Legitttima la dichiarazione di fallimento su istanza del P.M.

17 Luglio 2013

E' legittima la dichiarazione di fallimento intervenuta su istanza del Pubblico Ministero, inoltrata a seguito di segnalazione del Tribunale nell'ambito di procedura prefallimentare (principio di diritto enunciato ai sensi dell'art. 384 c.p.c.)
Massima

E' legittima la dichiarazione di fallimento intervenuta su istanza del Pubblico Ministero, inoltrata a seguito di segnalazione del Tribunale nell'ambito di procedura prefallimentare. (principio di diritto enunciato ai sensi dell'art. 384 c.p.c.)

Il caso

Una società veniva dichiarata fallita una prima volta, e il fallimento veniva revocato dalla Corte d'appello in sede di reclamo. Un successivo ricorso di fallimento veniva depositato da un creditore, che vi rinunziava all'udienza ex art.15 l. fall. Il Tribunale, letti gli atti, dichiarava improcedibile il ricorso e inviava una segnalazione al PM invitandolo a valutare la sussistenza dello stato di insolvenza del debitore, e dunque la proponibilità di un altro ricorso ai sensi dell'art. 7 l. fall.
Il PM procede e la società viene (nuovamente) dichiarata fallita; il reclamo viene respinto.
La sentenza delle Sezioni Unite conferma quella di appello ed enuncia un principio di diritto che viene a comporre il contrasto tra Cass., 26 febbraio 2009, n. 4632 e Cass., 14 giugno 2012, n. 9781 (seguita dalle nn. 9757 e 9858 pubblicate il giorno seguente), e stabilisce, aderendo alla tesi accolta dalle tre più recenti sentenze, che il Tribunale fallimentare può, quando archivia il ricorso a seguito di rinunzia (desistenza) del creditorie, segnalare al PM il caso, affinchè quest'ultimo valuti la sussistenza dei presupposti per un nuovo ricorso.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Il tema affrontato dalle SS.UU. ha assunto importanza crescente negli ultimi anni. Come messo in luce dalla sentenza, l'eliminazione dell'iniziativa d'ufficio dal testo dell'art. 6 l. fall., l'abrogazione dell'art. 8 e la nuova formulazione dell'art. 7, comma 2, hanno fatto emergere una difficoltà interpretativa circa i poteri del Tribunale fallimentare, che investe una questione di vertice, ricca di coloriture ideologiche attinenti all'ampiezza delle connotazioni pubblicistiche del fallimento.
Su basi normative diverse, si ripropone il contrasto a suo tempo insorto sul fallimento d'ufficio: nonostante un notevole filone dottrinale fosse assai critico verso la norma (art. 8), parlando anche di “giurisdizione senza azione” e di violazione dei principi di terzietà e imparzialità del Giudice, divenuti evidenti dopo la riforma dell'art. 111 Cost., la giurisprudenza e la stessa Corte Costituzionale si erano costantemente pronunziate nel senso della piena compatibilità costituzionale dell'istituto.
La riforma della legge fallimentare sembrava aver posto fine alla disputa, non solo a causa della ricordata abrogazione del fallimento d'ufficio, ma anche con la ridefinizione del potere di iniziativa del PM, apparsa ai più di segno restrittivo, in quanto, se da un lato va qualificato come potere di “azione” e non di mera “denunzia”, dall'altro l'elenco delle fattispecie del vigente art. 7 è ritenuto tassativo; tutto ciò, infine, all'interno di una disciplina del processo prefallimentare molto più organica del passato e rinnovata in profondità, vicina al giudizio contenzioso ordinario e comunemente qualificata come “processo tra parti”.
Sennonchè la prassi ha evidenziato ben presto una sorta di “imbarazzo” di più di qualche tribunale che, obbligato a seguito della rinunzia al ricorso da parte del creditore a chiudere il procedimento, ha tuttavia ritenuto di dover sollecitare il PM ad un esame della situazione emersa nel procedimento prefallimentare, ordinando la trasmissione degli atti alla Procura per valutare la sussistenza dei presupposti per la proposizione di una richiesta di fallimento.
Il dubbio sulla legittimità di tale condotta è emerso immediatamente, e la prima risposta della S.C. (n.4632/2009) fu demolitiva. Sulla scorta di una lettura “costituzionalmente orientata”, la Prima sezione civile ritenne che la segnalazione al PM da parte del Tribunale fallimentare fosse in contrasto con i principi di terzietà ed imparzialità del Giudice (art.111 Cost.). Altro Collegio della stessa sezione ha ribaltato l'indirizzo nel 2012, con le tre citate sentenze, recependo una linea interpretativa largamente prevalente tra i giudici di merito.
Le Sezioni Unite esplicitamente sposano oggi la linea emersa nelle ultime decisioni, riprendendone quasi tutti gli argomenti. Ribadiscono anzitutto la centralità dell'interpretazione letterale ex art. 12 prel. dell'art. 7, comma 2, l. fall., che si riferisce a qualsiasi “procedimento” civile, e non più al “giudizio”, come l'abrogato art. 8. Il vocabolo ha una portata più ampia, comprensiva anche del procedimento prefallimentare.
Aggiunge la sentenza che la legge attribuisce al PM un potere di iniziativa collegato alla segnalazione ricevuta dal giudice civile, senza alcuna limitazione di sorta circa la provenienza.
Un'affermazione in parte nuova - e di valenza rafforzativa- è quella secondo cui la formulazione dell'art. 7, comma 2, è dovuta alla soppressione del fallimento d'ufficio, e consente di delineare una “estensione del dovere di segnalazione rispetto al passato”; la configurazione in termini di doverosità era stata prefigurata anche dalle decisioni a sezioni semplici, e tuttavia la sentenza sembra ampliarne la portata, allorché pone il relativo obbligo quale sorta di esplicita compensazione dell'abrogazione dell'art. 8.
Viene poi recepito e riproposto il profilo di interpretazione storica e dell'intenzione del legislatore, ricavabile da un passo della relazione alla riforma del 2006, già valorizzato dalle pronunzie del 2012.
Le SS.UU. respingono invece la tesi della violazione dei principi del “giusto processo”, ribadendo che la segnalazione non ha contenuto decisorio, neppure di tipo sommario, e dunque non vi è pregiudizio per la terzietà ed imparzialità del Tribunale; viene pure ribadita l'autonomia reciproca tra PM, il quale valuta in piena autonomia se dar seguito alla segnalazione proponendo il ricorso, e la successiva decisione del Tribunale nel nuovo procedimento.
Da ultimo, e in risposta ad un'eccezione del ricorrente, la sentenza precisa che il tenore letterale dell'art. 7, comma 2, non implica l'accertamento preventivo dell'insolvenza da parte del giudice segnalante, e comunque il presupposto dell'iniziativa consiste nell'apprezzamento (positivo) da parte del PM circa la fondatezza della segnalazione.

