La Corte Costituzionale e la dichiarazione di fallimento “d’ufficio”

29 Luglio 2013

Deve ritenersi non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, d. lgs. n. 5/2006, sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 77 Cost., dal Tribunale ordinario di Milano, sezione fallimentare: il legislatore delegato, lungi dal violare la delega a lui conferita, ha, viceversa, dato attuazione al precetto affidatogli di procedere al coordinamento della disciplina delle procedure concorsuali con uno dei principi del nostro sistema processuale.
Massima

Deve ritenersi non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, d. lgs. n. 5/2006, sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 77 Cost., dal Tribunale ordinario di Milano, sezione fallimentare: il legislatore delegato, lungi dal violare la delega a lui conferita, ha, viceversa, dato attuazione al precetto affidatogli di procedere al coordinamento della disciplina delle procedure concorsuali con uno dei principi del nostro sistema processuale.

Il tema

Con sentenza depositata il 9 luglio 2013, n. 184, la Corte Costituzionale si è pronunciata su un tema di grande interesse, cioè quello concernente la questione di legittimità costituzionale della norma che, nell'ambito della riforma organica della legge fallimentare, ha espunto dall'ordinamento il potere del Tribunale fallimentare di fare luogo d'ufficio alla dichiarazione di fallimento dell'imprenditore insolvente.
Sull'enorme rilevanza concreta della questione non è il caso di indugiare più di tanto: è agevole considerare che, particolarmente in un momento, quale il presente, di grande “sofferenza” per il mondo delle imprese, l'attribuzione al Giudice del potere officioso di fare luogo alla dichiarazione di fallimento rappresenta un elemento decisivo nella fissazione delle regole di gestione della crisi di impresa.
A seconda dei punti di vista, infatti, esso può porsi:
- da un lato, come un opportuno argine rispetto al rischio di abuso dei molteplici strumenti offerti dalle ormai innumerabili riforme del concordato preventivo e degli altri mezzi di soluzione della crisi (e forse anche come l'estremo mezzo di controllo per evitare le frequenti forme, sempre abusive, di eterodirezione dell'impresa in crisi);
- dall'altro lato, come residuo “arcaico” di un potere d'ufficio, da considerarsi definitivamente cancellato dalla forte “privatizzazione” della disciplina della crisi di impresa.
Queste le considerazioni generali di ordine sostanziale.
Ma la premessa non sarebbe completa se si obliterasse un rilievo che spesso è passato inosservato nei dibattiti sull'argomento e che, invece, sul piano giuridico formale, parrebbe porsi addirittura “a monte” del senso logico della riforma: ci si riferisce al fatto che la legge delega da cui è nata la modificazione organica della legge fallimentare non contemplava l'attribuzione all'esecutivo del potere di espungere dall'ordinamento la norma che disciplinava la dichiarazione “d'ufficio” del fallimento dell'imprenditore insolvente.
Il rilievo appare, dunque, fondamentale, poiché, ancor prima di entrare nel merito dell'opportunità o meno della scelta del riformatore, ci si trova di fronte all'ostacolo formale rappresentato dal dubbio circa l'esistenza del potere di introdurre una modificazione normativa di tale portata: ostacolo di per sé idoneo ad impedire in radice ogni valutazione di opportunità, poiché tocca il problema dello “sconfinamento”, da parte del potere esecutivo, in un territorio di competenza esclusiva del potere legislativo.

