorso valutativo non può non avere le caratteristiche di un tipico sindacato «di merito», che - per restare sul piano del diritto dei contratti - ingloba in sé una fase interpretativa ed una fase valutativa: l'interpretazione della proposta concordataria (e delle eventuali modifiche introdotte dal debitore in corso di procedura), e la valutazione della legittimità della proposta e dell'idoneità a perseguire la sua causa in concreto.
Così rettamente interpretato il concetto di “causa in concreto” ed i suoi precipitati applicativi, deve ritenersi che il provvedimento del tribunale siciliano si allinea correttamente - in tema di scrutinio sulla fattibilità giuridica del piano concordatario - non soltanto all'arresto delle Sezioni Unite sopra menzionato, ma anche alla interpretazione perorata in questa sede in tema di estensione di tale giudizio anche ai profili più prettamente contenutistici e di merito del piano concordatario, e ciò là dove il provvedimento in commento “penetra” nelle valutazioni fornite dall'imprenditore proponente e dal professionista attestatore confutando, per un verso, la realizzabilità del piano per la rilevata non disponibilità del complesso edilizio ove era prevista la continuazione dell'attività aziendale e, per altro, l'alienabilità dell'accreditamento regionale.
Sotto quest'ultimo profilo, è necessario aggiungere che, oltre ai profili di non fattibilità giuridica del piano da ultimo evidenziati, occorrerebbe evidenziare anche una non corretta determinazione della proposta concordataria, atteso che, in punto di valutazione di ammissibilità della domanda di accesso alla procedura di concordato (come tale scrutinabile dal tribunale anche nella fase iniziale del procedimento), non è possibile prospettare al tribunale e successivamente ai creditori proposte che prevedano piani esdebitatori tra loro alternativi e contraddittori. Ed invero, la parte proponente (si legge nel provvedimento in commento) aveva previsto addirittura tre percorsi diversi per giungere all'obiettivo del pagamento del ceto creditorio, due dei quali presupponevano in vario modo la continuità aziendale (e ciò, peraltro, anche previa stipulazione di un contratto di affitto d'azienda da autorizzarsi, in corso d'opera, ai sensi dell'art. 167 l. fall.) e l'ultimo ed alternativo, il cui fulcro attuativo avrebbe dovuto invece prevedere la liquidazione del principale asset aziendale.
Ebbene, sotto questo preliminare ed assorbente profilo la proposta concordataria appariva, già prima facie, inammissibile perché contraddittoria e non determinata correttamente nel suo oggetto.
Ma il provvedimento in esame, con il continuo richiamo al concetto di fattibilità giuridica, offre lo spunto per un approfondimento anche di quest'ultimo istituto, come tale ridefinito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. sempre sent. 1521 del 2013).
Occorre, cioè, verificare se il controllo di fattibilità giuridica sia limitato alla violazione di norme inderogabili ovvero possa riguardare tutti i profili strettamente giuridici collegati alle azioni programmate per la realizzazione della proposta.
Ebbene, questa seconda interpretazione appare preferibile, posto che appare naturale rimettere al controllo del tribunale la risoluzione di ogni questione di fattibilità dipendente dalla corretta, o quanto meno non manifestamente errata, applicazione di norme di diritto (cfr. Nardecchia, La fallibilità al vaglio delle Sezioni Unite, in ilcaso.it, 8 e ss. ).
Con la conseguenza che il tribunale dovrebbe emettere un giudizio di inammissibilità oltre che nell'ipotesi in cui siano programmate azioni illecite o contrarie ai principi generali dell'ordinamento, anche qualora il piano si fondi su prospettazioni giuridiche manifestamente errate. Si pensi, ad esempio, all'ipotesi in cui la fattibilità del piano sia basata sull'erronea qualificazione giuridica dei crediti o sul mancato computo degli interessi dei crediti privilegiati, ovvero sul mancato inserimento di creditori nell'elenco nominativo di cui all'art. 161 comma 2, lettera b) l.fall in forza di eccezioni (prescrizione, compensazione…..etc.) manifestamente infondate (Nardecchia,

La fallibilità al vaglio delle Sezioni Unite

, cit., ibidem).


