Che effetto ha la rinuncia all’istanza di fallimento in sede di reclamo?

05 Luglio 2013

Il creditore che chiede il fallimento del proprio debitore insolvente, non può limitarsi a qualificarsi come creditore (come era ritenuto sufficiente prima della riforma) ma deve fornire la prova del proprio credito. (massima)
Massima

Il creditore che chiede il fallimento del proprio debitore insolvente, non può limitarsi a qualificarsi come creditore (come era ritenuto sufficiente prima della riforma) ma deve fornire la prova del proprio credito.

La rinuncia al ricorso presentata nel corso del giudizio di reclamo produce un effetto estintivo, ex art. 306 c.p.c., dal momento che comunque la procedura fallimentare, anche nel grado del reclamo è basata sull'impulso di parte e che, in tale grado, è ancora sub iudice la decisione circa la fallibilità dell'impresa – sia con riferimento alle condizioni soggettive, sia con riferimento allo stato d'insolvenza.

Il caso

- Su reclamo, proposto dal debitore e da altro soggetto interessato, ai sensi dell'art. 18 l. fall., la Corte d'Appello di Milano ha revocato il dichiarato fallimento, in quanto i due unici creditori istanti, nel corso del procedimento prefallimentare, non avrebbero offerto la prova dell'esistenza dei loro rispettivi crediti e, comunque, secondo il ragionamento della Corte, la rinuncia all'istanza di fallimento - anche se avanzata, dai due creditori istanti, nell'ambito del giudizio di reclamo (e, dunque, successivamente alla dichiarazione di fallimento) – avrebbe determinato l'estinzione del giudizio fallimentare ai sensi dell'art. 306 c.p.c.

Le questioni giuridiche

La prima questione giuridica affrontata dalla Corte d'Appello concerne la prova dell'esistenza del credito in forza del quale i creditori istanti hanno chiesto il fallimento del proprio debitore.
Secondo la Corte, con il venir meno della possibilità di dichiarare d'ufficio il fallimento (a seguito delle riforme introdotte con il D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5), il ricorrente sarebbe chiamato ad offrire la piena prova del proprio credito nel corso del procedimento prefallimentare. L'onere a carico del creditore istante deriverebbe dalla mutata connotazione del procedimento fallimentare: a seguito della riforma, il creditore che chiede il fallimento non porrebbe più in essere un'attività meramente sollecitatoria della dichiarazione di fallimento, bensì eserciterebbe un'autonoma azione volta alla tutela del proprio credito.
La seconda questione invece concerne gli effetti della rinuncia all'istanza di fallimento proposta “tardivamente” dai creditori istanti, ovvero nel corso del giudizio di reclamo ex art. 18 l. fall.. A parere della Corte, tale rinuncia produrrebbe gli effetti estintivi di cui all'art. 306 c.p.c., in quanto, da un lato, anche il grado del reclamo sarebbe basato sull'impulso di parte e, dall'altro, la decisione circa la fallibilità dell'impresa, essendo stata impugnata, sarebbe ancora sub iudice.