La vicenda e la decisione

Il Tribunale di Milano, con ordinanza del 31 maggio 2012, (in IlFallimentarista, con nota di Galletti) aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale della norma dell'art. 4 del d. lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, per la parte in cui, nel sostituire l'art. 6 l. fall., aveva eliminato la previsione di dichiarazione anche “d'ufficio” del fallimento dell'imprenditore: la questione era emersa in un procedimento di istruttoria prefallimentare in cui il collegio sindacale di una società in liquidazione, nell'inerzia del liquidatore, aveva ritenuto di potersi surrogare all'organo rappresentativo e, dunque, a nome della società aveva presentato un'istanza di fallimento “in proprio”.
Il Tribunale, appunto, qualificata correttamente l'istanza di fallimento come proveniente “da un terzo non creditore” (in sé dunque non legittimato alla formulazione dell'istanza stessa) aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale, segnalando che l'art. 1, 6° comma, della l. 14 maggio 2005, n. 80 (per l'appunto la legge-delega per la riforma organica, che convertiva il d.l. 14 marzo 2005, n. 35) non contemplava minimamente la possibilità che il Governo, nell'esercizio delle funzioni delegate, espungesse dall'ordinamento il potere in questione.
La lettura della motivazione della sentenza in commento appare molto interessante - anche al di là del nucleo centrale della ratio decidendi, su cui ci si soffermerà infra - perché da essa emerge l'estrema articolazione, e, sotto certi aspetti, la puntigliosità, della difesa svolta dall'Avvocatura generale dello Stato per contrastare la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma. Difesa che non pare azzardato definire “strenua”, poiché non ha trascurato alcun elemento, formale e sostanziale, finalizzato a detronizzare il rischio di dichiarazione di incostituzionalità: dalla inammissibilità per irrilevanza della questione nel processo a quo, alla inammissibilità per pretesa erroneità nella individuazione, da parte del Tribunale, della norma costituzionale che avrebbe cagionato la denunciata illegittimità, alla infondatezza per la parzialità del procedimento ermeneutico seguito dal Giudice rimettente.
Quel che comunque più rileva è che il Giudice delle leggi, nella fattispecie, ha superato ogni questione formale (reputando che il percorso seguito dal Tribunale fosse ineccepibile) ed ha affrontato il merito della questione, reputandola però infondata.
Tanto, pur a fronte del riconoscimento dell'obiettiva assenza, nella legge delegante, dell'attribuzione al Governo del potere di eliminare dall'ordinamento la dichiarazione “di ufficio” del fallimento dell'insolvente.
Ad avviso della Corte, infatti, al fine di valutare la sussistenza o meno di un eccesso di delega, l'interprete è chiamato ad effettuare un duplice procedimento ermeneutico:
- il primo concerne la norma delegante, che fissa “oggetto, principi e criteri direttivi della delega”;
- il secondo, invece, riguarda la norma delegata, “da interpretare nel significato compatibile con questi ultimi”.
In quest'ottica, ed alla luce di alcuni precedenti della stessa Corte, la questione è stata ritenuta infondata, soprattutto alla stregua del principio secondo cui, al fine di verificare la ricorrenza di un eccesso di delega, “i principi e i criteri direttivi della legge di delegazione devono essere interpretati sia tenendo conto delle finalità ispiratrici della delega, sia verificando, nel silenzio del legislatore delegato sullo specifico tema, che le scelte del legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi generali della stessa legge delega” (Corte Cost. 12 ottobre 2007, n. 341).
L'applicazione di siffatto principio alla vicenda concreta ha consentito alla Corte Costituzionale di escludere l'eccesso di delega, in considerazione dei seguenti rilievi di ordine logico-costituzionale:
- il legislatore delegante, nella fattispecie, aveva espressamente previsto che il legislatore delegato, al di là dei poteri specificamente attribuitigli, realizzasse “il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti”;
- l'ordinamento processuale civile “è, sia pure in linea tendenziale e non senza qualche eccezione, ispirato dal principio ne procedat judex ex officio”;
- conseguentemente è coerente con un principio generale dell'ordinamento “rimuovere le ipotesi normative che si contrappongano al ricordato principio tendenziale”.