Osservazioni

Nel commento a Cass. 9781/12, e a Trib. Palermo, 10 aprile 2012 (in IlFallimentarista: Anche il Giudice fallimentare è un Giudice civile e può segnalare l'insolvenza al P.M.) chi scrive aveva espresso considerazioni critiche e pronosticato una rimessione del contrasto alle Sezioni Unite, avvenuta nel volgere di pochi mesi, favorita forse dall'intensa attività delle SS.UU. in materia fallimentare nel corso del presente anno (alcune importanti sentenze sono redatte dallo stesso estensore di quella in discorso), a testimonianza delle difficoltà e del disagio degli operatori in un campo in cui convivono norme molto diverse per epoca di redazione, principi ispiratori, chiarezza dei contenuti precettivi (per un lucido accenno v. Cass. S.U. 1521/13).
La sentenza non apporta molti elementi di novità, presentandosi piuttosto come una sintesi degli argomenti sviluppati prima nella giurisprudenza di merito ed in dottrina, e accolti poi in sede di legittimità nel 2012.
Fermo il rispetto dovuto all'autorevolezza della fonte, le perplessità sui contenuti della decisione restano tutte.
La trama del ragionamento seguito dalle SS.UU. valorizza in modo articolato più profili ermeneutici e processuali, isolandoli tuttavia dalla cornice costituzionale di riferimento e da un approfondimento della rilevanza – non soltanto psicologica - attribuibile alla segnalazione effettuata dal tribunale fallimentare al PM.
E' bene precisare subito che, nella prospettiva qui proposta, l'autonomia del PM nella valutazione dei fatti segnalati e in ordine alla decisione sulla presentazione del ricorso è fuori discussione, e, per certi versi, persino ininfluente. L'eventuale “appiattimento” dell'organo requirente, pur ipotizzato in astratto dal S.C., non altererebbe in nulla il nucleo critico essenziale, che inizia e termina nella condotta del tribunale fallimentare allorchè archivia il ricorso rinunziato dal creditore e procede alla “segnalazione”.
I motivi principali per ritenere questo momento ”neutro”, ossia l'interpretazione letterale, quella dell'intenzione storica e la natura “non decisoria” del provvedimento sono tutti reversibili, ma soprattutto non possono restare privi di coerenza con i principi costituzionali, ossia nella specie della terzietà ed imparzialità del giudice (art. 111, comma 2, Cost.).
Difatti, ogni forma di interpretazione – letterale o altro - deve in ogni caso essere conforme ai principi della Carta fondamentale, e sul punto la motivazione delle SS.UU. appare a dir poco stringata, se non meramente assertiva, laddove nega ogni contrasto con l'art. 111 Cost. sulla base della natura non decisoria della segnalazione e sulla non coincidenza tra il contenuto di questa e la successiva istruttoria, conseguente al ricorso del PM.
Tale ultima affermazione appare in sé fragile, atteso che il PM potrebbe limitarsi a ripresentare dati, atti e documenti già acquisiti nel procedimento estinto, situazione che difficilmente potrebbe qualificare in termini di reale novità il procedimento, pur formalmente diverso.
Inoltre, la rinunzia potrebbe ben avvenire in una fase molto avanzata dell'istruttoria prefallimentare, addirittura quando essa è chiusa, con la conseguenza che l'organo giudicante avrebbe elementi anche significativi a disposizione. E, nella normalità dei casi, si procederà a trasmettere il fascicolo alla Procura dopo aver “rilevato” l'insolvenza, secondo l'espressione letterale della norma, ovvero non sempre, e non senza una ponderazione.