Osservazioni

La soluzione proposta dalla Corte d'Appello alla prima questione giuridica è ampiamente opinabile. L'assunto secondo cui – a seguito della soppressione della dichiarazione d'ufficio del fallimento – la legittimazione dei creditori istanti a richiedere il fallimento del proprio debitore dipenderebbe dal raggiungimento, nell'ambito del procedimento fallimentare, della piena prova del loro credito, sembra essere contraddetta da recenti pronunce della Corte di cassazione.
In particolare, la Suprema Corte ha precisato che la soppressione del fallimento dichiarabile d'ufficio ha, certamente, riportato il giudice in una posizione di terzietà nel procedimento fallimentare, ma non ha in alcun modo ristretto l'area della legittimazione al ricorso per la dichiarazione di fallimento (Cass. 11 febbraio 2011, n. 3472), con la conseguenza che il creditore istante, nell'ambito del procedimento prefallimentare, continua a non essere onerato dall'obbligo di fornire la piena prova del proprio credito e che sua legittimazione viene meno soltanto qualora il debitore riesca a provare l'inesistenza o l'estinzione del credito azionato (Cass. 5 dicembre 2011, n. 25961). Ancora più recentemente, la Cassazione ha specificato che, in sede prefallimentare, è sufficiente che il giudice – allo scopo di verificare la sussistenza della legittimazione - si limiti a svolgere un accertamento incidentale in merito al credito vantato dall'istante (Cass., Sez. Unite, 23 gennaio 2013, n. 1521). Si situa sulla stessa linea quella giurisprudenza di merito che, in ipotesi di contestazione del credito non giudizialmente accertato, ha ritenuto di dover tutt'al più assegnare al tribunale fallimentare il compito di svolgere una delibazione sommaria e incidentale sulla qualità di creditore del ricorrente (Trib. Monza 8 maggio 2012). Il predetto orientamento giurisprudenziale trova conferma anche nella dottrina, la quale ha correttamente evidenziato che, nel procedimento prefallimentare, l'esistenza e la titolarità del credito fungono da presupposto dell'accertamento che conduce alla sentenza dichiarativa senza costituirne, viceversa, l'oggetto e che, in caso di contestazione, l'organo giudicante sarà semmai chiamato ad una valutazione probabilistica e prudenziale del credito dell'istante (S. De Matteis, Fallimento e altre procedure concorsuali, diretto da L. Panzani e G. Fauceglia, vol. I, Torino, 2009, 168); nello stesso senso, M. Fabiani (Il nuovo diritto fallimentare, diretto da A. Jorio; coordinato da M. Fabiani, vol. I, Bologna, 2006, sub artt. 6-7, 111), secondo il quale, l'accertamento dovrebbe essere condotto non tanto sul credito in sé, per verificarne l'effettiva sussistenza, quanto invece sul presupposto che sia fondata la prospettazione di chi si assume essere creditore. La stessa dottrina ha inoltre correttamente sottolineato che il creditore ricorrente, una volta dichiarato il fallimento, è comunque onerato dal dover presentare domanda di ammissione al passivo se vuole diventare creditore concorrente (M. Fabiani, op. cit., 110-111; cfr. anche S. De Matteis, op. cit., 168) e va da sé che ben potrebbe essere escluso in quanto in tale sede non ritenuto creditore (F. Rolfi, Istanza di fallimento, legittimazione attiva ed accertamento della qualità di creditore, in Fall., 2011, 1196). Dunque, se si volesse seguire la tesi della Corte d'Appello, il credito dell'istante diverrebbe oggetto di un duplice accertamento, con il rischio di pronunce contraddittorie. Pertanto, anche da un punto di vista sistematico, la tesi secondo la quale il tribunale, nell'ambito del procedimento prefallimentare, debba verificare il raggiungimento della piena prova del credito del ricorrente non è condivisibile.
Sulla seconda questione affrontata dalla Corte d'Appello, a quanto consta, non risultano precedenti. La Corte ha ritenuto che la rinuncia dei creditori ricorrenti all'istanza fallimentare, malgrado sia pervenuta soltanto in sede di reclamo, determinerebbe ugualmente un effetto estintivo della procedura fallimentare ex art. 306 c.p.c., in quanto anche in sede di reclamo detta procedura sarebbe basata sull'impulso di parte e la decisione sulla fallibilità sarebbe ancora sub iudice.
E' corretto assimilare la “desistenza” del creditore ricorrente alla rinuncia agli atti di cui all'art. 306 c.p.c. ed è pacifico che, con l'attuale espunzione dell'iniziativa officiosa, in tale ipotesi, il tribunale fallimentare, essendo costretto a prendere atto della volontà del creditore, non possa dichiarare il fallimento dell'imprenditore, anche qualora esso si trovasse in stato di insolvenza. La particolarità della fattispecie esaminata dalla Corte d'Appello risiede nel fatto che l'atto di rinuncia è stato depositato nel giudizio di reclamo e, quindi, successivamente alla pronuncia della dichiarazione di fallimento; occorre dunque soffermarsi brevemente sulla natura del giudizio di reclamo. Tale giudizio (così come il “vecchio” giudizio di opposizione) ha natura rescindente (e non sostitutiva), poiché “l'opposizione non mira a sostituire la sentenza impugnata con una diversa decisione sul medesimo oggetto (di tenore contrario o identico a quello della sentenza impugnata, secondo l'esito del gravame: si pensi, ad esempio, all'appello), ma ad una pronuncia che elimini puramente e semplicemente quella precedente: tanto che la sentenza dichiarativa di fallimento viene caducata con una decisione di revoca nel caso di accoglimento, mentre viene lasciata sussistere così come è (e non sostituita con una decisione di identico contenuto) in caso di rigetto” (E. Ricci, Lezioni sul fallimento, vol. I, Milano, 1997, 188-189). Dalla natura del giudizio di reclamo discende il consolidato principio giurisprudenziale secondo il quale, nel giudizio instaurato per ottenere la revoca del fallimento, non hanno rilevanza i fatti sopravvenuti alla dichiarazione di fallimento, in quanto la pronuncia di revoca del fallimento presuppone l'acquisizione della prova che non sussistevano i presupposti per l'apertura della procedura alla stregua della situazione di fatto esistente al momento in cui essa venne aperta (Cass. 11 febbraio 2011, n. 3479; conforme: Cass. 26 novembre 2002, n. 16658). Ne dovrebbe discendere che la rinuncia all'istanza di fallimento avrà rilevanza soltanto se pervenuta prima della dichiarazione di fallimento, dopodiché essa sarà irrilevante poiché il giudice del reclamo dovrà limitarsi a verificare se tale istanza è restata ferma nel corso di tutto il procedimento prefallimentare. La rinuncia dei creditori istanti potrà semmai (qualora non vi siano altri creditori) determinare la chiusura del fallimento ex art. 118 l. fall. ma non rileverà ai fini della revoca della dichiarazione di fallimento.

Minimi riferimenti giurisprudenziali, bibliografici e normativi

Per comodità espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce rilevanti, i contributi dottrinari e le disposizioni normative interessate, direttamente nel commento.

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