In realtà, la concreta delimitazione del concetto di fattibilità giuridica rappresenta certamente il punto cruciale della pronuncia delle Sezioni Unite sopra ricordata.
Nella fattibilità giuridica rientrano anzitutto gli aspetti che condizionano l'ammissibilità della proposta, che non può essere meritevole di essere portata all'attenzione dei creditori ove si risolva nella violazione di norme giuridiche imperative. Tra queste ultime vanno ricomprese quelle intese ad assicurare la completezza e regolarità della documentazione prodotta in allegato alla proposta, con lo scopo di fornire ai creditori concreti elementi di giudizio. Si allude al piano, che deve indicare in modo analitico le modalità e il termine di adempimento della proposta, a tutti gli altri documenti previsti dall'art. 161, comma 2 l. fall., infine alla relazione attestatrice della veridicità dei dati e della fattibilità del piano, che per poter svolgere la sua funzione informativa deve avere caratteristiche di analiticità ed esaustività (VITIELLO, Il problema dei limiti del controllo del tribunale sulla fattibilità del piano come risolto dalle Sezioni Unite, in Ilfallimentarista.it ).
Sempre in tema di fattibilità giuridica e per quanto riguarda l'altra questione affrontata nel provvedimento in esame, va ulteriormente evidenziato come la stessa Corte di legittimità nella sentenza resa a Sez. Un. abbia precisato che la rilevanza del profilo relativo ai tempi di adempimento vale anche per la valutazione della proposta nei suoi termini complessivi, e dunque in realtà anche sul giudizio di fattibilità del concordato.
Ciò lascia, tuttavia, in sospeso la conseguente questione se tale giudizio di fattibilità sia di competenza del tribunale o sia rimesso all'esclusiva valutazione dei creditori (Nardecchia, La fallibilità al vaglio delle Sezioni Unite, cit., ibidem).
Se è pur vero che il tempo dell'adempimento è fisiologicamente collegato alla convenienza della proposta e dunque tale profilo rientra naturalmente nell'ambito di valutazione esclusiva dei creditori, è altrettanto vero che tale affermazione trova un limite ove l'irragionevolezza del termine vada a minare la causa in concreto della proposta.
E ciò in quanto i tempi “ragionevolmente contenuti” di realizzazione della proposta integrano, in realtà, uno dei requisiti della causa concreta del concordato.
Ne consegue ancora che detto termine non è sempre e comunque nella disponibilità della maggioranza dei creditori, atteso che un termine per l'esecuzione del concordato manifestamente irragionevole non assicurerebbe, come già detto, il soddisfacimento della causa del concordato e giustificherebbe dunque il sindacato del tribunale.
La questione più problematica attiene all'individuazione di un modello procedimentale da assumere a parametro del giudizio sulla ragionevolezza del termine previsto per l'adempimento del concordato.
Sul punto, giova ricordare che il decreto sviluppo del 2012 ha introdotto nella c.d. Legge Pinto importanti novità, essendo stabilito che nel caso di procedura concorsuale la durata non deve eccedere i 6 anni. Termine che, sia pur non direttamente applicabile al caso di specie (atteso che l'esecuzione del concordato si realizza dopo la chiusura della procedura), può comunque fornire un argomento logico-sistematico per quantificare la ragionevolezza del tempo dell'adempimento.
In definitiva, può ritenersi – in conformità a quanto espresso da una parte della dottrina (Nardecchia, La fallibilità al vaglio delle Sezioni Unite, cit., ibidem) – che il diritto dei creditori ad essere compiutamente informati e soddisfatti in misura sia pur minimale in tempi ragionevoli, ponendosi in rapporto di corrispettività con quello dell'imprenditore a regolare la propria crisi d'impresa, integra la causa concreta del negozio concordatario la cui manifesta irrealizzabilità è sottoposta al controllo di legittimità e fattibilità del tribunale.

Conclusioni

Il provvedimento in commento si pone in linea di continuità con i principi affermati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in tema di giudizio di fattibilità giuridica del piano, sviluppando un ragionamento giuridico coerente con i suddetti principi e dunque per tale verso apprezzabile e condivisibile.
Ciò che tuttavia occorre chiedersi ancora è se l'orientamento del Supremo giudice sia da considerarsi il punto di arrivo dell'annosa discussione in tema dei limiti del sindacato giurisdizionale esercitabile dal tribunale in sede di ammissione e omologazione della proposta concordataria (per una disamina completa della questione, si rimanda ancora a R. Amatore – L. Jeantet, Il nuovo concordato preventivo, cit., 125 e ss ), o se esso rappresenti auspicabilmente il punto di partenza per un rinnovato dibattito, pur nel solco dei principi oramai fissati dalla Corte, per un approfondimento del profilo dei contenuti del potere interdittivo rimesso al tribunale in tema di fattibilità della proposta concordataria.
Come si è tentato di spiegare sopra, il concetto di “causa in concreto” rappresenta uno “strumento di lavoro” utilizzabile dal tribunale per una valutazione penetrante e di carattere contenutistico in ordine al merito della proposta ed alla legittimità del piano concordatario, iscrivendosi tale giudizio di pieno diritto alla categoria dei giudizi discrezionali di merito demandabili al tribunale e con ciò smentendo in nuce la petizione di principio, che pur si legge nell'autorevole arresto giurisprudenziale più volte ricordato, della ascrivibilità di tale giudizio al diverso novero dei giudizi di legalità sostanziale.
Del pari, risulta necessario un ulteriore chiarimento di carattere definitorio in ordine alla categoria della fattibilità economica, che costituisce il secondo necessario addendo del giudizio di fattibilità lato sensu inteso. Ed invero, se è vero che il sindacato giudiziale di fattibilità si concretizza, come più volte qui affermato, in un giudizio di tipo valutativo-prognostico circa la effettiva conseguibilità degli obiettivi pianificati e la giuridica realizzabilità del programma negoziale (intese queste due valutazioni, la prima, come attualizzabilità economica del piano di esdebitamento e, la seconda, come possibilità giuridica del negozio concordatario di raggiungere l'obiettivo programmato, e cioè, come valutazione prognostica di realizzabilità del piano per essere il “contratto” concordatario geneticamente lecito sotto il profilo della causa e dell'oggetto, come prescritto dagli artt. 1418 e 1346 c.c.), allora dovrebbe ritenersi che anche il giudizio di fattibilità economica del piano (oltre a quello di fattibilità giuridica, come da ultimo riconosciuto peraltro anche dalle Sezioni Unite nell'importante arret in esame) si concretizzi e realizzi in un sindacato del tutto estraneo al giudizio di convenienza della proposta, oramai indiscutibilmente rimesso alle valutazioni di opportunità del ceto creditorio.
Questo ulteriore sforzo di approfondimento esegetico risulta essere ancor più necessario oggi dopo l'intervento delle Sezioni Unite, a meno che non si voglia, al contrario, ritenere che il Supremo collegio abbia voluto introdurre definitivamente un corredo definitorio degli istituti in esame diverso da quello sino ad ora oggetto di approfondimento da parte della dottrina e della giurisprudenza pratica, corredo del quale pertanto dovremmo di qui in avanti non far altro che prendere atto.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Per comodità espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti, i contributi dottrinari e le disposizioni normative interessate, direttamente nel commento.

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