Il punto decisivo, a sommesso parere di chi scrive, sta proprio nel fatto che, procedendo alla segnalazione, il tribunale smette i panni del giudice distaccato (o, se si vuole, indifferente) e, se senza dubbio non adotta alcuna formale decisione, esprime però certamente un' opinione, se non un sospetto, che sottintende il disagio per l'obbligatoria chiusura del procedimento. In quel momento, e nonostante ogni sottile distinzione di carattere processuale, l'organo varca una linea ideale di perfetta equidistanza, manifestando una situazione di “propensione” se non addirittura di “pre-giudizio”, la cui rilevanza non può essere confinata ad una dimensione soltanto psicologica e priva di rilevanza giuridica sostanziale sul convincimento finale.
La segnalazione, in definitiva, rappresenta un intervento non necessario e di carattere valutativo da parte del Giudice, che per quanto compatibile con la formulazione letterale della norma, isolatamente considerata, ne appanna l'immagine di imparzialità; dunque è contrario a un principio costituzionale superiore, la cui conseguenza ulteriore dovrebbe essere quella, sancita di fatto dal precedente – e, si ribadisce, coraggioso - indirizzo di Cass. n. 4632/09, di restringere la portata dell'art. 7, comma 2, l. fall., escludendo il tribunale fallimentare dal novero dei giudici civili legittimati alla segnalazione al PM.
In tema merita di essere richiamato l'art. 6, comma 1, della Convenzione dei Diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali, che sancisce il diritto di ogni persona a un “esame imparziale della causa”, oltre che pubblico e in tempi ragionevoli, da parte di un tribunale ”indipendente ed imparziale. Nella sentenza Procola c. Lussemburgo del 27.9.1995, la CEDU ha statuito che la situazione in cui “le medesime persone abbiano potuto esercitare, in relazione ad una medesima decisione, due diversi tipi di funzione, è sufficiente a sollevare perplessità sul grado di imparzialità strutturale dell'istituzione stessa”, e quindi “in sé sufficiente a viziare l'imparzialità del tribunale in questione”.
Né la situazione in esame è paragonabile al caso in cui lo stesso debitore venga nuovamente giudicato dal medesimo tribunale a seguito di nuovo ricorso dei creditori: questa seconda ipotesi è del tutto fisiologica, sia per la necessaria precostituzione del giudice naturale, sia perché in essa manca ogni sollecitazione o altra attività del tribunale fallimentare - rimasto assolutamente terzo ed estraneo - prodromica alla proposizione del nuovo ricorso.
Conclusioni identiche valgono, altresì, per il caso della segnalazione riguardante non il medesimo debitore ma un soggetto terzo, quando il tribunale segnalante sia competente anche per la dichiarazione di fallimento di costui.
Infine, l'affermazione che la legge contiene una “previsione estensiva del dovere di segnalazione rispetto al passato”, per quanto sia opinabile che una simile conclusione possa trarsi dalla mera sostituzione della parola “procedimento” al precedente vocabolo “giudizio”, non comporta affatto l'inesistenza di limiti soggettivi ed oggettivi, enucleabili peraltro, secondo un canone interpretativo di comune applicazione, alla luce della compatibilità della legge ordinaria con i principi costituzionali e sovranazionali.

Le questioni aperte

La pronunzia a Sezioni Unite ha l'efficacia nomofilattica prevista dall'art. 374 c.p.c. L'indirizzo accolto è, d'altro canto, conforme a quello già prevalente nei gradi di merito.

Conclusioni

La questione potrebbe dirsi chiusa, a meno di una profonda revisione, al momento impossibile da prevedere, delle tesi fin qui maggioritarie.

Minimi riferimenti

Oltre al commento a Cass. 9781/12 di Ricciardi, La legittimità della segnalazione d'insolvenza da parte del tribunale fallimentare, in IlFallimentarista.it, al quale si rinvia per ulteriori riferimenti, v. anche Federico, Segnalazione dell'insolvenza e terzietà del giudice, in Fall., 2012, 1299; Canazza, Iniziativa del pubblico e potere di segnalazione del tribunale fallimentare, ibidem, 1305; De Santis, Il processo per la dichiarazione di fallimento, in Tratt. Galgano, Padova, 2011, 50 ss.

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