Qualche breve riflessione, anche di ordine più generale

Ci si augura che non parrà irriguardoso osservare che il primo (quasi istintivo) collegamento logico che la lettura della sentenza in commento ispira è all'opera di Ludovico Antonio Muratori, edita nel 1742 sotto il titolo Dei difetti della giurisprudenza: in essa si segnalava come, in Italia, la tendenziale genericità ed approssimazione delle leggi determinasse la proliferazione delle possibili opzioni interpretative e che, dalla combinazione tra le due cose (vaghezza delle norme e tendenza a legittimare le più svariate interpretazioni) scaturisse inevitabilmente la sistematica imprevedibilità delle decisioni giurisprudenziali.
Il tema sembra riproporsi in questo caso e parrebbe rilevare ben al di là dell'ambito fallimentare.
La Corte, infatti, muove dal presupposto che, nella fattispecie concreta, il potere di “deroga” in capo al Governo, rispetto alle specifiche previsioni della legge delega, si potesse ritenere scaturire dal richiamo, contenuto nella stessa legge delega, all'obbligo per il legislatore delegato di “realizzare il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti”: da qui la legittimità della eliminazione di un potere officioso che, di norma, nel processo civile non è contemplato.
Forse, nell'ambito di una valutazione più rigorosa, sotto il profilo formale della questione sollevata, sarebbe stato preferibile andar per gradi e domandarsi: ha portata realmente “estensiva” (nel senso di costituire in capo al legislatore delegato un potere di modificazione dell'impianto normativo esistente, anche al di là dei poteri specificamente attribuitigli), il richiamo, all'interno di una legge delegante, di un principio di tal genere? Se la risposta fosse positiva (come suggerisce la sentenza in commento) dovrebbe dunque ritenersi che, ove in una legge delegante mancasse tale richiamo, il legislatore delegato potrebbe ignorare il coordinamento con il diritto positivo preesistente: il che, francamente, non pare plausibile.
Il richiamo “al necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti”, infatti, parrebbe, al contrario, indirizzato, soprattutto nell'ambito di una riforma organica qual era quella di cui si parla, a “limitare” il potere del legislatore delegato: al quale, appunto, il legislatore delegante aveva attribuito un potere eccezionale, che si sarebbe dovuto esercitare in forma “conservativa”, indirizzato appunto dal principio della coerenza con l'ordinamento preesistente.
L'eliminazione, non contemplata dal legislatore delegante, di un potere officioso disciplinato positivamente da oltre un sessantennio, non pare invece fosse consentita dal generico richiamo alla coerenza con principi che, peraltro, si collocano certamente al di fuori della normativa concorsuale.
Il tema merita una riflessione profonda, soprattutto per come si sviluppa nella motivazione. Questo, in forma schematica, l'iter argomentativo seguito dalla Corte:
- la delega obiettivamente mancava;
- la norma delegante segnalava la necessità che la riforma si sviluppasse in coordinamento con altre norme ordinamentali;
- nel nostro ordinamento è “tendenzialmente” vigente un principio che sancisce il divieto di provvedimenti officiosi;
- l'eliminazione della norma che legittimava la dichiarazione d'ufficio del fallimento è coerente con questo principio, sia pure solo tendenziale;
- conseguentemente, la norma introdotta non sarebbe affetta dal vizio di eccesso di delega.
Non sfugge, anche ad uno sguardo superficiale, il duplice pericolo insito in un argomentare così strutturato.
Da un lato, che il potere esecutivo ecceda la delega proprio invocando principi conservativi della legge delegante e giustifichi tale eccesso invocando principi “tendenziali” appartenenti ad altre branche dell'ordinamento.
Dall'altro lato, che il Giudice delle leggi, in sede di verifica, con un margine di discrezionalità che finisce per essere eccessivo, trascuri il contenuto effettivo della legge-delega e, di volta in volta, reputi la ricorrenza o meno di un eccesso alla stregua di criteri non obiettivi.
Al punto che, persino un principio meramente “tendenziale” (tale qualificato dalla stessa Corte), neppure richiamato per relationem dal legislatore delegante, finisce per legittimare ex post quello che obiettivamente era un eccesso di delega.
Con un ulteriore colpo alla prevedibilità delle decisioni giurisprudenziali: dal momento che l'esecutivo oggi sa che potrebbe tranquillamente legiferare anche al di fuori della delega, purché individui nell'ordinamento un qualche principio “tendenziale” che giustifichi la innovazione non delegata.

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